sabato 27 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE II (Ares, Eris, Caronte)



 Come un lungo intestino roccioso, la galleria per gli Inferi si snodava sotto il volto di Gea scendendo sempre più giù, negli abissi scuri e inviolati, e non passò molto prima che Ares ed Eris si trovarono a strisciare sui gomiti, tra guano di pipistrello e pozze d’acqua gelata. Il cunicolo era tortuoso, più di quanto i due avessero pensato, e si stringeva in più punti come una gola nell’atto di deglutire; punti in cui le loro vesti si lacerarono e le braccia si graffiarono, lasciando tracce d’icore d’oro sulle pareti della roccia. Ciononostante i due proseguirono sempre con entusiasmo – Ares in testa ed Eris suo malgrado dietro, che smaniava per sottrargli la prima posizione non appena la galleria si fosse allargata a sufficienza – e in quei budelli rocciosi, nei quali echeggiava l’eterno gocciolio dell’acqua, i gemellini ebbero più di un incontro con la fauna locale. Grossi coleotteri ambrati, ragni dalle zampe sottili come capelli, scolopendre, scorpioni… Di tanto in tanto, sulle pareti del cunicolo zampettava una lucidissima creatura delle caverne ed Ares ed Eris avevano giusto il tempo di percepire la sua presenza, che questa spariva in qualche interstizio.
Non erano soli là sotto, e più scendevano più avevano l’impressione di stare attraversando un nuovo regno, a metà strada tra quello dei vivi e quello dei morti: il regno degli insetti, degli aracnidi e dei millepiedi. Perché di quelle bestiacce ce n’erano tantissime, pronte a sfrecciare da una parte all’altra per poi nascondersi nelle fenditure della pietra. Ma i due non avevano paura. Anzi. Quel nuovo ambiente, che qualsiasi altro bambino avrebbe considerato ostile e pauroso, stimolava la loro curiosità, e quando la galleria si allargò di nuovo presero a gattonare fianco a fianco, veloci come ratti, finché non si affacciarono su uno spazio nuovo: un’area di roccia densa in cui si alternavano alte colonne di calcare, simili a torri di fango bianco; formazioni bizzarre, che dal basso salivano a unirsi al soffitto, una volta compatta dalla quale pendevano come lembi di stracci migliaia e migliaia di stalattiti.
Era un luogo dentato, aguzzo, costellato di pozze d’acqua e stalagmiti dalle sagome insolite: alcune di esse si elevavano da terra come falli di pietra; altre, più grosse e larghe, si ergevano sgraziatamente, simili a statuette informi o idoli melmosi squagliati dal sole. E tra quelle zanne di pietra, che come lame gocciolanti fendevano l’aria da parte a parte, l’odore di acquitrino serpeggiava sempre più intenso; un alito freddo che saliva dal fondo e che, complici l’umidità e gli abiti fradici, offrì più di un brivido ai due piccoli esploratori.
«Ehi, Eris! Guarda!» Ares s’inginocchiò di fronte a una pozza d’acqua, vi ficcò la mano dentro ed estrasse un proteo: una bestiolina color carne, col muso stretto e il corpo sottile come quello di un serpente. «Che animale buffo!»
«Cos’è? Una lucertola?» Eris tese la manina verso l’animale e lo afferrò per la testa, per guardarlo meglio.
«Che brutto! Non ha gli occhi!»
«Oh, è vero!» Ares tirò bruscamente il proteo verso di sé e, bagnato com’era, questo scivolò via dalle dita di Eris. Fu una fortuna: con la loro irruenza i gemellini avevano rischiato di spezzarlo in due. «E come fa a vedere se non ha gli occhi?» domandò il Dio.
«Boh! Forse ce li ha da un’altra parte, non sulla testa. Fammi vedere!»
«No!» Ares allontanò l’animale dalle grinfie della sorella. «Voglio tenerlo io! Tu lo uccidi!»
«Brutto stupido! Voglio solo vederlo!»
«È mio!»
«Dammelo subito o giuro che lo ammazzo!»
«No!»
I due presero a saltarsi addosso l’un l’altro litigandosi il proteo, e in quella zuffa Ares urtò col gomito uno spuntone di roccia e si tagliò. Allora lanciò l’animale in faccia alla sorella.
«Ecco! Prendi! Contenta?» gridò.
Eris, sorpresa dal gesto ma per nulla schifata, prese il proteo con entrambe le mani, lo guardò col massimo del disinteresse e lo gettò in una pozza. Quindi raggiunse il fratello, lo agguantò per il braccio e appena allora si accorse che stava sanguinando. «Te l’ho fatto io?»
«No… anzi, sì!» Ares le lanciò un’occhiataccia. «Mi hai spinto contro la roccia!»
«Smettila di piagnucolare» Lei gli pulì la ferita con l’orlo della veste. «È solo un graffio.»
«Non sto piagnucolando!»
«Sì, invece. Sei un lagnoso…»
Ares si lasciò asciugare il sangue, più per desiderio di attenzioni da parte della sorella che per reale necessità, quindi i due si ripresero per mano e proseguirono il cammino tra le colonne di calcare, fin quando la terra cominciò a inclinarsi verso il basso, spingendoli in una pericolosa discesa tra stalagmiti e lastre di roccia scivolosa.
Erano come due lucine gettate in un pozzo, che con la loro luce obbligavano l’oscurità a indietreggiare, a far loro spazio. E quelle tenebre nere – il buio più denso in cui i due si fossero mai trovati immersi – arretravano sempre e contemporaneamente chiudevano l’abbraccio alle loro spalle, quasi volessero far dimenticare loro la strada del ritorno e trattenerli laggiù in eterno. Eppure l’atmosfera di quell’abisso incorrotto era magica, tutt’altro che spaventosa: colpite dal bagliore, le stalattiti brillavano come gioielli appesi al soffitto e le loro ombre – insieme a quelle più paffute delle stalagmiti – danzavano allegramente sulle pareti al passaggio dei figli di Zeus.
Ma presto la magia del luogo cominciò a spegnersi. Le stalattiti si diradarono fino a scomparire; le pareti rocciose, come in preda a un’involontaria contrazione muscolare di Gea, si restrinsero incuneandosi in una galleria quasi verticale: un esofago buio e profondo, spaventoso come la più nera delle voragini.
Ares ed Eris non si persero d’animo e, aggrappati alla roccia come due gechi, continuarono la loro scalata al contrario, alla conquista degli abissi infernali. Sapevano di essere vicini, lo sentivano dall’aria; quell’aria umida e corposa che, come un antico vapore, saliva dalle profondità della voragine raffreddando i loro polmoni.
Ormai ne erano sicuri: là sotto c’era dell’acqua.
Ma così com’erano certi della sua presenza, erano altrettanto certi che quella non fosse l’acqua che conoscevano. E neppure la pietra grigia – su cui ora Ares strisciava con cautela stando attento a non scivolare, mentre Eris, stufa di arrampicarsi, gli volava accanto come un pipistrello – era la pietra alla quale erano entrambi abituati. Piccoli e inesperti com’erano, non avrebbero saputo dire con esattezza cosa di essa fosse cambiato, ma a riguardo il loro istinto parlava chiaro: la roccia, quella roccia, era differente da quella in superficie e, oltre a essa, tutto là sotto aveva subito un mutamento, assumendo i tratti di un luogo deserto e inospitale; un ambiente umido eppure al tempo stesso arido, privo di qualsivoglia forma di vita. E, del resto, da quanto tempo i due non incrociavano sulla propria strada un insetto, uno scorpione o un proteo serpeggiante? Persino il gocciare dell’acqua dal soffitto, che dall’inizio del loro cammino aveva echeggiato senza sosta, si era zittito e ora nella voragine rimbombava solamente il silenzio della desolazione; un silenzio surreale che sapeva di morte, di sterilità, di angosciante ed eterna stagnazione.
Il confine tra i due regni era stato oltrepassato. La vita, coi suoi mille colori, suoni e profumi, era rimasta indietro.
Ares ed Eris scesero ancora, senza mai fermarsi, fin quando la gola cominciò a curvare e a farsi di nuovo orizzontale, come la più ordinaria delle gallerie. Allora videro una strana luce grigia provenire dal fondo, una specie di smorto barlume nell’incavo della pietra: era la fine del tunnel.
Come colti da inaspettata pazzia, i traci si lanciarono in una corsa mozzafiato, tentando ardentemente di superarsi a vicenda
(Prima io!)
(No, prima io!)
finché l’oscura caverna scomparve alle loro spalle.
Erano fuori.

mercoledì 24 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE I (Ares, Eris, Thanatos)



Risate. Schiocchi d’acqua. Strilli. Filastrocche.
Sulle rive del fiume Nestos, che quella mattina scorreva sul suo letto di ciottoli grigi senza quasi far rumore, fanciulli e fanciulle di divina discendenza giocavano insieme, dando libero sfogo al proprio impeto giovanile. Figli e figlie di padri differenti – Dei dei fiumi, dei venti, delle alte montagne – i giovinetti si davano spesso appuntamento in quella particolare zona della Tracia, dove il Nestos si presentava tranquillo e liscio, quasi non aspettasse altro che accoglierli e farli divertire con le proprie acque. Ma non tutti amavano inzupparsi e, al freddo ruscello, alcuni preferivano il calore dei sassi che contornavano la sua azzurra sagoma, e su di essi sedevano e intonavano canzoni, accompagnati dalla melodiosa voce delle ninfette dei boschi. Erano piccoli, dei bimbi che in altezza non superavano un satiro, ma nonostante la giovane età gironzolavano come caprioli tra gli alberi e le rocce, senza che alcun Dio superiore vegliasse su di loro. Non avevano bisogno di protezione né di sorveglianza: erano svegli e veloci a sufficienza da scomparire in un baleno in caso di necessità, ed era questa sicurezza interiore, questa fiducia nelle proprie capacità divine a renderli così spensierati e vivaci.
Per loro, il mondo era un luogo bellissimo, e bellissimo era giocare, giocare e ancora giocare.
Ma sulle rive del Nestos non tutti si stavano divertendo.
Seduta poco distante su un vecchio tronco coperto di muschio, Eris osservava a braccia incrociate gli altri bimbi, che con l’acqua alle caviglie si chinavano sul ruscello e si schizzavano a vicenda. Fece una smorfia seccata, un suono simile a un ringhio le scivolò di bocca. Detestava la delicatezza con cui quelli si stuzzicavano; quel profondo rispetto che trasudava da ogni loro movenza, così schifosamente effeminata ed elegante. Era un modo di giocare che non oltrepassava mai alcun limite, che non sfidava mai per davvero l’altro né puntava a metterlo in difficoltà; un modo di giocare che con lei, ostile creatura, era completamente incompatibile. Certo, in passato aveva provato a partecipare a quei giochi, ma la sua indole aggressiva e malevola l’aveva subito costretta ai margini del gruppo, perché nessuno di quei bimbetti sopportava i suoi insulti, gli sgambetti, le risatine di scherno... in breve, il suo modo di giocare. E più volte, dopo essere stata emarginata, Eris si era reintrodotta a forza nel gruppo, trovando insopportabile l’idea di non poter più tormentare nessuno di quei ragazzini piagnucolosi, e questi, non potendo scappare da lei, avevano sempre ceduto alle sue pressioni, accettandola malvolentieri.
Ma quella mattina, per qualche oscura ragione, il suo cuore era colmo di frustrazione e il desiderio di dare un taglio netto a quelle abitudini di vita era più grande che mai.
Era stanca di accontentarsi, di farsi andare bene quel branco di rammolliti.
Voleva cominciare a giocare davvero.
Sbuffò e gettò un’occhiata a suo fratello Ares. Era seduto per terra davanti a lei, col capo chino e l’espressione concentrata: stava cercando di legare una pietra acuminata all’estremità di uno stecco, nel tentativo di creare una lancia, ma il sasso che aveva scelto era troppo pesante per fungere allo scopo, e il ramo troppo sottile. Un’impresa persa in partenza che, però, lo stava tenendo piacevolmente impegnato.
Eris saltò giù dal tronco. «Che stupido!» borbottò, sfilandogli lo stecco di mano.
«Ehi!» Ares si voltò e allungò la manina, ma la gemella fu più veloce e, con un colpo secco, spezzò in due il fuscello. «Nooo!» Il Dio scattò in piedi. «Perché l’hai fatto? Cattiva!»
Eris gli rivolse un sorriso malvagio e aguzzo, simile al ghigno di un pipistrello. Era pronta a ricevere le sue lacrime; la prima scarica di divertimento vero dall’inizio di quella piatta mattinata. Ma Ares non pianse. Aggrottò le sopracciglia, serrò i pugnetti e li affondò più volte in aria, come fanno i bambini in preda alla rabbia. Eris sbuffò di nuovo, più indispettita di prima. Aveva sempre rimproverato il gemello per il modo in cui era solito frignare ogni qualvolta lei gli dava leggermente fastidio, e a suon di insulti lo aveva sempre spronato a essere forte, a reagire con vigore e dignità a qualsiasi torto gli venisse fatto. Ma ora che invece di piangere lui si stava mostrando adirato, Eris si sentiva più frustrata di prima. Gli avrebbero fatto comodo le sue lacrime ora che si stava annoiando da morire, ma evidentemente quella non era la sua giornata fortunata.
«Smettila di giocare con questi stecchi!» disse, gettando a terra il ramo spezzato. «Tanto non la sai costruire una lancia!»
Ares saltò sul posto, sempre più infuriato. «Sì che la so costruire!»
«Pfff! Come no…» Eris rise e subito tornò seria. «Sei solo un imbranato.»
Ares raccolse i due pezzi di legno, li osservò per decidere se fossero ancora utilizzabili in qualche modo e infine li gettò a terra. «Io so costruire una lancia» ripeté convinto, guardando la sorellina negli occhi. «Te lo farò vedere!»
Eris diede una spintarella al gemello. «Che noioso sei! Tu e le tue stupide lance sbilenche!»
Lui la guardò confuso. Non capiva qualche fosse il suo problema né per quale motivo se la stesse prendendo con lui. «Ma… io…»
«Sono stanca di stare qui» disse lei, scagliando tutt’intorno occhiate d’odio. «Sono tutti così stupidi! Con le loro canzoncine, le loro risatine! Puah!» Mimò un conato di vomito con tanto di lingua fuori, quindi strisciò vicino al fratello, gli prese una mano e gli parlò sottovoce, con tono birichino. «Tu non hai voglia di giocare con qualcun altro? Qualcuno più forte?»
«Più… forte?» ripeté Ares, senza capire.
«Sì! A questi rammolliti non possiamo fare niente che subito si spaventano e scappano! Ricordi quando abbiamo giocato a rincorrerci?»
«Sì.» Ares s’imbronciò. Ricordava bene quel giorno, quando lui ed Eris avevano giocato a rincorrere – o, meglio, predare – gli altri fanciulli, e questi, pazzi di paura avevano cominciato a correre da tutte le parti, ad arrampicarsi sugli alberi, a schizzare via nella selva come conigli minacciati. E tutto questo panico per cosa? Perché loro, invece di toccarli delicatamente quando li raggiungevano, gli saltavano addosso, ansimando e ringhiando per la foga. Un gioco che ad Ares era piaciuto tantissimo, ma che a entrambi era costato giorni di emarginazione e solitudine. «Si sono spaventati tutti» aggiunse.
«Perché sono delle mammolette!» Eris gli strinse la mano più forte. «Dai! Andiamo a cercare qualcun altro con cui giocare! Qualcuno che ci faccia divertire davvero!»
Ares sorrise da orecchio a orecchio. L’idea lo eccitava tantissimo. «Sì, sì!» rispose. Poi la sua espressione si fece perplessa. «Ma… con chi potremmo giocare?»
«Coi mortali!» rispose Eris, senza alcuna esitazione.
Il piccolo Dio sgranò gli occhi. «Coi mortaaaali?» Arricciò il labbro, tra lo stupore e il disgusto: né lui né la sorella avevano mai rivolto la parola ai mortali prima d’ora, abituati com’erano a considerarli inferiori e poco interessanti, e l’invito a prenderli in considerazione come possibili compagni di giochi – addirittura migliori degli altri Dei – ad Ares suonò come una presa in giro. E del resto, quante volte Eris si era presa gioco di lui e della sua ingenuità, per poi dargli dell’idiota credulone? Tante, troppe per lui, per non mostrarsi adesso più che diffidente. «Non ci credo che vuoi giocare con loro! Mi prendi in giro!»
Eris gli mollò bruscamente la mano e schioccò l’indice sul suo naso. «No che non ti prendo in giro, stupido! Voglio davvero giocare coi mortali! E lo farò adesso, anche se tu non vieni!» Detto questo, la piccola Dea diede le spalle al fiume e si avviò verso la boscaglia. Non se ne sarebbe andata davvero senza il gemello: il suo era solo un bluff che, come aveva previsto, funzionò alla grande.
«Eris! Aspettami!» gridò Ares, correndole dietro.
Di nuovo fianco a fianco, i due si ripresero per mano e insieme s’inoltrarono nella foresta.
«Perché vuoi giocare coi mortali?» le domandò Ares, mentre saltellavano tra gli arbusti. «I mortali sono inferiori…»
«Te l’ho già dettoooo! Loro sono diversi da quei rimbambiti con cui giochiamo sempre! Loro sono imperfetti! Coraggiosi! Cattivi!»
«Cattivi?»
«Sì!» Eris si atteggiò a grande conoscitrice del mondo mortale, benché di esso ne sapesse poco o nulla. «I mortali amano essere cattivi e i loro bimbi amano giocare senza regole! Spingono, fanno la lotta, si arrabbiano, si graffiano! Sarà bello giocare con loro!»
«Ma Eris… come facciamo a giocare con loro?»
La Dea lanciò al gemello un’occhiata interdetta. «Che vuol dire?»
Ares scrollò le spalle. «I mortali… be’, i mortali muoiono.»
Eris si fermò. Quel pensiero, quella banale considerazione la colpì più forte del previsto: aveva completamente dimenticato che i mortali avessero una tolleranza fisica molto limitata, al punto che anche un banale colpo in testa o un affondo di coltello troppo profondo potevano ucciderli… o, perlomeno, così le era stato raccontato tempo addietro; parole che avevano all’istante suscitato la sua ilarità. Ma era il concetto stesso di morte, di trapasso, che adesso la teneva in bilico facendola sentire un po’ eccitata e un po’ delusa. Perché forse Ares aveva ragione, forse i mortali non sarebbero stati compagni di giochi adatti a loro se al primo accenno di lotta fossero stramazzati a faccia in giù, senza più fiatare né muovere un muscolo. Ma se invece fosse stata proprio la morte, quell’incognita misteriosa, a renderli i compagni di giochi migliori tra tutti?
Un sorrisetto maligno si affacciò sul viso della Dea.
Inseguire, aggredire e infine uccidere i bimbi mortali.  
Quella sì che sarebbe stata una bella botta di eccitazione; un’esperienza che avrebbe permesso loro di scoprire cosa realmente accade quando una creatura a esistenza limitata esala l’ultimo respiro… perché a riguardo i due gemellini avevano le idee molto confuse. Certo, sapevano che esisteva il Dio Thanatos, il Raccoglitore di Anime, come sapevano che esisteva Ade, l’Oscuro regnante degli Inferi, ma non avendo ancora conosciuto né l’uno né l’altro – e non avendo ancora mai assistito di persona al trapasso di un mortale - i due non sapevano cosa aspettarsi. Eppure Eris non era sicura di voler usare in quel modo i bimbi mortali; di cercarli unicamente per spaventarli e ucciderli. Giocare con loro, essere violenti tutti insieme senza paure né limiti le sarebbe piaciuto molto di più. Ma, per quanto piccola fosse, aveva già capito che in certe occasioni era meglio lasciar fare al destino e godersi la sorpresa.
«Se muoiono, muoiono» rispose facendo spallucce. «Noi giocheremo con loro finché potremo.»
«E se non vorranno giocare con noi?» domandò Ares.
«Giocheranno con noi!» replicò lei, decisa. «Li obbligheremo!»
«Non vedo l’ora!» Ares sorrise e i suoi occhi brillarono di aggressività. Trotterellò in avanti trascinandosi dietro Eris quasi fosse una parte del proprio vestiario, ma lei, invece di infuriarsi per quei movimenti bruschi, subito salterellò con lui.
Erano entrambi euforici, curiosi e affamati di esperienza, e saltello dopo saltello uscirono dalla boscaglia e si affacciarono su un sentiero; una via che, come una serpe bianca, scorreva a grandi onde sul verde dell’erba.
Lungo quella strada avrebbero trovato ciò che cercavano.
Ne erano certi.