giovedì 2 gennaio 2020

I DUE GUERRIERI (Ares e Atena)



Quando seppe ciò che era accaduto ad Atena, Ares non rise.
Restò immobile a fissare il vuoto con occhi sgranati, mentre Dioniso e Hermes sghignazzavano come matti e gli mollavano vigorose pacche sulla schiena, pronti a nutrirsi del divertimento che si aspettavano di vedere traboccare da ogni poro della sua pelle. Ma lui non rise e per un paio di secondi restò così, congelato dall’incredulità e assordato da quelle risate scimmiesche che ben conosceva e apprezzava, ma che adesso non riuscivano in alcun modo a sollevargli gli angoli della bocca. Poi, il ghiacciò si spaccò, il corpo sfuggì al suo controllo, bollente come metallo appena forgiato, e con l’energia di mille carri da guerra il tracio si lanciò tra i sentieri sfavillanti dell’Olimpo. Non si rese conto di ciò che faceva, non rifletté sul proprio operato: la sua testa era vuota di pensieri e piena di rabbia cieca e travolgente; il genere di collera che precede un omicidio efferato, e che presto esplose contro la porta della fucina di Efesto.
Ares mollò un calcio all’anta e la spalancò con un boato. Quindi entrò nel fumoso laboratorio.
Martello alla mano, in piedi davanti all’incudine, il fabbro lo guardò a bocca aperta: non poteva credere a ciò che stava accadendo. Aveva forse dimenticato un’ordinazione? Quel barbaro sconsiderato era davvero così pazzo da prendersela in quel modo per un’inezia simile? Probabilmente sì. Del resto, quelli erano gli anni della guerra di Troia e chi, più del Signore della Strage, avrebbe avuto il diritto di adirarsi se un’armatura non fosse stata completata entro i termini pattuiti?
Efesto fece per parlare, quando il guerriero emise un ringhio bestiale, afferrò uno dei tavoli e lo scaraventò contro il muro. Il legno andò in pezzi come si fosse schiantato contro una montagna, ferraglia d’ogni genere si sparse ovunque con fragore metallico. Poi, Ares si fiondò sul fabbro e lo afferrò per il grembiule da lavoro.
«MERDOSO D’UNO STORPIO!» gridò, sollevandolo in aria e schiacciandolo contro il muro, il volto rosso d’ira, le pupille minuscole come granelli di carbone in un mare d’ambra luccicante. «Come hai osato fare una cosa del genere? Come cazzo ti sei permesso?»
Efesto lasciò cadere il martello e afferrò istintivamente le grosse braccia del tracio, tentando di liberarsi. Il modo in cui questi lo premeva contro la pietra gli schiacciava i polmoni, impedendogli di respirare. «A…res! C-cosa…?»
«Sai bene cosa hai fatto!» ruggì il guerriero. «Tutti parlano della soddisfazione che ti sei preso!»
Il fabbro tossì, emise una specie di gorgoglio e tossì di nuovo. «N-non so di cosa parli! Dico davvero!»
«ATENA!» gridò lui, scuotendo l’avversario così forte da fargli battere i denti. «Ecco di cosa parlo!»
«At-» Efesto tossì di nuovo. «Io non…»
Ares mollò il poveretto che, zoppo com’era e preso alla sprovvista, subito si accasciò a terra. Lo guardò con disgusto, afferrò la stampella appoggiata al ceppo dell’incudine e gliela gettò addosso. «Alzati, pezzo di sterco!» esclamò. «E smettila di mentire.»
Efesto si aggrappò alla stampella e si tirò su, l’espressione ora più infastidita che spaventata. Da anni era abituato a sopportare i familiari – che non si facevano alcuno scrupolo a deriderlo appena si presentava loro l’occasione – ma il modo in cui il guerriero lo stava trattando andava ben oltre alle semplici risatine che era abituato a ricevere alle proprie spalle, e cominciava a innervosirlo.
«Cosa vuoi che ti dica, Ares?» domandò guardandolo negli occhi. «Se non ti decidi a spiegarmi qual è il tuo problema puoi anche andartene perché, a differenza tua, io ho molto lavoro da fare.»
«Non t’azzardare a usare questo tono con me!» gridò il tracio scagliando a terra una cassetta piena di tenaglie. «Sono l’ultima persona con cui ti conviene fare lo stronzo!»
«Perché sei arrabbiato? Dimmi cos’ho fatto, invece di sfasciarmi la fucina!»
Ares digrignò i denti in una smorfia feroce. «Hai tentato di stuprare Atena!» gridò.
«Stuprare, io? Oh, no! Non è così che è andata! È stato tutto un malinteso!» Efesto alzò entrambe le mani e si strinse nelle spalle, il volto segnato da rughe di dispiacere sincero. «Qualche giorno fa, Atena mi commissionò un’armatura nuova e io le dissi che non volevo oro da lei, ma che mi sarei assunto l’incarico per amore. Fu una sciocchezza detta così per dire, è ovvio. Sapevo che non avrebbe mai ceduto la sua preziosa verginità al Dio più brutto e deriso dell’Olimpo. Ma poi Poseidone mi rivelò che lei aveva deciso di concedersi a me e che persino Zeus approvava la nostra unione. Mi disse che era troppo pudica per ammettere la voglia che le ardeva dentro e che, perciò, spettava a me farmi avanti. Non mi aveva mai mentito prima, Poseidone, così mi fidai di lui, come un povero stolto! E quando Atena tornò per ritirare l’armatura, be’… tentai di fare l’amore con lei e non mi accorsi subito che non voleva, perché pensai fosse timida. Ma non l’ho stuprata! Non ho mai neppure pensato di farlo! Sia io che lei siamo stati vittime di uno scherzo crudele. Questo è ciò che è successo.»
«SO BENE COS’È SUCCESSO!» Ares mollò un calcio a una delle tenaglie cadute a terra, scaraventandola dall’altra parte della fucina. «Hai tentato di scopartela ma non ci sei riuscito, perché lei si dimenava, e nella foga le hai sborrato sulla coscia!»
Efesto rimase interdetto: aveva sospettato che l’incidente con Atena fosse ormai di pubblico dominio, ma il fatto che tutti gli Dei sapessero che l’abbraccio con la Pallade l’aveva portato a una rapida eiaculazione gli scatenò un grande imbarazzo. «Atena è molto bella» disse con un sospiro stanco. «Chiunque al mio posto avreb-»   
«Chiudi quella cazzo di bocca!» gridò Ares, il dito puntato contro di lui. «Zoppo maledetto! Le hai sborrato sulla coscia! Meriteresti d’essere evirato per ciò che hai fatto!»
«Perché t’infuri?» Le spesse e scure sopracciglia di Efesto quasi si toccarono sopra al naso in un cipiglio d’incomprensione. «Tu odi Atena.»
«Certo che la odio! Non la sopporto e neppure lei sopporta me!»
«Allora perché ti arrabbi in questo modo?»
Ares prese a camminare avanti e indietro come una pantera in gabbia, i muscoli gonfi, le narici che soffiavano aria rovente, gli occhi spalancati e cerchiati dal furore. Non sapeva cosa rispondere, non ricordava com’era finito in quella surreale situazione in cui tutto gli sembrava sbagliato a cominciare dalla collera che lo stava facendo bruciare come una gigantesca pira. Emise un grugnito, scosse la testa, si passò la mano sul volto sudato, continuando a sfilare nervosamente davanti alla forgia.
«Se non fossi certo dell’odio che nutri per Atena, direi che sei geloso di lei» disse Efesto, seguendolo con lo sguardo.
«Io la odio, quella puttana!» Ares si girò di scatto verso il fabbro. «Geloso di lei? Io? Devi aver preso troppe botte al cervello rotolando giù dall’Olimpo, orrido storpio!»
«Eppure ti sei precipitato qui, neanche fossi suo marito. Ma a dire la verità, non m’interessa sapere cosa ti passa per la testa.»
«Ecco, bravo. Fai bene a farti i cazzi tuoi.»
Efesto rivolse all’amante di sua moglie un sorriso affilato, di chi sta per infilare il dito nella piaga con sadico piacere: ormai aveva scoperto qual era il segreto che nascondeva, e desiderava approfittare dell’occasione per vendicarsi di lui. «Ma forse a te interessa sapere cosa si prova a sborrare su Atena. Sai com’è, al momento questa bella sensazione la conosco solo io.»
Ares sentì una vampata salirgli dal petto fino alla punta dei capelli: fuoco puro, insopportabile, che gli contrasse il volto in un’espressione selvaggia. Odiava Efesto per ciò che gli stava facendo, ma ancora di più odiava se stesso per l’insensata gelosia che provava nei confronti di Atena; quella gelosia che non riusciva in alcun modo a nascondere e che gli stava costando una pesante umiliazione.
Ruggì e scaricò il pugno contro il muro. Crepe nere simili a folgori si diramarono dalle sue nocche e corsero tra le pietre, assottigliandosi fino a scomparire nella tenebra fuligginosa. Il dolore alla mano non lo appagò, la rabbia non si spense perché un suo personale equilibrio – del quale fino ad allora aveva ignorato l’esistenza – era andato perduto per sempre, e nulla avrebbe potuto cambiare quel fatto.
Riafferrò per il grembiule il fabbro – che ora lo guardava incredulo – e lo tirò a sé con uno strattone. Lo fissò dritto nelle pupille, respirandogli addosso e detestando ogni molecola del suo corpo curvo e tozzo; quel corpo che aveva osato stringere Atena in un abbraccio sessuale e sporcare la sua bianca pelle di sperma. Quanto gli sarebbe piaciuto spaccare tutte le ossa a quel miserabile! Quanto si sarebbe divertito a trasformare la sua carne lussuriosa in una poltiglia percorsa da scariche di dolore lancinante! Avrebbe goduto da morire nel renderlo ancora più zoppo, ma anche nell’impeto dell’ira il guerriero ricordò di avere le mani legate perché Efesto era figlio di Era, come lui. Un fratello dello stesso grembo. E l’austera madre – che già lo sopportava a fatica a causa della sua indole violenta e sanguinaria – non lo avrebbe mai perdonato se avesse osato metterla in imbarazzo di fronte a Zeus e al resto della famiglia, commettendo una simile follia ai danni del fratello. E tutto questo per cosa, poi? Perché era geloso di Atena?
Ares mollò Efesto spingendolo all’indietro e si lanciò fuori dalla fucina. Le sagome degli Dei celesti gli sfrecciarono accanto come illusioni, nulla riuscì a trattenere il suo sguardo: la furia gli alterava la mente e lo avvolgeva come nebbia fitta, impedendogli di vedere la realtà. Passò davanti al tempio di Atena, afferrò per il tronco uno degli ulivi che decoravano la via e lo sradicò dalla terra, gettandolo contro le colonne frontali. Agì d’impulso, adirato anche con la Pallade per ciò che era accaduto. Poi si voltò, frantumò con un calcio uno dei vasi di fiori adagiati ai lati del sentiero e fece per andarsene, quando una voce di Dea furiosa scoppiò alle sue spalle.
«Buzzurro maledetto! Smettila subito!» Atena uscì dal tempio e si fermò sui gradini, gli occhi cerulei che splendevano come specchi colpiti dal sole, l’elmo di bronzo in bilico sulla fronte, la dory stretta nel pugno. Era furibonda per l’attacco che stava subendo e i luccicanti abiti da guerra la facevano apparire più minacciosa che mai.
Il Dio la guardò, stupito dalla sua apparizione. Aveva pensato che fosse già discesa sulla Terra per combattere accanto all’esercito di Agamennone, ma nel vederla in tenuta da battaglia, così bella, pulita e lucente, capì di averla incrociata per un soffio prima del suo ritorno a Troia. Le andò incontro, rosso di rabbia, e lei fece lo stesso, lanciandosi giù dai gradini. Nessuno dei due sapeva cosa stava accadendo, ma entrambi sentivano la necessità impellente di far valere le proprie ragioni.
«Eccola qua, la puttana!» gridò Ares fermandosi davanti alla Dea. Non la sfiorò con un dito, come se tra loro fosse sorta un’invisibile barriera, e incombette su di lei coprendola d’ombra.
«Che ti salta in mente? Qui non siamo a Troia!» Atena picchiò l’estremità inferiore della dory contro il lastricato di pietra, il rumore causato dal colpo si propagò come un tuono soverchiando per un istante la sua voce. Sentiva le dita pizzicare dalla voglia di spaccare il naso al fratello; un impulso che stava mettendo a dura prova la sua capacità di autocontrollo. «Ci sono delle regole da rispettare, razza di barbaro incivile! Non puoi devastarmi la casa solo perché gli uomini di Ettore stanno perdendo!» 
«Che cazzo me ne frega di Ettore!» rispose Ares dando in escandescenze. «Credi sia una questione di guerra? Di schieramenti?»
«Certo che sì!» rispose Atena, sempre più innervosita. «Nessun altro Dio caro ai Troiani sarebbe così arrogante e pazzo da attaccarmi sull’Olimpo, a parte te!»
«Troia non c’entra nulla! Sei tu il problema!»
«Di che stai parlando?»
«Di’ la verità! Ti è piaciuto farti sborrare addosso da Efesto!»
Un lampo di sgomento sincero attraversò il viso di Atena. Era consapevole del fatto che i familiari stessero ridendo di lei – chi più, chi meno – per lo scherzo di cui era caduta vittima insieme al fabbro, ma fino a quel momento nessuno aveva osato parlarle apertamente della vicenda, e men che meno lo aveva fatto scegliendo termini così brutali. Ma Ares non era là per deriderla. Non c’era alcun sorriso tronfio sulla sua faccia, neanche un misero accenno di soddisfazione. E che dire dello sfacelo che aveva fatto davanti al tempio? Un gesto frutto di una rabbia prorompente al quale Atena, ora, non riusciva più a dare un significato.
«Non voglio parlare di ciò che è accaduto» disse la Dea sforzandosi di non abbassare lo sguardo e di tenerlo fisso su quello del tracio. Non aveva alcun controllo sulla vergogna che le stava colorando le guance, ma sugli occhi sì, quelli poteva e doveva tenerli ben alti. «Voglio sapere perché hai sradicato uno dei miei ulivi e distrutto uno dei miei vasi.»
Ares gettò un’occhiata all’albero che giaceva oltre alle spalle di Atena, schiantato contro alle colonne, e a poco a poco si calmò, sprofondando in un fastidioso imbarazzo. Che stava facendo? In che razza di trappola senza via d’uscita si era andato a cacciare?
Guardò di nuovo la Dea e, per un momento, gli sembrò di tornare indietro nel tempo, a quando da ragazzino pendeva dalle sue labbra e sognava di diventare un guerriero forte e meraviglioso come lei. L’aveva ammirata in silenzio per anni. Numerose erano state le volte in cui, durante l’adolescenza, si era sfogato in solitudine immaginandola nuda e innumerevoli quelle in cui, da adulto, aveva raggiunto rapidi orgasmi sognando di violarla, di castigarla, di punirla per la sua spocchia costringendola ad apprezzare un’arte volgare in cui lui, e non lei, era maestro indiscusso. La odiava e la invidiava perché era la figlia favorita di Zeus; perché era intelligente e amata dai mortali; perché vinceva in un solo mese più battaglie di quante riuscisse a vincerne lui in un anno intero. La odiava perché la desiderava e non riusciva a smettere di desiderarla, pur sapendo che i loro corpi – a differenza delle armi – non si sarebbero mai sfiorati. E a quella particolare frustrazione si era abituato, l’aveva fatta sua rassegnandosi all’idea che dalla Dea non avrebbe avuto mai nulla, a parte freddezza e disprezzo. Ma ora non riusciva più a rassegnarsi e a farsi bastare l’odio, perché Efesto aveva condiviso un’esperienza unica e intima con lei, e lui, che l’odiava e l’amava da centinaia di anni, era rimasto a bocca asciutta, solo con la propria inconfessabile gelosia e la sensazione d’aver perduto per sempre qualcosa d’importante.
Atena, che riusciva a leggere dentro al guerriero più di quanto lui immaginasse, provò disagio nel vederlo così turbato. Sguardi particolari al suo corpo – scoccati quand’era sicuro di non essere visto o quand’era semplicemente sovrappensiero – l’avevano indotta a sospettare che fosse ancora infatuato di lei, come lo era stato da ragazzino e forse addirittura di più, ma quel pensiero le era sempre sembrato troppo inverosimile e ridicolo da meritare un approfondimento. Alla luce dei nuovi fatti, però, la Pallade sentiva di non avere più alcun dubbio a riguardo, ma solo una sconvolgente certezza che non sapeva come gestire.
Alzò con eleganza il braccio. La fida civetta scese rapida dal cielo e si posò sulla sua mano.
«Non ho tempo per le tue sciocchezze, devo tornare a Troia» disse con fretta e imbarazzo evidenti. Quindi superò il tracio e si allontanò. 
Ares la seguì con lo sguardo finché la vide sparire tra i templi, poi si fissò la mano: le nocche erano lucide d’icore e sporche della fuliggine che copriva il muro della fucina di Efesto; quella stessa fuliggine che doveva aver lordato le pallide cosce di Atena, mentre il fabbro la stringeva e palpava con dita nere, arrapato come una bestia in calore.
Il Signore degli Opliti ringhiò e sferrò uno, due, tre pugni all’aria. Poi si allontanò a grandi falcate. Aveva bisogno di combattere e uccidere, e ne aveva bisogno ora. 

martedì 9 luglio 2019

PAURA E TERRORE - (La nascita di Phobos e Deimos)




Afrodite capì subito di essere rimasta incinta, non appena aprì gli occhi e la luce del nuovo giorno le si distese sul viso. Ancora nuda per la notte d’amore trascorsa, si rigirò nel letto, allungò le braccia intorno al corpo di Ares e lo baciò sulla guancia. Il guerriero si svegliò, emise un mugolio e le rivolse la solita occhiata annebbiata, da bimbo morto di sonno, che le faceva puntualmente sciogliere il cuore. Afrodite lo baciò di nuovo, stavolta sull’angolo della bocca, e l’espressione buffa di lui si addolcì, trasformandosi in un tenero sorriso. Amavano svegliarsi insieme quasi quanto amavano abbandonarsi alle gioie del sesso, e quella luminosa mattina – mentre si scambiavano lunghi sguardi d’amore nell’intimità della dimora di lei, a Corinto – entrambi sentirono sbocciare nell’animo una gradevole certezza, una sensazione che ben conoscevano e che accoglievano sempre con piacere: quella che avevano di fronte sarebbe stata una bellissima giornata.
Si crogiolarono per un po’ tra le lenzuola, baciandosi e accarezzandosi, poi Ares si alzò controvoglia e si rivestì. Aveva una guerra in Messenia ad attenderlo e circa quattromila opliti, suoi seguaci, da condurre alla vittoria. S’infilò la corazza di bronzo, si piegò e si allacciò i sandali. Nuda e coi capelli sciolti, Afrodite si alzò a sua volta, gli prese la mano spingendolo a rialzarsi e se la posò sul ventre. Ares la guardò negli occhi e, benché fosse il meno perspicace tra i figli di Zeus, capì all’istante ciò che l’amata gli stava comunicando: a differenza delle mortali, che necessitavano di mesi prima di poter confermare una gravidanza, le Dee sentivano immediatamente se il loro grembo era stato seminato e, a riguardo, non sbagliavano mai.
Sorrise e le accarezzò la pancia con impacciata delicatezza.
«So a cosa stai pensando.» Afrodite sorrise a sua volta. «Ricorda che potrebbe anche essere una femmina.»
«Maschio o femmina che sia mi va bene, purché sia forte. Un figlio che possa condividere con me il furore della battaglia.»
«Mmh…» La Dea storse la bocca: l’idea di un figlio assetato di sangue, simile in tutto a suo padre, non le piaceva affatto. «Mi auguro, invece, che goda di un temperamento dolce e pacifico come il nostro Eros.»
«Hah!» Ares emise una risata sprezzante e si piegò di nuovo per legarsi gli schinieri. «Il tuo amore di madre ti rende cieca e ingenua. Eros è uno stronzetto tutt’altro che pacifico!»
«Sì che è pacifico!» sbuffò Afrodite, offesa. «E non parlare così del mio bambino!»
«So che lo adori.» Il guerriero la prese tra le braccia, divertito dal suo visino imbronciato. «Lo adoro anch’io, quel moccioso svolazzante, anche se in certi momenti gli spaccherei le ossa…»
«Sei cattivo!» Afrodite lo respinse per gioco e Ares, che una simile mossa se l’aspettava, l’afferrò per la mano, l’attirò a sé e la cinse di nuovo. «Eros è così buono con te e tu lo maltratti sempre! Meriteresti un figlio cattivo come te, che ti rompa la faccia! Ecco!»
«Un figlio in grado di rompermi la faccia è proprio quello che desidero.» Il tracio posò di nuovo la mano sul morbido ventre della Dea. «Chissà che questa non sia la volta buona…»
«Il Fato ti punirà per la tua crudeltà.» Afrodite affondò le dita tra i capelli di lui, offrendogli un gradevole massaggio al capo. «Sarà una femmina» aggiunse sorridendo. «Una bimba splendida e delicata come la sua mamma. La bimba più dolce di tutto l’Olimpo e di tutta l’Ellade.»
«Ugh…» Ares mimò una faccia disgustata. «Una creatura del genere non può nascere da me.»
«Io credo di sì.»
«Vedremo.» Il guerriero sciolse l’abbraccio, si legò il mantello alla spalla e afferrò l’elmo e la lancia. Era pronto ad andare. «Dammi ancora un bacio...»
Afrodite non se lo fece ripetere e unì le labbra a quelle del Signore dei Soldati. «Torna vincitore…» gli sussurrò sulla bocca.
«Così sarà.» Ares rubò alla Dea un ultimo e velocissimo bacio, poi indossò l’elmo e se ne andò.
Rimasta sola, Afrodite tornò a letto e si rotolò ancora per qualche minuto tra le lenzuola. Poi chiamò a sé le ancelle, ordinò loro di prepararle un bagno caldo e, non appena la vasca fu colma, vi s’immerse fino al collo. Intorno a lei, le serve si affaccendavano saltellando aggraziate per il bagno, come tortore nei pressi di una fontana: c’era chi spargeva sul pelo dell’acqua petali di mandorlo, chi versava olii profumati, chi reggeva asciugamani ancora tiepidi di sole, tuniche più azzurre del mare, sandali ingemmati e lucenti; e poi collane di conchiglie e coralli, orecchini di perle e smeraldi, cinture di cuoio dalle fibbie d’argento, brocche d’acqua fredda e acqua calda, anfore d’olio di nardo, lacci di seta marina per capelli, pettini d’oro, corone di fiori di gelsomino…
Preparare la Dea della Bellezza per il nuovo giorno era un compito lungo e minuzioso che le ancelle corinzie – fanciulle graziose e un po’ civettuole – svolgevano sempre con gran piacere.
Afrodite chiuse gli occhi, rilassata dai mille profumi che ora riempivano il bagno. Dondolò pigramente le braccia sott’acqua, increspandone la superficie, quindi si accarezzò la pancia con entrambe le mani. Gli impercettibili movimenti dell’acqua comunicavano col suo ventre fecondato, infondendole in corpo un’indescrivibile sensazione di benessere, di pace esistenziale. Sorrise e poggiò la testa all’indietro, sul bordo della vasca, mentre le sue aspettative sul futuro crescevano, supportate da quelli che erano i suoi ricordi passati.
Portare in grembo Eros era stata, per lei, un’esperienza meravigliosa. Di giorno in giorno aveva sentito crescere dentro di sé ogni genere di emozione positiva: amore, gioia, serenità, compassione. Il suo cuore, già dolce come il nettare che deliziava le gole degli Dei a ogni banchetto, durante la gravidanza si era intenerito e colmato di una strana forma di riconoscenza, perché il mondo era bello, gli Dei erano belli, persino i mortali erano belli, e per tutto ciò che la circondava si era sentita follemente grata. E ai suoi sorrisi stupendi, ai sospiri incantati, ai saluti entusiasti il mondo aveva sempre risposto, dilatando la propria bellezza. Al suo passaggio sulla battigia, il mare di Cipro si era tinto d’un blu brillante, come una sconfinata distesa di zaffiri che dalla spiaggia correva fino all’orizzonte. Le farfalle e le colombe – che al suo cospetto erano solite disegnare sinuose curve in aria – avevano cominciato a volteggiarle intorno alla vita, quasi desiderassero salutare la creatura che riposava nel suo ventre, e le loro ali le avevano più volte fatto il solletico. E i fiori erano sbocciati una seconda volta, malgrado avessero perso i petali e fossero prossimi alla morte, e chi si stava prendendo a male parole per le vie – uomini o donne che fossero – al suo passaggio aveva immediatamente perduto la voglia di litigare, e lei si era sentita felice e fortunata e orgogliosa, perché sapeva che stava per dare alla luce un bambino che avrebbe cambiato in meglio il mondo intero. Un bambino speciale, che avrebbe portato amore e passione e desiderio nei cuori di Dei e Uomini, più amore di quanto lei potesse donare loro nel corso della propria vita immortale. E tutto ciò che aveva pensato e sentito, riguardo a quel figlioletto di Ares, era accaduto, senza l’ombra di una delusione.
Sospirò, continuando ad accarezzarsi la pancia. Era certa che quella nuova gravidanza le avrebbe offerto le medesime gioie della gestazione precedente; che la creatura che si stava formando nel suo grembo le avrebbe donato la stessa ubriacatura d’amore, la stessa sensazione di pace cosmica, lo stesso irrealizzabile desiderio di poter fermare il tempo in modo da restare incinta per sempre, per godere giorno e notte di quella squisita ebbrezza esistenziale che Eros, raggomitolato nel suo utero, le aveva infuso nel corpo e nella mente.
Sarebbe stato tutto magnifico. Dopo ciò che aveva vissuto, per la Dea non poteva che essere così.
Ma mentre si godeva il calore dell’acqua e le delicate carezze delle ancelle – che ora le stavano lavando i capelli – nel suo ventre germogliava qualcosa che non avrebbe appagato affatto le sue enormi aspettative di madre. Qualcosa di spaventoso che, di lì a poco, l’avrebbe condotta sul baratro della pazzia.

giovedì 8 novembre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE III (Ares, Eris, Ade)




Dal principio, Ares ed Eris pensarono che sarebbero riusciti a passare senza alcuna difficoltà. Il ruscello di defunti nel quale erano immersi scorreva senza intoppi, e malgrado Cerbero continuasse a fissarli dritto nelle pupille – dimostrando di averli notati e di aver riconosciuto la loro estraneità all’ambiente – qualcosa nel suo atteggiamento lasciava intendere che non avrebbe attaccato. Il guardiano sembrava essere in fase di studio. Ma non appena i due si fecero troppo vicini, un ringhio gutturale strisciò fuori dalle sue tre gole; un suono basso, roco, che non prometteva nulla di buono e che subito s’accompagnò a uno strano sibilo. Era la coda dell’animale a soffiare in quel modo: una coda serpentina e squamosa, che con la sua testa di vipera all’estremità mandava inequivocabili messaggi ai due invasori. E ora il pelo di Cerbero era ritto; il corpo teso; le labbra arricciate, a mostrare le zanne. Il guardiano li stava avvertendo.
«Ci attaccherà…» Ares tentò di deglutire, senza riuscirci. «Non ha capito che siamo Dei.»
«Sì che l’ha capito!» Eris si passò frettolosamente la mano sulla veste, con una smorfia di disgusto. Il gemello gliela aveva inumidita col suo sudore. «Ma se anche ci attacca, chi se ne frega! Tu puoi combatterlo!»
«Ma io non voglio, Eris!»
«Lo sapevo! Hai paura!»
«Non ho armi! E poi non voglio fargli male!»
«Dovrai! Perché se ci attacca, io volerò via e lui ti sbranerà!»
«Forse dovremmo cercare un’altra strada…»
«Non c’è un’altra strada!»
Erano ormai giunti in prossimità della roccia, quando Cerbero emise un fragoroso ringhio e balzò giù, nel fiume di anime, travolgendone una manciata. Gli altri defunti si scostarono appena, intorpiditi come sonnambuli, mentre i poveretti che erano stati schiacciati sfuggivano con ipnotica fumosità alle zampe della bestia, ricomponendosi al suo fianco come se nulla fosse accaduto. Ares ed Eris sbiancarono. Ora il guardiano era di fronte a loro e sbarrava loro la strada. Le sue tre teste – più simili nella forma alle teste di un grosso molossoide, che a quelle di un lupo – sembravano non avere le orecchie, tanto queste erano tirate indietro, e si muovevano indipendentemente l’una dall’altra. La coda-serpente scattava e sibilava, coi denti ben in vista. Non vi era neppure da chiedersi se Cerbero fosse infuriato. I suoi occhi erano due pepite scarlatte; le zanne scoperte fino alle gengive; i colli tesi in avanti, nei quali vibrava sempre più forte quel ringhio minaccioso.
Eris si nascose dietro il fratello e lo spinse piano in avanti. «Non possiamo fermarci adesso!»
«Ma…» Ares avanzò suo malgrado di un passo e, in tutta risposta, Cerbero scoppiò in un abbaio furibondo. Il suo alito schiaffeggiò i due come una raffica di vento caldo e sgradevole, che nessuno mai avrebbe voluto respirare. Il Dio strizzò gli occhi, colpito dall’umida zaffata che gli riempì la faccia di goccioline, e non sapendo più che fare allungò la mano verso il cane.
Cerbero latrò ancora, si leccò i nasi facendo schioccare le lingue e scrutò con circospezione la mano del bimbo. Infine l’annusò, chinando prima la testa di mezzo e poi le altre due.
Ares sentì le unghie di Eris conficcarsi nelle sue spalle. Era tesa come il cordino di un arco, pronta a strattonarlo all’indietro e a tentare di volare via con lui, prima che il bestione gli staccasse di netto il braccio. Perché forse avevano esagerato. Forse non c’era bisogno di rischiare così tanto, pur di esplorare il Regno dei Morti, e la Dea se ne rese conto appena ora, nel vedere le dita del fratello esposte al volere di quelle fauci gigantesche. Ma il ringhio di Cerbero si spense presto, così come il sibilo della coda-serpente, e il suono delle sue narici aspiranti – che sembravano quasi voler risucchiare la mano di Ares, tanta era l’attenzione con la quale la stavano analizzando – si sommò agli ovattati passi dei morti, che incuranti di tutto proseguivano il loro viaggio. Un suono rassicurante, di cane che sta riflettendo.
Poi, finalmente, Ares avvertì sulle nocche un colpo di lingua. Un gesto timido e incerto, quasi da cucciolo.
«Bravo!» Un enorme sorriso sollevò le guance del tracio. «Siamo Dei, vedi? Non devi ringhiarci contro! Noi siamo tuoi amici!»
Cerbero lo leccò ancora, stavolta con più convinzione, e cominciò a scodinzolare, scuotendo il serpente in aria.
«Io lo sapevo che ci avrebbe riconosciuti!» Eris si fece avanti, allungò a sua volta la mano e la scosse davanti ai nasi del mastino. «Da bravo! Lecca anche me!»
Le teste di Cerbero si sollevarono, come interdette. Lo scodinzolio s’arrestò.
«Su! Muoviti!» insistette la Dea.
Il cane rimase fermo per un po’, all’apparenza più indeciso che contrariato, ma alla fine leccò il piccolo palmo che aveva di fronte; uno sfioro appena accennato, che a malapena inumidì la manina di Eris. Poi tornò a leccare con piacere quella di Ares, riprendendo a scodinzolare.
«Sei un bravo cane…» Il Dio cominciò a grattare il mastino sotto i colli; le sue manine sprofondarono nella folta pelliccia fino ai polsi. E ora gli occhi di Cerbero erano semichiusi; le bocche aperte con le lingue che penzolavano di lato, atteggiate in una smorfia d’evidente goduria che somigliava quasi a un sorriso. «Sono sicuro che non ti grattano mai qua sotto…»
Eris colpì la spalla del fratellino con un pugno. «Smettila di spupazzarti quel cane!» tuonò. La riluttanza di Cerbero nei suoi confronti e il modo in cui questi dimostrava senza ritegno di preferire le attenzioni di Ares l’avevano offesa. «Ti comporti sempre da idiota quando vedi un cane!»
«Mi piacciono!» Ares tentò di abbracciare tutte e tre le teste, ma riuscì a malapena a cingere il collo centrale. «E poi è stato bravo! Stava per sbranarci, ma alla fine ci ha riconosciuti!»
«Non è bravo. È stupido! Come te!»
«Sei solo invidiosa perché vuole più bene a me che a te!»
Eris fece una pernacchia. «Chi se ne frega di questo pulcioso! Resta pure qua con lui se vuoi! Io però vado avanti. Voglio vedere gli Inferi!» La Dea riprese rapida la sua strada, scomparendo dietro l’enorme corpo del mastino.
«Eris! Non te ne andare!» Ares si sporse di lato, senza però staccarsi dal guardiano. Sperava di riuscire a intravedere la sorella, ma Cerbero era troppo grosso e il fiume di anime troppo denso. Perdersi di vista, in mezzo a quella calca, era questione di un attimo. Il Dio guardò un’ultima volta il cane, gli massaggiò vigorosamente il pelo in segno di saluto e se lo lasciò alle spalle, rituffandosi nella mischia. «Eris! Dove sei?» gridò già in preda al panico, un attimo prima di scorgere la luce della gemella, a pochi passi da sé. Per quanto impalpabili fossero, tutte quelle anime ammassate riuscivano ugualmente a celare alla vista i corpi solidi, come mille veli che sfarfallano uno di fronte all’altro.
«Non dovresti allontanarti così!» la rimproverò Ares, raggiungendola. «Non vedi quanto è grande qui? E se poi non ci troviamo più?»
«Peggio per te!» bofonchiò Eris, prendendolo per mano. «Io non ho paura di andare da sola!»
«Ma se eri ferma in mezzo al sentiero! Mi stavi aspettando!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero…»
I due proseguirono il loro cammino in mezzo ai defunti per un breve lasso di tempo, fin quando giunsero in una landa grigia e affollata; un luogo nebbioso e inaspettatamente ricco di dettagli dove sembrava regnare il caos più totale. Urla strazianti risuonavano in lontananza, provenienti da chissà quale lugubre anfratto; il genere di grida mozzafiato che solo la tortura riesce a strappare di bocca. Ombre cupe – alle quali si mescolarono quelle traghettate per ultime da Caronte – erravano per la nebbia fine, senza mai alzare lo sguardo. C’era chi piangeva in silenzio, chi fissava con occhi spenti il terreno, chi mormorava frasi sconnesse fra sé e sé, dondolando il capo con l’automatismo di una bestia chiusa in gabbia. Il dolore che trasudava da quel luogo era respirabile, così come il puzzo di umido, di bruma, di cose dimenticate, al quale i due traci ancora non si erano abituati. E ovunque si ergevano rocce nere, acuminate come coltelli, e alle loro pendici cipressi e pioppi soffocavano nella nebbia sfoggiando chiome che sembravano muffa, mentre piccole gocce di luce galleggiavano qua e là a mezz’aria, come lucciole intrappolate in invisibili tele di ragno. Ma era sufficiente sforzare la vista ed ecco che l’illusione svaniva e le gemme si trasformavano in lampade a olio, che in bilico tra le rocce e appese ai rami degli alberi tentavano con le loro lingue di fuoco di rischiarare l’ambiente. Ma per quanto suggestiva fosse, la loro luce tremolante non smorzava affatto la spettralità del luogo e, piuttosto, l’amplificava: perché in quelle terre infernali, dove le grida dei dannati stridevano in cielo come lame arrugginite e i morti si trascinavano avanti e indietro senza sapere dove andare, cosa fare, cosa pensare, anche la luce si era arresa alla tristezza e nei lumi danzava pallidamente, senza più la forza d’illuminare il mondo.
Il ristagno eterno, che tutto sembrava tingere di grigio, non risparmiava nulla e nessuno.   
«Chissà dov’è il palazzo dello zio Ade…» Ares fece un giro completo su se stesso. «Io vedo solo morti!»
Eris strizzò gli occhi, fin quasi a chiuderli. Le sembrava di vedere una figura differente dalle altre, là in mezzo alla nebbia: un uomo con la barba bianca, la testa calva e il corpo inequivocabilmente solido, come quello dei viventi. Reggeva tra le mani un oggetto lungo, simile a un giavellotto o un remo; uno strumento che, a causa della foschia, la Dea non riusciva a mettere a fuoco. «Chi è quello?» domandò, indicando al fratello lo sconosciuto, che chissà da quanto tempo li stava fissando entrambi, con aria sorpresa. «Lo vedi?»
Ares si schermò gli occhi con una mano, nonostante non vi fosse alcun sole a infastidirlo. «Ssssì. Non mi sembra un morto. Che sia lo zio Ade?»
«Quello?! Ma non dire sciocchezze!»
«Ma noi non sappiamo com’è fatto lo zio!»
«E poi non penso che lo zio Ade vada in giro per gli Inferi con un giavellotto in mano!»
«A me quello sembra un rastrello…»
Eris strizzò di nuovo gli occhi e si accorse che il fratello aveva ragione. «Sì, probabilmente è un giardiniere o qualcosa di simile. Di certo non è lo zio Ade.»
«Dovremmo andare a parlargli?» domandò Ares e, come se avesse udito quella domanda, l’uomo si voltò e s’incamminò rapidamente dalla parte opposta, scomparendo nella nebbia. «Oh, no! Se n’è andato!»
Eris fece spallucce. «Chi se ne frega. Dai, facciamo un giro nei dintorni! Voglio scoprire chi è che urla in questo modo!»
«Siiiiì! Andiamo a vedere!»
I due scelsero una direzione a caso e si avviarono nella nebbia. Erano luminosi e caldi come torce e, quando passavano, tutti i defunti indietreggiavano di un passo, fissandoli con occhi opachi e labbra che parevano cucite. Da quelle facce grigie – che la morte aveva reso quasi uguali l’una all’altra – non trapelava nessuna voglia, men che meno il desiderio di rivolgere la parola ai due intrusi, ma la luce, la vera luce, riusciva ancora a catturarle e a far brillare per un momento le loro iridi vuote. E mentre vagavano tra le ombre, fantasticando su cosa stesse accadendo ai poveretti che gridavano come bestie macellate, Ares ed Eris notarono altri individui simili a quello intravisto poco prima; uomini esili, vestiti di nero, che nella nebbia li osservavano a bocca aperta, incapaci di proferire parola.
«Chi sono questi tizi?» domandò Ares. «I servi dello zio?»
«Credo di sì.» Eris ne indicò uno. «Guarda, quello regge un cestino di verdura. È sicuramente un domestico.»
«Quindi anche qua sotto cresce la verdura! Che strano…»
All’improvviso i due avvertirono un forte calore sulla nuca. Si voltarono. Un uomo con la pelle rugosa, le guance incavate e un paio di occhi duri e luccicanti come il quarzo, illuminò i loro visi fin quasi ad accecarli, abbassando la lampada a olio che reggeva nella mano.
«O giovani profanatori, non avanzate d’un solo passo» disse lo sconosciuto. «Queste gelide terre non vi appartengono.»
«Sta’ zitto, vecchiaccio!» Eris s’incattivì all’istante. «Chi sei tu, per darci degli ordini?» 
«Guarda che noi siamo Dei!» aggiunse Ares. «Possiamo fare tutto quello che vogliamo!»
«Pensate ciò che più vi aggrada.» L’uomo non si scompose: era immune alla prepotenza dei due. «Tanto io non sono nessuno. Solo un umile servitore dell’Illustre. Ma è Lui ad avermi mandato da voi ed è da Lui che devo condurvi ora. Seguitemi, faccio strada. Il Suo palazzo non è lontano.»
Il servo s’incamminò nella foschia, con il lume ora ben alto davanti alla faccia, e i due gli andarono dietro senza un istante d’esitazione.

sabato 27 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE II (Ares, Eris, Caronte)



 Come un lungo intestino roccioso, la galleria per gli Inferi si snodava sotto il volto di Gea scendendo sempre più giù, negli abissi scuri e inviolati, e non passò molto prima che Ares ed Eris si trovarono a strisciare sui gomiti, tra guano di pipistrello e pozze d’acqua gelata. Il cunicolo era tortuoso, più di quanto i due avessero pensato, e si stringeva in più punti come una gola nell’atto di deglutire; punti in cui le loro vesti si lacerarono e le braccia si graffiarono, lasciando tracce d’icore d’oro sulle pareti della roccia. Ciononostante i due proseguirono sempre con entusiasmo – Ares in testa ed Eris suo malgrado dietro, che smaniava per sottrargli la prima posizione non appena la galleria si fosse allargata a sufficienza – e in quei budelli rocciosi, nei quali echeggiava l’eterno gocciolio dell’acqua, i gemellini ebbero più di un incontro con la fauna locale. Grossi coleotteri ambrati, ragni dalle zampe sottili come capelli, scolopendre, scorpioni… Di tanto in tanto, sulle pareti del cunicolo zampettava una lucidissima creatura delle caverne ed Ares ed Eris avevano giusto il tempo di percepire la sua presenza, che questa spariva in qualche interstizio.
Non erano soli là sotto, e più scendevano più avevano l’impressione di stare attraversando un nuovo regno, a metà strada tra quello dei vivi e quello dei morti: il regno degli insetti, degli aracnidi e dei millepiedi. Perché di quelle bestiacce ce n’erano tantissime, pronte a sfrecciare da una parte all’altra per poi nascondersi nelle fenditure della pietra. Ma i due non avevano paura. Anzi. Quel nuovo ambiente, che qualsiasi altro bambino avrebbe considerato ostile e pauroso, stimolava la loro curiosità, e quando la galleria si allargò di nuovo presero a gattonare fianco a fianco, veloci come ratti, finché non si affacciarono su uno spazio nuovo: un’area di roccia densa in cui si alternavano alte colonne di calcare, simili a torri di fango bianco; formazioni bizzarre, che dal basso salivano a unirsi al soffitto, una volta compatta dalla quale pendevano come lembi di stracci migliaia e migliaia di stalattiti.
Era un luogo dentato, aguzzo, costellato di pozze d’acqua e stalagmiti dalle sagome insolite: alcune di esse si elevavano da terra come falli di pietra; altre, più grosse e larghe, si ergevano sgraziatamente, simili a statuette informi o idoli melmosi squagliati dal sole. E tra quelle zanne di pietra, che come lame gocciolanti fendevano l’aria da parte a parte, l’odore di acquitrino serpeggiava sempre più intenso; un alito freddo che saliva dal fondo e che, complici l’umidità e gli abiti fradici, offrì più di un brivido ai due piccoli esploratori.
«Ehi, Eris! Guarda!» Ares s’inginocchiò di fronte a una pozza d’acqua, vi ficcò la mano dentro ed estrasse un proteo: una bestiolina color carne, col muso stretto e il corpo sottile come quello di un serpente. «Che animale buffo!»
«Cos’è? Una lucertola?» Eris tese la manina verso l’animale e lo afferrò per la testa, per guardarlo meglio.
«Che brutto! Non ha gli occhi!»
«Oh, è vero!» Ares tirò bruscamente il proteo verso di sé e, bagnato com’era, questo scivolò via dalle dita di Eris. Fu una fortuna: con la loro irruenza i gemellini avevano rischiato di spezzarlo in due. «E come fa a vedere se non ha gli occhi?» domandò il Dio.
«Boh! Forse ce li ha da un’altra parte, non sulla testa. Fammi vedere!»
«No!» Ares allontanò l’animale dalle grinfie della sorella. «Voglio tenerlo io! Tu lo uccidi!»
«Brutto stupido! Voglio solo vederlo!»
«È mio!»
«Dammelo subito o giuro che lo ammazzo!»
«No!»
I due presero a saltarsi addosso l’un l’altro litigandosi il proteo, e in quella zuffa Ares urtò col gomito uno spuntone di roccia e si tagliò. Allora lanciò l’animale in faccia alla sorella.
«Ecco! Prendi! Contenta?» gridò.
Eris, sorpresa dal gesto ma per nulla schifata, prese il proteo con entrambe le mani, lo guardò col massimo del disinteresse e lo gettò in una pozza. Quindi raggiunse il fratello, lo agguantò per il braccio e appena allora si accorse che stava sanguinando. «Te l’ho fatto io?»
«No… anzi, sì!» Ares le lanciò un’occhiataccia. «Mi hai spinto contro la roccia!»
«Smettila di piagnucolare» Lei gli pulì la ferita con l’orlo della veste. «È solo un graffio.»
«Non sto piagnucolando!»
«Sì, invece. Sei un lagnoso…»
Ares si lasciò asciugare il sangue, più per desiderio di attenzioni da parte della sorella che per reale necessità, quindi i due si ripresero per mano e proseguirono il cammino tra le colonne di calcare, fin quando la terra cominciò a inclinarsi verso il basso, spingendoli in una pericolosa discesa tra stalagmiti e lastre di roccia scivolosa.
Erano come due lucine gettate in un pozzo, che con la loro luce obbligavano l’oscurità a indietreggiare, a far loro spazio. E quelle tenebre nere – il buio più denso in cui i due si fossero mai trovati immersi – arretravano sempre e contemporaneamente chiudevano l’abbraccio alle loro spalle, quasi volessero far dimenticare loro la strada del ritorno e trattenerli laggiù in eterno. Eppure l’atmosfera di quell’abisso incorrotto era magica, tutt’altro che spaventosa: colpite dal bagliore, le stalattiti brillavano come gioielli appesi al soffitto e le loro ombre – insieme a quelle più paffute delle stalagmiti – danzavano allegramente sulle pareti al passaggio dei figli di Zeus.
Ma presto la magia del luogo cominciò a spegnersi. Le stalattiti si diradarono fino a scomparire; le pareti rocciose, come in preda a un’involontaria contrazione muscolare di Gea, si restrinsero incuneandosi in una galleria quasi verticale: un esofago buio e profondo, spaventoso come la più nera delle voragini.
Ares ed Eris non si persero d’animo e, aggrappati alla roccia come due gechi, continuarono la loro scalata al contrario, alla conquista degli abissi infernali. Sapevano di essere vicini, lo sentivano dall’aria; quell’aria umida e corposa che, come un antico vapore, saliva dalle profondità della voragine raffreddando i loro polmoni.
Ormai ne erano sicuri: là sotto c’era dell’acqua.
Ma così com’erano certi della sua presenza, erano altrettanto certi che quella non fosse l’acqua che conoscevano. E neppure la pietra grigia – su cui ora Ares strisciava con cautela stando attento a non scivolare, mentre Eris, stufa di arrampicarsi, gli volava accanto come un pipistrello – era la pietra alla quale erano entrambi abituati. Piccoli e inesperti com’erano, non avrebbero saputo dire con esattezza cosa di essa fosse cambiato, ma a riguardo il loro istinto parlava chiaro: la roccia, quella roccia, era differente da quella in superficie e, oltre a essa, tutto là sotto aveva subito un mutamento, assumendo i tratti di un luogo deserto e inospitale; un ambiente umido eppure al tempo stesso arido, privo di qualsivoglia forma di vita. E, del resto, da quanto tempo i due non incrociavano sulla propria strada un insetto, uno scorpione o un proteo serpeggiante? Persino il gocciare dell’acqua dal soffitto, che dall’inizio del loro cammino aveva echeggiato senza sosta, si era zittito e ora nella voragine rimbombava solamente il silenzio della desolazione; un silenzio surreale che sapeva di morte, di sterilità, di angosciante ed eterna stagnazione.
Il confine tra i due regni era stato oltrepassato. La vita, coi suoi mille colori, suoni e profumi, era rimasta indietro.
Ares ed Eris scesero ancora, senza mai fermarsi, fin quando la gola cominciò a curvare e a farsi di nuovo orizzontale, come la più ordinaria delle gallerie. Allora videro una strana luce grigia provenire dal fondo, una specie di smorto barlume nell’incavo della pietra: era la fine del tunnel.
Come colti da inaspettata pazzia, i traci si lanciarono in una corsa mozzafiato, tentando ardentemente di superarsi a vicenda
(Prima io!)
(No, prima io!)
finché l’oscura caverna scomparve alle loro spalle.
Erano fuori.

mercoledì 24 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE I (Ares, Eris, Thanatos)



Risate. Schiocchi d’acqua. Strilli. Filastrocche.
Sulle rive del fiume Nestos, che quella mattina scorreva sul suo letto di ciottoli grigi senza quasi far rumore, fanciulli e fanciulle di divina discendenza giocavano insieme, dando libero sfogo al proprio impeto giovanile. Figli e figlie di padri differenti – Dei dei fiumi, dei venti, delle alte montagne – i giovinetti si davano spesso appuntamento in quella particolare zona della Tracia, dove il Nestos si presentava tranquillo e liscio, quasi non aspettasse altro che accoglierli e farli divertire con le proprie acque. Ma non tutti amavano inzupparsi e, al freddo ruscello, alcuni preferivano il calore dei sassi che contornavano la sua azzurra sagoma, e su di essi sedevano e intonavano canzoni, accompagnati dalla melodiosa voce delle ninfette dei boschi. Erano piccoli, dei bimbi che in altezza non superavano un satiro, ma nonostante la giovane età gironzolavano come caprioli tra gli alberi e le rocce, senza che alcun Dio superiore vegliasse su di loro. Non avevano bisogno di protezione né di sorveglianza: erano svegli e veloci a sufficienza da scomparire in un baleno in caso di necessità, ed era questa sicurezza interiore, questa fiducia nelle proprie capacità divine a renderli così spensierati e vivaci.
Per loro, il mondo era un luogo bellissimo, e bellissimo era giocare, giocare e ancora giocare.
Ma sulle rive del Nestos non tutti si stavano divertendo.
Seduta poco distante su un vecchio tronco coperto di muschio, Eris osservava a braccia incrociate gli altri bimbi, che con l’acqua alle caviglie si chinavano sul ruscello e si schizzavano a vicenda. Fece una smorfia seccata, un suono simile a un ringhio le scivolò di bocca. Detestava la delicatezza con cui quelli si stuzzicavano; quel profondo rispetto che trasudava da ogni loro movenza, così schifosamente effeminata ed elegante. Era un modo di giocare che non oltrepassava mai alcun limite, che non sfidava mai per davvero l’altro né puntava a metterlo in difficoltà; un modo di giocare che con lei, ostile creatura, era completamente incompatibile. Certo, in passato aveva provato a partecipare a quei giochi, ma la sua indole aggressiva e malevola l’aveva subito costretta ai margini del gruppo, perché nessuno di quei bimbetti sopportava i suoi insulti, gli sgambetti, le risatine di scherno... in breve, il suo modo di giocare. E più volte, dopo essere stata emarginata, Eris si era reintrodotta a forza nel gruppo, trovando insopportabile l’idea di non poter più tormentare nessuno di quei ragazzini piagnucolosi, e questi, non potendo scappare da lei, avevano sempre ceduto alle sue pressioni, accettandola malvolentieri.
Ma quella mattina, per qualche oscura ragione, il suo cuore era colmo di frustrazione e il desiderio di dare un taglio netto a quelle abitudini di vita era più grande che mai.
Era stanca di accontentarsi, di farsi andare bene quel branco di rammolliti.
Voleva cominciare a giocare davvero.
Sbuffò e gettò un’occhiata a suo fratello Ares. Era seduto per terra davanti a lei, col capo chino e l’espressione concentrata: stava cercando di legare una pietra acuminata all’estremità di uno stecco, nel tentativo di creare una lancia, ma il sasso che aveva scelto era troppo pesante per fungere allo scopo, e il ramo troppo sottile. Un’impresa persa in partenza che, però, lo stava tenendo piacevolmente impegnato.
Eris saltò giù dal tronco. «Che stupido!» borbottò, sfilandogli lo stecco di mano.
«Ehi!» Ares si voltò e allungò la manina, ma la gemella fu più veloce e, con un colpo secco, spezzò in due il fuscello. «Nooo!» Il Dio scattò in piedi. «Perché l’hai fatto? Cattiva!»
Eris gli rivolse un sorriso malvagio e aguzzo, simile al ghigno di un pipistrello. Era pronta a ricevere le sue lacrime; la prima scarica di divertimento vero dall’inizio di quella piatta mattinata. Ma Ares non pianse. Aggrottò le sopracciglia, serrò i pugnetti e li affondò più volte in aria, come fanno i bambini in preda alla rabbia. Eris sbuffò di nuovo, più indispettita di prima. Aveva sempre rimproverato il gemello per il modo in cui era solito frignare ogni qualvolta lei gli dava leggermente fastidio, e a suon di insulti lo aveva sempre spronato a essere forte, a reagire con vigore e dignità a qualsiasi torto gli venisse fatto. Ma ora che invece di piangere lui si stava mostrando adirato, Eris si sentiva più frustrata di prima. Gli avrebbero fatto comodo le sue lacrime ora che si stava annoiando da morire, ma evidentemente quella non era la sua giornata fortunata.
«Smettila di giocare con questi stecchi!» disse, gettando a terra il ramo spezzato. «Tanto non la sai costruire una lancia!»
Ares saltò sul posto, sempre più infuriato. «Sì che la so costruire!»
«Pfff! Come no…» Eris rise e subito tornò seria. «Sei solo un imbranato.»
Ares raccolse i due pezzi di legno, li osservò per decidere se fossero ancora utilizzabili in qualche modo e infine li gettò a terra. «Io so costruire una lancia» ripeté convinto, guardando la sorellina negli occhi. «Te lo farò vedere!»
Eris diede una spintarella al gemello. «Che noioso sei! Tu e le tue stupide lance sbilenche!»
Lui la guardò confuso. Non capiva qualche fosse il suo problema né per quale motivo se la stesse prendendo con lui. «Ma… io…»
«Sono stanca di stare qui» disse lei, scagliando tutt’intorno occhiate d’odio. «Sono tutti così stupidi! Con le loro canzoncine, le loro risatine! Puah!» Mimò un conato di vomito con tanto di lingua fuori, quindi strisciò vicino al fratello, gli prese una mano e gli parlò sottovoce, con tono birichino. «Tu non hai voglia di giocare con qualcun altro? Qualcuno più forte?»
«Più… forte?» ripeté Ares, senza capire.
«Sì! A questi rammolliti non possiamo fare niente che subito si spaventano e scappano! Ricordi quando abbiamo giocato a rincorrerci?»
«Sì.» Ares s’imbronciò. Ricordava bene quel giorno, quando lui ed Eris avevano giocato a rincorrere – o, meglio, predare – gli altri fanciulli, e questi, pazzi di paura avevano cominciato a correre da tutte le parti, ad arrampicarsi sugli alberi, a schizzare via nella selva come conigli minacciati. E tutto questo panico per cosa? Perché loro, invece di toccarli delicatamente quando li raggiungevano, gli saltavano addosso, ansimando e ringhiando per la foga. Un gioco che ad Ares era piaciuto tantissimo, ma che a entrambi era costato giorni di emarginazione e solitudine. «Si sono spaventati tutti» aggiunse.
«Perché sono delle mammolette!» Eris gli strinse la mano più forte. «Dai! Andiamo a cercare qualcun altro con cui giocare! Qualcuno che ci faccia divertire davvero!»
Ares sorrise da orecchio a orecchio. L’idea lo eccitava tantissimo. «Sì, sì!» rispose. Poi la sua espressione si fece perplessa. «Ma… con chi potremmo giocare?»
«Coi mortali!» rispose Eris, senza alcuna esitazione.
Il piccolo Dio sgranò gli occhi. «Coi mortaaaali?» Arricciò il labbro, tra lo stupore e il disgusto: né lui né la sorella avevano mai rivolto la parola ai mortali prima d’ora, abituati com’erano a considerarli inferiori e poco interessanti, e l’invito a prenderli in considerazione come possibili compagni di giochi – addirittura migliori degli altri Dei – ad Ares suonò come una presa in giro. E del resto, quante volte Eris si era presa gioco di lui e della sua ingenuità, per poi dargli dell’idiota credulone? Tante, troppe per lui, per non mostrarsi adesso più che diffidente. «Non ci credo che vuoi giocare con loro! Mi prendi in giro!»
Eris gli mollò bruscamente la mano e schioccò l’indice sul suo naso. «No che non ti prendo in giro, stupido! Voglio davvero giocare coi mortali! E lo farò adesso, anche se tu non vieni!» Detto questo, la piccola Dea diede le spalle al fiume e si avviò verso la boscaglia. Non se ne sarebbe andata davvero senza il gemello: il suo era solo un bluff che, come aveva previsto, funzionò alla grande.
«Eris! Aspettami!» gridò Ares, correndole dietro.
Di nuovo fianco a fianco, i due si ripresero per mano e insieme s’inoltrarono nella foresta.
«Perché vuoi giocare coi mortali?» le domandò Ares, mentre saltellavano tra gli arbusti. «I mortali sono inferiori…»
«Te l’ho già dettoooo! Loro sono diversi da quei rimbambiti con cui giochiamo sempre! Loro sono imperfetti! Coraggiosi! Cattivi!»
«Cattivi?»
«Sì!» Eris si atteggiò a grande conoscitrice del mondo mortale, benché di esso ne sapesse poco o nulla. «I mortali amano essere cattivi e i loro bimbi amano giocare senza regole! Spingono, fanno la lotta, si arrabbiano, si graffiano! Sarà bello giocare con loro!»
«Ma Eris… come facciamo a giocare con loro?»
La Dea lanciò al gemello un’occhiata interdetta. «Che vuol dire?»
Ares scrollò le spalle. «I mortali… be’, i mortali muoiono.»
Eris si fermò. Quel pensiero, quella banale considerazione la colpì più forte del previsto: aveva completamente dimenticato che i mortali avessero una tolleranza fisica molto limitata, al punto che anche un banale colpo in testa o un affondo di coltello troppo profondo potevano ucciderli… o, perlomeno, così le era stato raccontato tempo addietro; parole che avevano all’istante suscitato la sua ilarità. Ma era il concetto stesso di morte, di trapasso, che adesso la teneva in bilico facendola sentire un po’ eccitata e un po’ delusa. Perché forse Ares aveva ragione, forse i mortali non sarebbero stati compagni di giochi adatti a loro se al primo accenno di lotta fossero stramazzati a faccia in giù, senza più fiatare né muovere un muscolo. Ma se invece fosse stata proprio la morte, quell’incognita misteriosa, a renderli i compagni di giochi migliori tra tutti?
Un sorrisetto maligno si affacciò sul viso della Dea.
Inseguire, aggredire e infine uccidere i bimbi mortali.  
Quella sì che sarebbe stata una bella botta di eccitazione; un’esperienza che avrebbe permesso loro di scoprire cosa realmente accade quando una creatura a esistenza limitata esala l’ultimo respiro… perché a riguardo i due gemellini avevano le idee molto confuse. Certo, sapevano che esisteva il Dio Thanatos, il Raccoglitore di Anime, come sapevano che esisteva Ade, l’Oscuro regnante degli Inferi, ma non avendo ancora conosciuto né l’uno né l’altro – e non avendo ancora mai assistito di persona al trapasso di un mortale - i due non sapevano cosa aspettarsi. Eppure Eris non era sicura di voler usare in quel modo i bimbi mortali; di cercarli unicamente per spaventarli e ucciderli. Giocare con loro, essere violenti tutti insieme senza paure né limiti le sarebbe piaciuto molto di più. Ma, per quanto piccola fosse, aveva già capito che in certe occasioni era meglio lasciar fare al destino e godersi la sorpresa.
«Se muoiono, muoiono» rispose facendo spallucce. «Noi giocheremo con loro finché potremo.»
«E se non vorranno giocare con noi?» domandò Ares.
«Giocheranno con noi!» replicò lei, decisa. «Li obbligheremo!»
«Non vedo l’ora!» Ares sorrise e i suoi occhi brillarono di aggressività. Trotterellò in avanti trascinandosi dietro Eris quasi fosse una parte del proprio vestiario, ma lei, invece di infuriarsi per quei movimenti bruschi, subito salterellò con lui.
Erano entrambi euforici, curiosi e affamati di esperienza, e saltello dopo saltello uscirono dalla boscaglia e si affacciarono su un sentiero; una via che, come una serpe bianca, scorreva a grandi onde sul verde dell’erba.
Lungo quella strada avrebbero trovato ciò che cercavano.
Ne erano certi.

mercoledì 29 novembre 2017

ORIONE - PARTE II








Malgrado avesse bevuto più vino di tutti, quella mattina Orione fu il primo ad aprire gli occhi. Fu la sete a svegliarlo: la sua gola era arida, le labbra secche e screpolate. Si alzò in piedi, barcollante, e una fitta di dolore gli stritolò la testa; un maledetto cordino invisibile stretto sulle sue tempie. Si massaggiò la fronte, indietreggiando di un passo, e per poco non calpestò il braccio di una delle ancelle. Allora si fermò e, col cervello improvvisamente attivo e il cuore che pulsava forte come l’emicrania, si guardò intorno. Cosce, piedi, pellicce, capelli biondi e bruni mescolati assieme… Le seguaci della Dea si erano addormentate tutte intorno al fuoco formando un caotico e sensuale groviglio di femmine; un’equilibrata mescolanza di tuniche bianche e rosea pelle da cui non spiccava neppure un seno nudo. Anche durante il sonno notturno, quelle vergini non dimenticavano mai di stare riposando accanto a un maschio, e da quando Orione faceva parte del loro gruppo si erano abituate a muoversi di conseguenza, stringendo al corpo la stoffa della veste in modo che nulla potesse scivolare fuori; e mai era capitato che, in sua presenza, qualcosa scivolasse fuori… neppure durante le battute di caccia, con i rami degli arbusti che spesso s’impigliavano alle loro belle tuniche, strappandone gli orli, e Orione ormai aveva concluso che sarebbe stato più probabile vedere il cielo e il mare scambiarsi di posto, piuttosto che riuscire a scorgere le nudità di quelle caste e bellissime ninfe.
Ma quella mattina, col cervello che gli premeva insistentemente contro il cranio, il gigante non si fece venire pensieri caldi. Ignorò quei corpi tutti uguali e con lo sguardo andò istintivamente da Artemide. Anche lei stava ancora dormendo, con la testa poggiata sulla coscia di una delle serve, e se non fosse stato per il suo bagliore divino e per la tunica verde che la faceva spiccare in mezzo alle altre, tutte bianche, si sarebbe mimetizzata in quel groviglio alla perfezione. Orione la osservò, aspettandosi di vederla aprire gli occhi da un momento all’altro, e quando capì che il suo sonno era ancora pesante raccolse arco e faretra, se li sistemò in spalla e oltrepassò i corpi delle fanciulle assopite, stando attento a non calpestarle. E, non appena ebbe abbandonato quel giaciglio improvvisato, si guardò di nuovo intorno, stavolta alla ricerca di Sirio, ma la spiaggia si presentò a lui piatta e silente: del cane e di tutti gli altri segugi non vi era alcuna traccia.
Orione si grattò la testa e, appena dopo qualche secondo, si ricordò ciò che già sapeva: la mattina presto i cani erano soliti gironzolare in branco nella foresta, per godersi un po’ di libertà prima che Artemide li richiamasse a sé dando il via alla caccia; un’abitudine che Sirio aveva subito fatto sua. Allora Orione si rasserenò e s’inoltrò nella boscaglia, mentre ritto sul suo carro dorato Apollo lo fissava in silenzio.