venerdì 11 marzo 2016

IL SOLE E L'ALLORO (Apollo e Dafne)




Per il dio del sole il primo amore fu violento e amaro quanto il veleno, e quell’amarezza precipitò dei e mortali nell’oscurità. Non vi fu luce per giorni, la notte prese il controllo del tempo. Apollo trascurò il cielo, dimenticò la lira e i propri doveri perché nulla oramai era più importante di Dafne, la bella ninfa che gli aveva rubato il cuore. Persino la sorella Artemide, dea della caccia e della luna, che dall'alba dei tempi egli inseguiva e corteggiava e che aveva sempre considerato la fanciulla più desiderabile tra tutte, l'unica capace di farlo tremare con un solo sguardo, era scomparsa dai suoi pensieri; svanita, come un pensiero importante smarrito in un attimo di disattenzione. E da quel caos interiore, da quella nebbia mentale che continuava a presentargli il viso dell'amata Dafne, il dio del sole non poteva e non voleva fuggire.
Era tutta opera di Eros, dio della passione amorosa.
Apollo l’aveva ingenuamente offeso e sfidato, sminuendo la potenza del suo arco e di quelle frecce all’apparenza insignificanti, e adesso, punito per la sua presunzione, avrebbe potuto gridare, strapparsi i capelli, graffiarsi il petto e impazzire d’amore per quell’umile ninfa e niente e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Le emozioni fluivano dal suo cuore come le lacrime che ogni giorno scendevano a rigargli le guance e quel pianto era doloroso, bruciante, folle. Piangeva quando non poteva vedere Dafne, quando doveva cercarla e aspettare, e la passione che gli ardeva dentro era così intensa da togliergli il respiro.
Vi era stato un altro che come lui aveva lottato per conquistare il cuore di Dafne, facendosi a tutti gli effetti suo rivale in amore: Leucippo, un principe mortale.
Per stare vicino a Dafne, che vergine e diffidente allontanava da sé ogni uomo, il giovane si era travestito da donna guadagnando così la fiducia della ninfa e delle sue compagne, sacerdotesse di Gea, dea della terra nonché madre della fanciulla. E Apollo, per amore di quella vendetta che sapeva di dover gustare fredda al fine di trarre il massimo della soddisfazione, aveva ignorato a fatica il richiamo della gelosia, quella feroce e accecante gelosia che attraverso la voce della dea Eris, signora della discordia e dell'astio, gli aveva sussurrato all'orecchio cercando di accendere il suo desiderio di sangue.
A PEZZI! Fallo a pezzi! Nessuno piangerà mai questo omuncolo senza gloria! Scocca cento frecce su quella testa vuota e squarciala come una noce!
Ma Apollo aveva scelto di non sporcarsi le mani bensì di compiere la propria vendetta con quella squisita eleganza che da sempre lo caratterizzava e della quale era molto orgoglioso. Allora si era insinuato subdolamente nella mente delle fanciulle come una cattiva idea e aveva suggerito loro di officiare i riti sacri nude, per essere più pure al cospetto di Gea. E quando Leucippo era stato smarcherato il dio aveva riso di gusto, e quanto era stato bello ridere dopo tanto tempo! C'erano state grida, suppliche, lacrime: il giovane si era prostrato a terra disperato ma le sacerdotesse di Gea non avevano perdonato quell’infamia, quel disgustoso tentativo di insidiare Dafne con l'inganno, e decise a lavare via l'onta lo avevano ucciso. Nessuna pietà per i traditori.
E ora che Leucippo era morto, fra Apollo e la sua graziosa ninfa non vi erano più ostacoli. Ora sarebbe stato tutto più facile, il vero amore avrebbe trionfato, e come rinvigorito da quella consapevolezza il sole splendeva di nuovo, più meraviglioso che mai. Il dio era raggiante.

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Quella mattina Dafne era andata al bosco e Apollo lo sapeva: la stava cercando. Si sarebbe dichiarato a lei e le avrebbe mostrato tutta la sua luce, il suo amore, la sua devozione. Ritto e sicuro di sé, non era scosso da moti di timidezza né da quelle sciocche paranoie tipiche dei mortali innamorati. Non temeva un rifiuto: era un dio, il più bello dell’Olimpo e per questo Dafne l’avrebbe amato. Apollo ne era certo.
Ma egli non sapeva che Eros aveva trafitto il cuore della ninfa con una freccia di piombo: una freccia spuntata, differente da quelle d’oro dell’amore, che avrebbe portato la fanciulla a reagire con orrore e repulsione alla passione del dio. Era già tutto scritto, tutto deciso, ma i due ancora non lo sapevano. 
Eccola!
Apollo sentì un piacevole tuffo al cuore. Dafne era là, accucciata accanto a un cespuglio di rovi. Stava raccogliendo delle more; la veste turchese, i capelli raccolti con cura sopra la nuca, i piedi nudi e perfetti, da dea…
Apollo, voglioso di stringerla fra le braccia e incapace di resistere ancora, le fu davanti.
«Sei tu» disse porgendole morbidamente la mano. «Dolce figlia di Peneo e della Terra. Dafne. Mia musa e unico amore.»
La ninfa, sorpresa, sollevò gli occhi color nocciola e incontrò quelli verdi del dio. Subito scattò in piedi. Le more le caddero dalle mani, il corpo intero si irrigidì. «Ti prego, vai via!» esclamò facendo un passo indietro.
Quelle parole colpirono Apollo in pieno viso come uno schiaffo. Arrossì violentemente, ritirò la mano: non era preparato a ricevere un rifiuto. Abbozzò un sorriso incerto che in un attimo si fece trionfante. Decise di offrire subito il meglio di sé. «La tua ingenuità parla per te, ma lo comprendo. Sono il dio Apollo, fanciulla. È mio il sole che ti accarezza le gote al mattino, e mia è la luce che ti accompagna quando ti incammini al tempio a pregare. Il mio nome ti è noto e io ora sono qua, dinnanzi a te. Sei bella, Dafne. Libera come la brezza della sera ed elegante quanto Afrodite. Da troppo tempo questo dio piange per te. Ti prego, rendilo degno del tuo amore. Non rifiutare.» Apollo tese di nuovo la mano alla ninfa più splendido che mai: alto, biondo, sorridente. Nessuna mortale sarebbe stata così folle da rifiutarlo ed egli lo sapeva bene.
Ma Dafne era immune al suo fascino e ne sembrava addirittura terrorizzata. Scosse la testa in segno di rifiuto e rapida si voltò, decisa ad andarsene.

Il cuore innamorato di Apollo si infiammò di rabbia e dolore. «NO!» esclamò il dio afferrando con forza la ninfa per il polso. «Come puoi farmi questo?»
«Lasciami stare!» gridò Dafne cercando di fuggire. Era spaventata ma anche furiosa. «Non voglio!»
«Mio amore, ti prego, ascoltami! Non voglio farti del male! Che fossi maledetto per l’eternità se osassi fare una cosa simile! Ti prego, non rifiutarmi!»
Agitata come una lepre nel sacco, Dafne si aggrappò alla mano del dio nel tentativo di staccarla da sé. Non sopportava l’idea di farsi toccare da lui e di averlo vicino.
Disperato, Apollo si inginocchiò senza però mollare la ninfa. «Ti prego, Dafne! Amami! Senza di te la vita è vana! Guardalo! Guardalo questo povero dio che si inginocchia per te! Come puoi rifiutarlo? Con che cuore?»
Svelta Dafne si abbassò, raccolse della terra con la mano libera e la lanciò in faccia al dio cogliendolo di sorpresa.
Apollo si portò le mani al volto. «NO!» gridò sconvolto. «P-perché...»
La ninfa, approfittando di quegli attimi di distrazione del dio, si alzò e scappò via, fra le querce e i pioppi del bosco, veloce come una preda a cui il destino aveva offerto un'ultima possibilità di salvezza.
Col dorso delle mani Apollo si pulì la terra dagli occhi, che bruciavano e lacrimavano più per il rifiuto che per la polvere, e traballante si rialzò. «Dafne!» urlò con quanta voce aveva in corpo e subito si mise a correrle dietro. «Mia Dafne, non temermi! La mia devozione per te non ha limiti, mai ti farei del male! Io ti amo! Non fuggire da me! Amami, ti supplico, e saremo felici insieme! DAFNE!»
Pur udendo le grida di dolore del dio la ninfa non si fermò e si sforzò di correre più veloce, ma era lenta, impacciata. L'intricato sottobosco ostacolava la sua corsa in ogni modo: i rami le graffiavano le caviglie, il muschio umido la faceva scivolare. All’improvviso cadde e una radice sporgente e ruvida le ferì la guancia. Si toccò e la vista del sangue la fece scoppiare in lacrime. Sudata, sfinita e con la bella tunica ora strappata e nera di fango, Dafne si sentì perduta ma represse con forza quel moto di rassegnazione e riprese a correre. Il pianto e l'angoscia le facevano tremare le gambe, i singulti le mozzavano il fiato.
E anche Apollo, poco più indietro, piangeva, certo che se non avesse avuto l’amore della bella ninfa sarebbe stato solo e senza gioia fino alla fine dei tempi, ed era pazzo, pazzo d'ira nei confronti di Eros. Se questa follia, questa mescolanza di grida e lacrime era realmente l’amore a cui tutti ambivano, la passione nella quale tutti sognavano di perdersi, allora sarebbe stato meglio starne alla larga e temerla come la peggiore delle malattie: Apollo ne era convinto più che mai.
«Dafne, ti prego! Dove sei?» La voce del dio si faceva sempre più forte. «Dafne!»
La ninfa, senza più fiato, strisciò dietro al tronco di una quercia. Si asciugò le lacrime con entrambe le mani, la terra le sporcò il viso. Ansimava come un capriolo allo stremo delle forze, costretto a scegliere tra i lupi e l’abisso, e angosciata si chiese se il dio l’avrebbe mai lasciata andare e se sarebbe tornata ad essere una spensierata ninfa che raccoglie le more.
Non voglio, ti prego, lasciami! Vattene via!
«TI AMO, mia ninfa!» gridò Apollo agli alberi e al cielo con tutta la voce e la disperazione che aveva in corpo, sapendo che la fanciulla avrebbe sentito. «Non posso stare senza te, accetta il mio amore! AMAMI! Amami o fuggi tutta la vita perché io ti seguirò, da Creta a Epiro, da Rodi a Salonicco, non ci sarà posto dove non potrò seguirti! Oh, deliziosa ninfa... se solo potessi capire quanto crudele è questa bestia che mi divora! È fuoco e ghiaccio e fame... fame nera, di te! È AMORE! Amami, DAFNE!» Apollo si portò una mano al cuore che gli martellava nel petto. Gli occhi lucidi di pianto erano tristi e vuoti. Sussurrò: «…amami… te ne prego…»
Dafne capì che il dio non l’avrebbe lasciata, non quel giorno almeno. Se stesse dicendo sul serio sul fatto di seguirla per l’eternità non lo sapeva, ma era certa che non si sarebbe staccato da lei fino a quando non fosse riuscita a seminarlo. E doveva riuscirci, doveva farcela. L’idea di averlo vicino la paralizzava e le attorcigliava le viscere quasi il dio del sole, dalla bellezza leggendaria, non fosse altro che un enorme scarafaggio deciso a posarsi a tutti i costi sul suo viso.
Doveva scappare e doveva farlo subito, perché là, nel bosco, non era al sicuro.
Dafne si alzò in piedi, sostenendosi al tronco della quercia. Ascoltò il bosco, i suoi rumori, i suoi impercettibili fruscii. Decise che era il momento di scattare.
Eolo mio, assistimi, ti supplico. Accompagnami con la tua mano, guidami col tuo soffio, fammi scivolare veloce fra queste fronde ostili e fa’ che l’aria mi sia lieve… ascolta la mia preghiera e aiutami…
La ninfa si lanciò fuori dal suo nascondiglio e riprese la fuga tuffandosi fra i cespugli; la veste arrotolata sulle cosce, l’acconciatura ormai sfatta. Si voltò e fra i boccoli che iniziavano a scenderle accanto al viso vide Apollo.
Era là, fra le querce.
Tremendamente vicino.
I loro sguardi si incrociarono.
«Dafne!» esclamò il dio e subito le corse dietro; i capelli biondi spettinati, gli occhi enormi di stupore e desiderio. «Aspetta, mio amore! ASPETTA!»
«NO!» gridò ella continuando a correre. Ora aveva i capelli sciolti sulle spalle, le guance rosse per lo sforzo. «Vai via! LASCIAMI STARE!»
Apollo sentì la passione farsi più feroce. Quanto era bella con quella chioma libera e selvaggia, le cosce scoperte, i glutei che ondeggiavano sotto la veste come onde alla luce del mattino... quei glutei che nessun uomo aveva ancora sfiorato e stretto a sé...
«Fermati, ninfa! Accetta le mie braccia! Non sputare sul mio amore!»
Dafne non si fermò. Attraversò un ruscello, scivolò sui sassi, si rialzò; le gambe doloranti, la tunica ora fradicia e pesante. Riprese a correre e Apollo la seguì, molto più agile e veloce: superò la striscia d’acqua, schivò rami e arbusti persistendo nel gridare il suo nome fino a quando raggiunsero una radura d’erba morbida come seta.
Il tempio era ancora lontano e Dafne capì che non ce l’avrebbe fatta a fuggire dal dio. Il contatto con quell’erba soffice fu una grazia inaspettata ma il dolore e lo sfinimento erano ormai troppo intensi; schegge ai piedi, tagli alle ginocchia… Dafne sentì la ferita alla guancia bruciare e fitte continue alla caviglia sinistra scuoterla ad ogni passo. Realizzò che doveva essersela storta poco prima cadendo sui sassi del ruscello.
Non ce la faccio… qualcuno mi aiuti…
Zoppicante, la fanciulla capì che era finita. Ancora poco e avrebbe perso le forze.
«Dolce creatura, mio unico amore! FERMATI!» Apollo era sempre più vicino.
Stremata e ormai senza speranza, la ninfa rivolse le ultime preghiere a sua madre Gea, la Terra, e gridò. «Madre mia, ti prego! Salva tua figlia! Ha paura ed è persa! Proteggila! Fa’ che le calde mani del dio del sole non sfiorino mai la sua pelle di ninfa! Salvala, amatissima madre! SALVA TUA FIGLIA!»
La generosa Gea non poté ignorare la richiesta della sua creatura e subito le venne in aiuto, decisa a proteggerla.
Dafne iniziò a rallentare la sua corsa: i piedi le si fecero pesanti come se l’erba fosse improvvisamente diventata magnetica, collosa, ed ella si sentì sprofondare nel terreno. Era un contatto freddo ma piacevole, una strana sensazione di unione, un amplesso con la terra. Le sembrò di precipitare e volare insieme e sfinita si lasciò cadere, ma non cadde. Ora le gambe erano dure, sempre più dure e rigide come pilastri. Dafne sollevò le braccia al cielo; i capelli leggeri come l’aria, la veste un impalpabile velo. Sentì le cosce farsi lunghe e robuste, la pelle perdere la sua morbidezza. Vide le dita allungarsi nell’azzurro del mattino, moltiplicarsi e diramarsi come vene scure e sottili. Sorrise lievemente, colta da un profondo senso di pace mentre gemme verdi le spuntavano qua e là sulla pelle facendosi sempre più numerose: germogli e foglie. Foglie sulle dita, sulle mani, sulle braccia. Ovunque.
«NO!» Apollo gridò sconvolto e subito si lanciò sull’amata. Dafne, le braccia ormai incollate per sempre al cielo, si voltò un’ultima volta verso il dio e capì di essere salva: il suo bel corpo di ninfa era divenuto un ruvido tronco, le gambe scomparse, e dei lunghi capelli non vi erano che rami e un fitto fogliame color smeraldo. Apollo vide il suo viso allungarsi verso l’alto spalmato su quella grezza corteccia, e quando si schiantò su quel legno duro e lo abbracciò Dafne non c’era più.
«TI PREGO, NO!» Il dio fece correre le mani sull'albero come impazzito, alla ricerca di un segno qualunque che gli suggerisse che riavere indietro la sua amata fosse possibile. Ci girò intorno, tastò il legno, scrutò il fogliame che ora dondolava silenzioso mosso dal vento. «NULLA! NON C'È NULLA!» esclamò infine schiacciando la fronte umida di sudore sul tronco, e avvilito si lasciò sopraffare dalla disperazione e pianse.
Colpì l’albero coi pugni, ne graffiò la corteccia fino a farsi sanguinare le mani e gridò il suo dolore alla Grecia intera.
«Se non sarai mia... sarai del mondo» singhiozzò fra le lacrime e i sospiri accarezzando il tronco di quell’incantevole alloro che per sempre gli avrebbe ricordato la graziosa ninfa. «Sarai tu, ora e per l’eternità tutta, pianta sacra del sole. Maestosa darai il benvenuto ai sacerdoti di Delfi e dei vincitori e degli eroi sarai preziosa corona, e mai appassirai ma custodirai il tuo colore con la neve e l’arsura, il ghiaccio e la tempesta affinché tu sia sempre verde e bella e odorosa. Questo è il volere di Apollo.»
Il dio staccò con delicatezza un rametto di alloro, lo curvò e se lo poggiò sul capo in memoria di Dafne, suo primo grande amore. Sfiorò con la mano la corteccia dell'albero un’ultima volta e infine se ne andò.


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