Come un lungo intestino roccioso, la
galleria per gli Inferi si snodava sotto il volto di Gea scendendo sempre più
giù, negli abissi scuri e inviolati, e non passò molto prima che Ares ed Eris
si trovarono a strisciare sui gomiti, tra guano di pipistrello e pozze d’acqua
gelata. Il cunicolo era tortuoso, più di quanto i due avessero pensato, e si
stringeva in più punti come una gola nell’atto di deglutire; punti in cui le loro
vesti si lacerarono e le braccia si graffiarono, lasciando tracce d’icore d’oro
sulle pareti della roccia. Ciononostante i due proseguirono sempre con
entusiasmo – Ares in testa ed Eris suo malgrado dietro, che smaniava per
sottrargli la prima posizione non appena la galleria si fosse allargata a
sufficienza – e in quei budelli rocciosi, nei quali echeggiava l’eterno
gocciolio dell’acqua, i gemellini ebbero più di un incontro con la fauna
locale. Grossi coleotteri ambrati, ragni dalle zampe sottili come capelli,
scolopendre, scorpioni… Di tanto in tanto, sulle pareti del cunicolo zampettava
una lucidissima creatura delle caverne ed Ares ed Eris avevano giusto il tempo di
percepire la sua presenza, che questa spariva in qualche interstizio.
Non
erano soli là sotto, e più scendevano più avevano l’impressione di stare
attraversando un nuovo regno, a metà strada tra quello dei vivi e quello dei
morti: il regno degli insetti, degli aracnidi e dei millepiedi. Perché di
quelle bestiacce ce n’erano tantissime, pronte a sfrecciare da una parte all’altra
per poi nascondersi nelle fenditure della pietra. Ma i due non avevano paura.
Anzi. Quel nuovo ambiente, che qualsiasi altro bambino avrebbe considerato
ostile e pauroso, stimolava la loro curiosità, e quando la galleria si allargò
di nuovo presero a gattonare fianco a fianco, veloci come ratti, finché non si
affacciarono su uno spazio nuovo: un’area di roccia densa in cui si alternavano
alte colonne di calcare, simili a torri di fango bianco; formazioni bizzarre,
che dal basso salivano a unirsi al soffitto, una volta compatta dalla quale
pendevano come lembi di stracci migliaia e migliaia di stalattiti.
Era
un luogo dentato, aguzzo, costellato di pozze d’acqua e stalagmiti dalle sagome
insolite: alcune di esse si elevavano da terra come falli di pietra; altre, più
grosse e larghe, si ergevano sgraziatamente, simili a statuette informi o idoli
melmosi squagliati dal sole. E tra quelle zanne di pietra, che come lame
gocciolanti fendevano l’aria da parte a parte, l’odore di acquitrino serpeggiava
sempre più intenso; un alito freddo che saliva dal fondo e che, complici
l’umidità e gli abiti fradici, offrì più di un brivido ai due piccoli
esploratori.
«Ehi,
Eris! Guarda!» Ares s’inginocchiò di fronte a una pozza d’acqua, vi ficcò la
mano dentro ed estrasse un proteo: una bestiolina color carne, col muso stretto
e il corpo sottile come quello di un serpente. «Che animale buffo!»
«Cos’è?
Una lucertola?» Eris tese la manina verso l’animale e lo afferrò per la testa,
per guardarlo meglio.
«Che brutto!
Non ha gli occhi!»
«Oh,
è vero!» Ares tirò bruscamente il proteo verso di sé e, bagnato com’era, questo
scivolò via dalle dita di Eris. Fu una fortuna: con la loro irruenza i
gemellini avevano rischiato di spezzarlo in due. «E come fa a vedere se non ha
gli occhi?» domandò il Dio.
«Boh!
Forse ce li ha da un’altra parte, non sulla testa. Fammi vedere!»
«No!»
Ares allontanò l’animale dalle grinfie della sorella. «Voglio tenerlo io! Tu lo
uccidi!»
«Brutto
stupido! Voglio solo vederlo!»
«È
mio!»
«Dammelo
subito o giuro che lo ammazzo!»
«No!»
I
due presero a saltarsi addosso l’un l’altro litigandosi il proteo, e in quella
zuffa Ares urtò col gomito uno spuntone di roccia e si tagliò. Allora lanciò
l’animale in faccia alla sorella.
«Ecco!
Prendi! Contenta?» gridò.
Eris,
sorpresa dal gesto ma per nulla schifata, prese il proteo con entrambe le mani,
lo guardò col massimo del disinteresse e lo gettò in una pozza. Quindi
raggiunse il fratello, lo agguantò per il braccio e appena allora si accorse
che stava sanguinando. «Te l’ho fatto io?»
«No…
anzi, sì!» Ares le lanciò un’occhiataccia. «Mi hai spinto contro la roccia!»
«Smettila
di piagnucolare» Lei gli pulì la ferita con l’orlo della veste. «È solo un
graffio.»
«Non
sto piagnucolando!»
«Sì,
invece. Sei un lagnoso…»
Ares
si lasciò asciugare il sangue, più per desiderio di attenzioni da parte della
sorella che per reale necessità, quindi i due si ripresero per mano e
proseguirono il cammino tra le colonne di calcare, fin quando la terra cominciò
a inclinarsi verso il basso, spingendoli in una pericolosa discesa tra
stalagmiti e lastre di roccia scivolosa.
Erano
come due lucine gettate in un pozzo, che con la loro luce obbligavano
l’oscurità a indietreggiare, a far loro spazio. E quelle tenebre nere – il buio
più denso in cui i due si fossero mai trovati immersi – arretravano sempre e
contemporaneamente chiudevano l’abbraccio alle loro spalle, quasi volessero far
dimenticare loro la strada del ritorno e trattenerli laggiù in eterno. Eppure
l’atmosfera di quell’abisso incorrotto era magica, tutt’altro che spaventosa:
colpite dal bagliore, le stalattiti brillavano come gioielli appesi al soffitto
e le loro ombre – insieme a quelle più paffute delle stalagmiti – danzavano
allegramente sulle pareti al passaggio dei figli di Zeus.
Ma
presto la magia del luogo cominciò a spegnersi. Le stalattiti si diradarono
fino a scomparire; le pareti rocciose, come in preda a un’involontaria
contrazione muscolare di Gea, si restrinsero incuneandosi in una galleria quasi
verticale: un esofago buio e profondo, spaventoso come la più nera delle
voragini.
Ares
ed Eris non si persero d’animo e, aggrappati alla roccia come due gechi,
continuarono la loro scalata al contrario, alla conquista degli abissi
infernali. Sapevano di essere vicini, lo sentivano dall’aria; quell’aria umida
e corposa che, come un antico vapore, saliva dalle profondità della voragine
raffreddando i loro polmoni.
Ormai
ne erano sicuri: là sotto c’era dell’acqua.
Ma
così com’erano certi della sua presenza, erano altrettanto certi che quella non fosse l’acqua che conoscevano. E
neppure la pietra grigia – su cui ora Ares strisciava con cautela stando
attento a non scivolare, mentre Eris, stufa di arrampicarsi, gli volava accanto
come un pipistrello – era la pietra alla quale erano entrambi abituati. Piccoli
e inesperti com’erano, non avrebbero saputo dire con esattezza cosa di essa
fosse cambiato, ma a riguardo il loro istinto parlava chiaro: la roccia, quella roccia, era differente da quella
in superficie e, oltre a essa, tutto là sotto aveva subito un mutamento, assumendo
i tratti di un luogo deserto e inospitale; un ambiente umido eppure al tempo
stesso arido, privo di qualsivoglia forma di vita. E, del resto, da quanto
tempo i due non incrociavano sulla propria strada un insetto, uno scorpione o un
proteo serpeggiante? Persino il gocciare dell’acqua dal soffitto, che
dall’inizio del loro cammino aveva echeggiato senza sosta, si era zittito e ora
nella voragine rimbombava solamente il silenzio della desolazione; un silenzio surreale
che sapeva di morte, di sterilità, di angosciante ed eterna stagnazione.
Il
confine tra i due regni era stato oltrepassato. La vita, coi suoi mille colori,
suoni e profumi, era rimasta indietro.
Ares
ed Eris scesero ancora, senza mai fermarsi, fin quando la gola cominciò a
curvare e a farsi di nuovo orizzontale, come la più ordinaria delle gallerie.
Allora videro una strana luce grigia provenire dal fondo, una specie di smorto
barlume nell’incavo della pietra: era la fine del tunnel.
Come
colti da inaspettata pazzia, i traci si lanciarono in una corsa mozzafiato,
tentando ardentemente di superarsi a vicenda
(Prima io!)
(No, prima io!)
finché
l’oscura caverna scomparve alle loro spalle.
Erano
fuori.