Quando
seppe ciò che era accaduto ad Atena, Ares non rise.
Restò
immobile a fissare il vuoto con occhi sgranati, mentre Dioniso e Hermes sghignazzavano
come matti e gli mollavano vigorose pacche sulla schiena, pronti a nutrirsi del
divertimento che si aspettavano di vedere traboccare da ogni poro della sua
pelle. Ma lui non rise e per un paio di secondi restò così, congelato dall’incredulità
e assordato da quelle risate scimmiesche che ben conosceva e apprezzava, ma che
adesso non riuscivano in alcun modo a sollevargli gli angoli della bocca. Poi,
il ghiacciò si spaccò, il corpo sfuggì al suo controllo, bollente come metallo
appena forgiato, e con l’energia di mille carri da guerra il tracio si lanciò
tra i sentieri sfavillanti dell’Olimpo. Non si rese conto di ciò che faceva,
non rifletté sul proprio operato: la sua testa era vuota di pensieri e piena di
rabbia cieca e travolgente; il genere di collera che precede un omicidio
efferato, e che presto esplose contro la porta della fucina di Efesto.
Ares mollò
un calcio all’anta e la spalancò con un boato. Quindi entrò nel fumoso
laboratorio.
Martello
alla mano, in piedi davanti all’incudine, il fabbro lo guardò a bocca aperta:
non poteva credere a ciò che stava accadendo. Aveva forse dimenticato un’ordinazione?
Quel barbaro sconsiderato era davvero così pazzo da prendersela in quel modo per
un’inezia simile? Probabilmente sì. Del resto, quelli erano gli anni della
guerra di Troia e chi, più del Signore della Strage, avrebbe avuto il diritto
di adirarsi se un’armatura non fosse stata completata entro i termini pattuiti?
Efesto fece
per parlare, quando il guerriero emise un ringhio bestiale, afferrò uno dei
tavoli e lo scaraventò contro il muro. Il legno andò in pezzi come si fosse schiantato
contro una montagna, ferraglia d’ogni genere si sparse ovunque con fragore
metallico. Poi, Ares si fiondò sul fabbro e lo afferrò per il grembiule da
lavoro.
«MERDOSO D’UNO STORPIO!» gridò,
sollevandolo in aria e schiacciandolo contro il muro, il volto rosso d’ira, le
pupille minuscole come granelli di carbone in un mare d’ambra luccicante. «Come hai osato fare una cosa del genere?
Come cazzo ti sei permesso?»
Efesto
lasciò cadere il martello e afferrò istintivamente le grosse braccia del tracio,
tentando di liberarsi. Il modo in cui questi lo premeva contro la pietra gli
schiacciava i polmoni, impedendogli di respirare. «A…res! C-cosa…?»
«Sai bene cosa hai fatto!» ruggì il
guerriero. «Tutti parlano della soddisfazione che ti sei preso!»
Il fabbro
tossì, emise una specie di gorgoglio e tossì di nuovo. «N-non so di cosa parli!
Dico davvero!»
«ATENA!» gridò lui, scuotendo
l’avversario così forte da fargli battere i denti. «Ecco di cosa parlo!»
«At-»
Efesto tossì di nuovo. «Io non…»
Ares mollò
il poveretto che, zoppo com’era e preso alla sprovvista, subito si accasciò a
terra. Lo guardò con disgusto, afferrò la stampella appoggiata al ceppo
dell’incudine e gliela gettò addosso. «Alzati, pezzo di sterco!» esclamò. «E
smettila di mentire.»
Efesto si
aggrappò alla stampella e si tirò su, l’espressione ora più infastidita che
spaventata. Da anni era abituato a sopportare i familiari – che non si facevano
alcuno scrupolo a deriderlo appena si presentava loro l’occasione – ma il modo
in cui il guerriero lo stava trattando andava ben oltre alle semplici risatine
che era abituato a ricevere alle proprie spalle, e cominciava a innervosirlo.
«Cosa vuoi
che ti dica, Ares?» domandò guardandolo negli occhi. «Se non ti decidi a
spiegarmi qual è il tuo problema puoi anche andartene perché, a differenza tua,
io ho molto lavoro da fare.»
«Non t’azzardare a usare questo tono con me!»
gridò il tracio scagliando a terra una cassetta piena di tenaglie. «Sono l’ultima persona con cui ti conviene
fare lo stronzo!»
«Perché
sei arrabbiato? Dimmi cos’ho fatto, invece di sfasciarmi la fucina!»
Ares digrignò
i denti in una smorfia feroce. «Hai tentato di stuprare Atena!» gridò.
«Stuprare,
io? Oh, no! Non è così che è andata! È stato tutto un malinteso!» Efesto alzò
entrambe le mani e si strinse nelle spalle, il volto segnato da rughe di
dispiacere sincero. «Qualche giorno fa, Atena mi commissionò un’armatura nuova e
io le dissi che non volevo oro da lei, ma che mi sarei assunto l’incarico per
amore. Fu una sciocchezza detta così per dire, è ovvio. Sapevo che non avrebbe
mai ceduto la sua preziosa verginità al Dio più brutto e deriso dell’Olimpo. Ma
poi Poseidone mi rivelò che lei aveva deciso di concedersi a me e che persino
Zeus approvava la nostra unione. Mi disse che era troppo pudica per ammettere
la voglia che le ardeva dentro e che, perciò, spettava a me farmi avanti. Non
mi aveva mai mentito prima, Poseidone, così mi fidai di lui, come un povero
stolto! E quando Atena tornò per ritirare l’armatura, be’… tentai di fare
l’amore con lei e non mi accorsi subito che non voleva, perché pensai fosse
timida. Ma non l’ho stuprata! Non ho mai neppure pensato di farlo! Sia io che
lei siamo stati vittime di uno scherzo crudele. Questo è ciò che è successo.»
«SO BENE COS’È SUCCESSO!» Ares mollò un
calcio a una delle tenaglie cadute a terra, scaraventandola dall’altra parte
della fucina. «Hai tentato di scopartela
ma non ci sei riuscito, perché lei si dimenava, e nella foga le hai sborrato
sulla coscia!»
Efesto
rimase interdetto: aveva sospettato che l’incidente con Atena fosse ormai di
pubblico dominio, ma il fatto che tutti gli Dei sapessero che l’abbraccio con
la Pallade l’aveva portato a una rapida eiaculazione gli scatenò un grande
imbarazzo. «Atena è molto bella» disse con un sospiro stanco. «Chiunque al mio
posto avreb-»
«Chiudi quella cazzo di bocca!» gridò
Ares, il dito puntato contro di lui. «Zoppo
maledetto! Le hai sborrato sulla coscia! Meriteresti d’essere evirato per ciò
che hai fatto!»
«Perché
t’infuri?» Le spesse e scure sopracciglia di Efesto quasi si toccarono sopra al
naso in un cipiglio d’incomprensione. «Tu odi Atena.»
«Certo che
la odio! Non la sopporto e neppure lei sopporta me!»
«Allora
perché ti arrabbi in questo modo?»
Ares prese
a camminare avanti e indietro come una pantera in gabbia, i muscoli gonfi, le
narici che soffiavano aria rovente, gli occhi spalancati e cerchiati dal furore.
Non sapeva cosa rispondere, non ricordava com’era finito in quella surreale
situazione in cui tutto gli sembrava sbagliato a cominciare dalla collera che
lo stava facendo bruciare come una gigantesca pira. Emise un grugnito, scosse
la testa, si passò la mano sul volto sudato, continuando a sfilare nervosamente
davanti alla forgia.
«Se non
fossi certo dell’odio che nutri per Atena, direi che sei geloso di lei» disse
Efesto, seguendolo con lo sguardo.
«Io la odio, quella puttana!» Ares si
girò di scatto verso il fabbro. «Geloso di lei? Io? Devi aver preso troppe botte al cervello rotolando giù
dall’Olimpo, orrido storpio!»
«Eppure ti
sei precipitato qui, neanche fossi suo marito. Ma a dire la verità, non m’interessa
sapere cosa ti passa per la testa.»
«Ecco,
bravo. Fai bene a farti i cazzi tuoi.»
Efesto
rivolse all’amante di sua moglie un sorriso affilato, di chi sta per infilare
il dito nella piaga con sadico piacere: ormai aveva scoperto qual era il
segreto che nascondeva, e desiderava approfittare dell’occasione per vendicarsi
di lui. «Ma forse a te interessa sapere cosa si prova a sborrare su Atena. Sai
com’è, al momento questa bella sensazione la conosco solo io.»
Ares sentì
una vampata salirgli dal petto fino alla punta dei capelli: fuoco puro,
insopportabile, che gli contrasse il volto in un’espressione selvaggia. Odiava
Efesto per ciò che gli stava facendo, ma ancora di più odiava se stesso per
l’insensata gelosia che provava nei confronti di Atena; quella gelosia che non
riusciva in alcun modo a nascondere e che gli stava costando una pesante
umiliazione.
Ruggì e scaricò
il pugno contro il muro. Crepe nere simili a folgori si diramarono dalle sue
nocche e corsero tra le pietre, assottigliandosi fino a scomparire nella
tenebra fuligginosa. Il dolore alla mano non lo appagò, la rabbia non si spense
perché un suo personale equilibrio – del quale fino ad allora aveva ignorato
l’esistenza – era andato perduto per sempre, e nulla avrebbe potuto cambiare
quel fatto.
Riafferrò
per il grembiule il fabbro – che ora lo guardava incredulo – e lo tirò a sé con
uno strattone. Lo fissò dritto nelle pupille, respirandogli addosso e
detestando ogni molecola del suo corpo curvo e tozzo; quel corpo che aveva osato
stringere Atena in un abbraccio sessuale e sporcare la sua bianca pelle di
sperma. Quanto gli sarebbe piaciuto spaccare tutte le ossa a quel miserabile! Quanto
si sarebbe divertito a trasformare la sua carne lussuriosa in una poltiglia
percorsa da scariche di dolore lancinante! Avrebbe goduto da morire nel
renderlo ancora più zoppo, ma anche nell’impeto dell’ira il guerriero ricordò
di avere le mani legate perché Efesto era figlio di Era, come lui. Un fratello
dello stesso grembo. E l’austera madre – che già lo sopportava a fatica a causa
della sua indole violenta e sanguinaria – non lo avrebbe mai perdonato se
avesse osato metterla in imbarazzo di fronte a Zeus e al resto della famiglia,
commettendo una simile follia ai danni del fratello. E tutto questo per cosa,
poi? Perché era geloso di Atena?
Ares mollò
Efesto spingendolo all’indietro e si lanciò fuori dalla fucina. Le sagome degli
Dei celesti gli sfrecciarono accanto come illusioni, nulla riuscì a trattenere
il suo sguardo: la furia gli alterava la mente e lo avvolgeva come nebbia fitta,
impedendogli di vedere la realtà. Passò davanti al tempio di Atena, afferrò per
il tronco uno degli ulivi che decoravano la via e lo sradicò dalla terra,
gettandolo contro le colonne frontali. Agì d’impulso, adirato anche con la Pallade
per ciò che era accaduto. Poi si voltò, frantumò con un calcio uno dei vasi di
fiori adagiati ai lati del sentiero e fece per andarsene, quando una voce di Dea
furiosa scoppiò alle sue spalle.
«Buzzurro maledetto! Smettila subito!» Atena
uscì dal tempio e si fermò sui gradini, gli occhi cerulei che splendevano come
specchi colpiti dal sole, l’elmo di bronzo in bilico sulla fronte, la dory stretta nel pugno. Era furibonda per
l’attacco che stava subendo e i luccicanti abiti da guerra la facevano apparire
più minacciosa che mai.
Il Dio la
guardò, stupito dalla sua apparizione. Aveva pensato che fosse già discesa
sulla Terra per combattere accanto all’esercito di Agamennone, ma nel vederla in
tenuta da battaglia, così bella, pulita e lucente, capì di averla incrociata
per un soffio prima del suo ritorno a Troia. Le andò incontro, rosso di rabbia,
e lei fece lo stesso, lanciandosi giù dai gradini. Nessuno dei due sapeva cosa
stava accadendo, ma entrambi sentivano la necessità impellente di far valere le
proprie ragioni.
«Eccola qua, la puttana!» gridò Ares fermandosi
davanti alla Dea. Non la sfiorò con un dito, come se tra loro fosse sorta
un’invisibile barriera, e incombette su di lei coprendola d’ombra.
«Che ti salta in mente? Qui non siamo a
Troia!» Atena picchiò l’estremità inferiore della dory contro il lastricato di pietra, il rumore causato dal colpo si
propagò come un tuono soverchiando per un istante la sua voce. Sentiva le dita
pizzicare dalla voglia di spaccare il naso al fratello; un impulso che stava
mettendo a dura prova la sua capacità di autocontrollo. «Ci sono delle regole
da rispettare, razza di barbaro incivile! Non puoi devastarmi la casa solo
perché gli uomini di Ettore stanno perdendo!»
«Che cazzo me ne frega di Ettore!»
rispose Ares dando in escandescenze. «Credi sia una questione di guerra? Di
schieramenti?»
«Certo che
sì!» rispose Atena, sempre più innervosita. «Nessun altro Dio caro ai Troiani
sarebbe così arrogante e pazzo da attaccarmi sull’Olimpo, a parte te!»
«Troia non c’entra nulla! Sei tu il problema!»
«Di che
stai parlando?»
«Di’ la
verità! Ti è piaciuto farti sborrare addosso da Efesto!»
Un lampo
di sgomento sincero attraversò il viso di Atena. Era consapevole del fatto che
i familiari stessero ridendo di lei – chi più, chi meno – per lo scherzo di cui
era caduta vittima insieme al fabbro, ma fino a quel momento nessuno aveva
osato parlarle apertamente della vicenda, e men che meno lo aveva fatto
scegliendo termini così brutali. Ma Ares non era là per deriderla. Non c’era
alcun sorriso tronfio sulla sua faccia, neanche un misero accenno di
soddisfazione. E che dire dello sfacelo che aveva fatto davanti al tempio? Un
gesto frutto di una rabbia prorompente al quale Atena, ora, non riusciva più a
dare un significato.
«Non
voglio parlare di ciò che è accaduto» disse la Dea sforzandosi di non abbassare
lo sguardo e di tenerlo fisso su quello del tracio. Non aveva alcun controllo
sulla vergogna che le stava colorando le guance, ma sugli occhi sì, quelli
poteva e doveva tenerli ben alti. «Voglio sapere perché hai sradicato uno dei
miei ulivi e distrutto uno dei miei vasi.»
Ares gettò
un’occhiata all’albero che giaceva oltre alle spalle di Atena, schiantato
contro alle colonne, e a poco a poco si calmò, sprofondando in un fastidioso
imbarazzo. Che stava facendo? In che razza di trappola senza via d’uscita si
era andato a cacciare?
Guardò di
nuovo la Dea e, per un momento, gli sembrò di tornare indietro nel tempo, a
quando da ragazzino pendeva dalle sue labbra e sognava di diventare un
guerriero forte e meraviglioso come lei. L’aveva ammirata in silenzio per anni.
Numerose erano state le volte in cui, durante l’adolescenza, si era sfogato in
solitudine immaginandola nuda e innumerevoli quelle in cui, da adulto, aveva
raggiunto rapidi orgasmi sognando di violarla, di castigarla, di punirla per la
sua spocchia costringendola ad apprezzare un’arte volgare in cui lui, e non
lei, era maestro indiscusso. La odiava e la invidiava perché era la figlia favorita
di Zeus; perché era intelligente e amata dai mortali; perché vinceva in un solo
mese più battaglie di quante riuscisse a vincerne lui in un anno intero. La
odiava perché la desiderava e non riusciva a smettere di desiderarla, pur
sapendo che i loro corpi – a differenza delle armi – non si sarebbero mai
sfiorati. E a quella particolare frustrazione si era abituato, l’aveva fatta
sua rassegnandosi all’idea che dalla Dea non avrebbe avuto mai nulla, a parte
freddezza e disprezzo. Ma ora non riusciva più a rassegnarsi e a farsi bastare
l’odio, perché Efesto aveva condiviso un’esperienza unica e intima con lei, e
lui, che l’odiava e l’amava da centinaia di anni, era rimasto a bocca asciutta,
solo con la propria inconfessabile gelosia e la sensazione d’aver perduto per
sempre qualcosa d’importante.
Atena, che
riusciva a leggere dentro al guerriero più di quanto lui immaginasse, provò
disagio nel vederlo così turbato. Sguardi particolari al suo corpo – scoccati
quand’era sicuro di non essere visto o quand’era semplicemente sovrappensiero –
l’avevano indotta a sospettare che fosse ancora infatuato di lei, come lo era
stato da ragazzino e forse addirittura di più, ma quel pensiero le era sempre
sembrato troppo inverosimile e ridicolo da meritare un approfondimento. Alla
luce dei nuovi fatti, però, la Pallade sentiva di non avere più alcun dubbio a
riguardo, ma solo una sconvolgente certezza che non sapeva come gestire.
Alzò con eleganza
il braccio. La fida civetta scese rapida dal cielo e si posò sulla sua mano.
«Non ho
tempo per le tue sciocchezze, devo tornare a Troia» disse con fretta e
imbarazzo evidenti. Quindi superò il tracio e si allontanò.
Ares la
seguì con lo sguardo finché la vide sparire tra i templi, poi si fissò la mano:
le nocche erano lucide d’icore e sporche della fuliggine che copriva il muro
della fucina di Efesto; quella stessa fuliggine che doveva aver lordato le pallide
cosce di Atena, mentre il fabbro la stringeva e palpava con dita nere, arrapato
come una bestia in calore.
Il Signore
degli Opliti ringhiò e sferrò uno, due, tre pugni all’aria. Poi si allontanò a grandi
falcate. Aveva bisogno di combattere e uccidere, e ne aveva bisogno ora.