venerdì 5 febbraio 2016

GELOSIA - (Afrodite, Adone e Ares)

   Attenzione: il racconto contiene scene di violenza.


Monte Libano.
Un tempio a cielo aperto dalle colonne di corteccia e l’aria che profuma di rugiada, esplosione di verdi aceri, ginepri e querce dalla chioma possente sotto la quale trovare riparo durante le ore di massima calura. E proprio là, sotto a una di quelle querce ombrose, la dea Afrodite sollevò la sua bianca veste dalle rifiniture d’oro e si sedé. L’erba era morbida come un tappeto, fresca quanto la brezza che solleticava le foglie e le ghiande sui rami. Afrodite, lunghi capelli ramati e occhi blu oceano splendidi come gemme, era raggiante: le labbra distese in un tenue sorriso, lo sguardo rivolto al bell’Adone, suo amante. Era innamorata e l’amore la rendeva più incantevole che mai.
E anche il giovane Adone, figlio di re Cinira, sfoggiava una bellezza senza eguali. Riccioli bruni, occhi dolci e profondi, corpo da atleta; il ragazzo era un mortale come tanti ma il suo fascino era divino e la dea ne era stata conquistata fin dal primo istante in cui i loro sguardi si erano incontrati.
Adone si avvicinò ad Afrodite; la muta di levrieri alle spalle, il capriolo trascinato per i palchi con la freccia ancora conficcata nel collo. Il giovane era un grande cacciatore e non ci aveva messo molto ad impadronirsi di quella preda, caduta sotto agli occhi ammirati della dea che da giorni lo accompagnava nei boschi per le battute di caccia.
Lasciò il capriolo e si sedette sotto la quercia accanto ad Afrodite.
<<Desidero un cervo. Un semplice capriolo non è degno di Voi.>>, disse. La voce era bassa e stanca ma gli occhi brillavano di passione. <<Ne catturerò uno prima del tramonto.>>
Afrodite sorrise. Con delicatezza spostò una ciocca dalla fronte sudata del giovane. <<Mio bell’Adone, non ti angustiare. Non ne hai motivo. Dimentica il cervo e riposa. Sei affaticato, lascia che le mie carezze ti donino sollievo.>>
<<Siete tanto dolce e bella...>>, replicò il ragazzo mentre la dea gli accarezzava il collo. <<La Vostra bellezza delizia i miei sensi. È profumo di fiordaliso, vino d’uva pregiata, la prima mela che placa la fame… è un piacere che non mi stanca mai.>>
<<Anche la tua bellezza è per me fonte di piacere, meraviglioso amante mio...>>, disse Afrodite poggiando il capo sulla spalla del giovane. <<Ammirarti mi dà gioia, il tuo bel volto è per me luce e ispirazione e orgoglio perciò lascia che io goda di te, perché questo e solo questo mi offre appagamento...>>
Alle parole della dea seguì il silenzio.
Adone, rilassato, socchiuse gli occhi e si lasciò stordire da quelle lievi carezze al petto, senza dire più nulla. E Afrodite, profondamente affascinata da quel bel viso dai tratti delicati che avrebbe potuto superare in bellezza persino il divino Apollo, pensò che mai e poi mai avrebbe ceduto quel ragazzo ad un’altra, dea o mortale che fosse.
Perché vi era davvero un’altra.
Un’altra che, come lei, desiderava l’avvenente Adone tutto per sé perché di lui si era perdutamente innamorata.
Il suo nome era Persefone. 
Anche lei, moglie di Ade, dio degli Inferi, era attratta dal giovane e per lui aveva apertamente sfidato Afrodite senza timore alcuno, e per risolvere la disputa era stato necessario l’intervento della saggia musa Calliope, che aveva deciso di offrire Adone a entrambe le contendenti per uguale periodo di tempo. Il giovane avrebbe quindi passato quattro mesi dell’anno con Afrodite, quattro mesi con Persefone e i restanti quattro con una persona di sua scelta; così aveva deciso la musa. Ma quella sentenza aveva lasciato insoddisfatta Afrodite, che aveva così deciso di rubare a Persefone il tempo a cui aveva diritto e tenersi Adone solamente per sé, sempre. Non l’avrebbe lasciato: era suo e suo soltanto e nessuno glielo avrebbe portato via.
<<Voglio un tuo bacio, Adone...>>, sussurrò la dea. <<Baciami ancora e ancora. Dimmi che sono bellissima e che nulla, in cielo, in terra e in mare è meraviglioso quanto noi due insieme...>>
<<Il vostro divino corpo è eleganza e incanto e splendore. Bellissima, Voi, mia Afrodite, che ingenuamente sperate che qualche parola sussurrata da questo insignificante mortale sia in grado di descrivere la Vostra accecante beltà. Ciò che dico è poco, conta meno del capriolo steso ai nostri piedi. Vorrei appagarvi, offrirvi di più e di meglio ma le parole e i miseri doni sono nulla di fronte a Voi, credetemi. Perciò Vi prego, non chiedetemi parole né poesia né canti. La mia mediocrità Vi offenderebbe. Accettate le mie labbra in silenzio e unite la Vostra bellezza alla mia, e amatemi. Amatemi, mia Afrodite...>> Adone prese fra le mani il viso della dea e i due si baciarono a lungo all’ombra delle querce.

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Dai celesti cieli dell’Olimpo, Ares, oscuro dio della guerra e della violenza, vegliava con cuore furente su quell’amore. Dritto come un soldato pronto alla battaglia, l’elmo sul capo e i muscoli tesi, spiava la bella dea e il suo amante e ad ogni bacio e carezza i suoi occhi d’ambra si facevano più accesi. Il mantello rosso, la lancia stretta nel pugno, le labbra serrate in una smorfia di odio e gelosia.
Ares amava Afrodite e la sua passione era da tempo immemore ricambiata dalla dea, che coi suoi morbidi abbracci gli rendeva più dolce il ritorno sull’Olimpo dopo ogni battaglia. Erano uniti, per sempre stretti nella morsa di Eros, e sebbene ci fossero altre fanciulle ad allietare le sue notti di tanto in tanto, Ares sentiva di appartenere ad Afrodite e sapeva di avere il suo amore. Ed era pientamente consapevole che quelli della dea erano insulsi capricci d’amore, nulla più che frivolezze passeggere, ma vedere le mani di quel mortale correre indisturbate sul suo corpo, sulla sua adorata dea, lo faceva bruciare d’ira.
E mentre era là, immobile, a spiare le tenere effusioni dei due, la triste Persefone gli parlò dagli Inferi dove era costretta a regnare per sei mesi all’anno accanto al suo sposo.
Sussurrò all’orecchio del dio, gli fu vicina seppure lontana.
<<Povero Ares...>>, mormorò con un tono che era compatimento e scherno assieme.
Il dio fece una smorfia. Capì subito chi gli stava parlando e intuì cosa gli sarebbe stato detto di lì a poco. Si voltò di nuovo verso gli amanti.
<<Adone è bello...>>, continuò Persefone. <<Bello quanto il sole e la luna. Il suo corpo è perfetto, integro e puro come un giglio e con cotanto fascino non puoi competere, tu, dio del sangue e della mera brutalità. Il tuo viso è scuro, il tuo sguardo assetato di grida e rosse ferite. In te vivono la guerra, la distruzione, il furore. Non puoi competere con la sua bellezza.>>
Persefone lasciò che qualche secondo di silenzio marcasse le sue parole.
Era in cerca di vendetta: Afrodite aveva osato sfidarla e portarle via Adone non rispettando così il volere di Calliope e le avrebbe fatto pagare questo affronto. Trascinata negli Inferi con l’inganno, Persefone non tollerava più menzogne e tradimenti ed era decisa a manipolare il dio della guerra per vendicarsi della bella dea.
Rincarò la dose, più determinata che mai. <<Accetta la sconfitta, Ares. Su questo campo Adone ti batte. O stai davvero pensando di gareggiare tra i belli? Tu?>>
<<Non ti permetto di parlarmi in questo modo, donna!>>, ringhiò il dio adirato. <<Taci, che non sai nulla!>>
<<So quello che sanno e vedono tutti: Afrodite preferisce Adone a te. Ma non è mia intenzione infierire né tormentare le tue ferite d’orgoglio e ti chiedo perdono se le mie parole hanno accresciuto la tua rabbia. Esprimere la mia pena per te, questo era il mio unico desiderio. Addio, Ares.>>, disse Persefone e tacque.
Di nuovo solo con la propria gelosia, Ares sentì l'ira crescere e bruciargli nel petto. E più le mani di Adone scorrevano sulla pelle di Afrodite, più il battito del dio aumentava; i pugni tremanti, lo sguardo infuocato, il viso contratto in un ringhio da belva. La gelosia, così simile al furore che sempre lo spingeva a tuffarsi in battaglia, si impossessò di lui e lo dominò.
<<Bastardo d'un mortale...Ora vedrai.>>, ruggì fra i denti e si allontanò.


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Stretti nel loro abbraccio amoroso, Afrodite e Adone si dimenticarono di essere in una selva. I levrieri accucciati accanto al capriolo dormicchiavano nell’attesa di un comando e l’aria era ferma, il silenzio profondo. Afrodite, impaziente di riempire di sospiri quella calma piatta, chiese al suo amante di sfilarle la veste. Adone poggiò le mani sul pregiato tessuto, quand’ecco che si udì un fruscio.
Rami spezzati, rumore di zoccoli.
I cani scattarono e abbaiando si lanciarono fra gli alberi.
<<Deve essere vicino!>>, esclamò Adone ora voltato dalla parte opposta, dalla quale proveniva il rumore. <<Potrebbe essere un cervo...>>
<<Che importanza ha?>>, domandò la dea. <<È forse un cervo più importante di me?>>
Adone sorrise all’amante. Lei lo cinse con le braccia e lui tornò a baciarla, ma l’abbaiare dei cani li interruppe nuovamente. Adone notò subito che il loro abbaio era diverso, folle, come fossero terrorizzati, e sussultò quando ne vide alcuni tornare col dorso ricurvo per la paura. Mai erano indietreggiati di fronte a una preda prima d’allora.
Il giovane si alzò in piedi. <<Temo si tratti di una bestia feroce.>>, disse incoccando svelto una freccia.
Spaventata Afrodite si rialzò e posò una mano sulla spalla di Adone. <<Ti prego, andiamo via. Temo per la tua vita.>>
<<Non dovete.>>, rispose lui senza guardarla, con la freccia puntata verso la preda che si sarebbe svelata tra pochi istanti. <<Sono esperto, le creature della selva non mi intimoriscono. Ma state indietro, Vi prego. Non vorrei che Vi feriste.>>
Afrodite si allontanò di qualche passo, circondata dai levrieri che erano ritornati dal padrone e che ora ringhiavano sommessamente in direzione della bestia che li aveva spaventati. Dal fitto fogliame riemersero altri cani, veloci come conigli. Adone deglutì nervoso; mai li aveva visti così impauriti. Che razza di creatura stava per fronteggiare? Nella faretra gli restavano cinque frecce. Sarebbero bastate?
Un tetro grugnito, potente come un tuono, vibrò nella foresta ed ecco che dai cespugli apparve la temuta bestia: un cinghiale alla carica.
Adone sobbalzò per l’orrore. Vide le zanne bianche e grosse, la pelliccia ispida e scura, gli occhi affilati e brillanti come gocce di resina. Non era un cinghiale qualsiasi: era enorme, un vero mostro. Ed era furioso.
Assordato dagli abbai dei suoi cani che assistevano alla scena a distanza senza intervenire, Adone recuperò la concentrazione, mirò e scoccò la freccia. Il cinghiale scattò a sinistra con sua grande sorpresa e la freccia si perse fra le foglie di un acero. Svelto Adone ne prese un'altra dalla faretra, la incoccò e la scagliò mirando agli occhi del cinghiale ma per la seconda volta la bestia schivò, quasi fosse dotata d’umano intelletto. Adone prese una terza freccia ma non fece in tempo a incoccarla che il cinghiale lo travolse.
L’impatto fu tremendo. Un atroce dolore alle gambe folgorò il cacciatore che volò in aria e subito cadde schiantandosi al suolo di faccia.
Accadde tutto in pochi attimi. Afrodite gridò sconvolta, l’abbaio dei cani si fece più forte. Adone cercò di rialzarsi facendo leva sulle braccia ma il cinghiale lo atterrò colpendolo con gli zoccoli delle zampe anteriori. La veste del giovane si stracciò e si tinse di rosso sotto ai colpi della bestia che implacabile continuava a massacrargli la schiena.
Afrodite, paralizzata dall’orrore, non poté fare altro che urlare nel tentativo di scacciare l’animale, ma fu inutile: il cinghiale continuò ad accanirsi con ferocia sulla sua vittima. Adone cercò di gridare ma dalla bocca gli uscì un rantolo gorgogliante: i polmoni si erano riempiti di sangue, lo scheletro si stava frantumando. Col braccio che ancora si muoveva si aggrappò a un ciuffo d’erba e provò a strisciare ma una zoccolata lo colpì alla testa e tutto si fece grigio. Il giovane avvertì una sensazione di umido calore all’orecchio destro; i rumori si fecero ovattati, le urla di Afrodite lontane, sempre più lontane. Il cinghiale iniziò a morderlo: affondò le zanne nella nuca, gli strappò una guancia, lo girò a colpi di muso per accanirsi sui testicoli e sulle cosce.
Dopo interminabili istanti di agonia, Adone morì e solo allora il cinghiale si fermò.
Afrodite gli lanciò un’occhiata e quando lo vide indietreggiare si avvicinò pallida e tremante, e rimase sconvolta nel vedere cosa era diventato il suo amato: un corpo fradicio di sangue fatto di brandelli di carne viva e qualche striscia di stoffa qua e là. Orrendo, mostruoso, irriconoscibile.
Disperata pianse il suo bell’Adone senza toccarlo, tanto era intenso il disgusto che quel corpo martoriato le suscitava, ma il suo sangue le macchiò ugualmente la veste: ce n’era così tanto sul terreno e sull’erba che sembrava che l’intera foresta si fosse tinta di rosso. E Afrodite, decisa a ricordare per l’eternità la rara bellezza del giovane sfumata così in fretta, da quel sangue scuro che bagnava la terra fece sbocciare dei fiori: gli anemoni.
<<Meraviglioso anemone, tuo sarà il compito di ricordare al mondo, ora e per sempre, il bel viso di Adone. Fiore del vento, vivrai magnifico e sfiorirai al primo bacio di brezza, fragile come il figlio di Cinira che sul Monte Libano trovò l’amore e la morte.>>
Afrodite si strinse in un commosso silenzio, persa ad ammirare il letto di anemoni che ora faceva da bara al corpo del giovane. Si asciugò le lacrime e si voltò. I cani erano ancora nascosti tra gli alberi, intimoriti dal cinghiale che non sembrava intenzionato ad allontanarsi. La dea lo vide avvicinarsi di nuovo al corpo martoriato: il muso era rosso, le zanne lucide di sangue. Ansimava ancora per l’eccitazione dell'attacco.
Nauseata da quella creatura, ora così vicina al punto che ella riusciva a sentire l'odore acre e selvatico della sua pelliccia, Afrodite fece un passo indietro ed ecco che il cinghiale mutò. Le sue forme scivolarono morbide, il dorso si fece schiena e mantello rosso, la testa irsuta mutò in elmo e viso d'uomo. L’animale scomparve e apparve Ares, inginocchiato come un penitente che supplica il perdono. Ma non vi era rimorso alcuno negli occhi del dio, che si alzò maestoso e fiero di fronte ad Afrodite.
<<TU!>>, esclamò la dea sconvolta.
Ares non disse nulla: aveva la bocca sporca di sangue e frammenti di ossa umane. Con fare sprezzante sputò sui resti del rivale in amore, si passò il dorso della mano sulle labbra e sorrise.
Furiosa e disperata, Afrodite si schiantò sul petto di lui che l’afferrò e la strinse, appagato da quella sensazione di ritrovato possesso.
<<Come hai potuto? COME? Infame vigliacco!>>, gridò la dea in lacrime. <<Non capisci nulla! Adone era bello, un tesoro di rara bellezza e tu, schifoso distruttore, l’hai ucciso! Perché, Ares? Perché? Perché l’hai fatto?>>
Il dio rise. Si staccò dalla dea e calciò il cadavere di Adone sul fianco. <<Non è forse più bello ora, con le interiora di fuori e i testicoli squartati? O i tuoi amanti sono belli finché non sono sporchi di sangue, mia dea?>>
<<Sei un mostro!>> A pugni stretti Afrodite scaricò sul muscoloso petto del dio tutta la sua disperazione. <<Non dovevi farlo! Perché? Perché mi hai fatto questo?>>
Ares si lasciò colpire, serio e immobile, e quando la dea si fermò sfinita la strinse a sé. <<Il bell’Adone è morto. Piangilo quanto vuoi, grida finché avrai voce ma poi torna da me. Ti voglio, lo sai bene. E anche tu mi vuoi.>> Cercò di baciare Afrodite ma lei si ritrasse.
Era imbronciata; il viso umido e rosso di pianto, la bocca stretta in una smorfia offesa al limite del comico.
Ares sorrise. Sapeva che la sua stizza sarebbe durata poco. <<Amami, mia dea. Solo tu e io siamo perfetti insieme. Ricorda queste parole.>> Voglioso riprovò a baciare le labbra di Afrodite e lei lo rifiutò ancora ma con meno fermezza, e morbida gli offrì il collo. Ares lo baciò, stordito dal suo dolce profumo.
<<Ti amo, mio spietato guerriero...>>, sussurrò lei cedendo al dio. Gli occhi chiusi, i capelli color rame che scompigliati le cascavano davanti al viso, le braccia strette alle spalle del dio. <<Ti amo e ti desidero. Il tuo abbraccio è per me calore e brividi e piacere. L’amore che provo per te è profondo quanto l’oceano e so che anche tu mi ami, lo so, lo sento. Ma ora no, non mi cercare. Il tuo gesto mi ha offesa, nauseata, e ti prego, non mi tentare. Lasciami andare via, ora non voglio vederti!>>
Afrodite cercò di liberarsi ma Ares, serio e scuro in volto, la tenne stretta. <<Non l’odio ma la gelosia è l’altra faccia dell’amore. Gelosia, rossa come il sangue di questo tuo misero amante mortale. Non essere sciocca, dea. Sai bene che questo non è stato un affronto a te. Io ti voglio bella e sorridente e tenera. E più di tutto, ti voglio MIA.>>
Di nuovo Ares tentò di baciare Afrodite e incapace di resistergli lei lo accettò.
Si baciarono con passione sotto le fronde ombrose, stretti l’uno all’altra fino a quando la dea si ritrasse. Non disse nulla: guardò il dio negli occhi e in quello sguardo duro trovò amore e gelosia. Il solito miscuglio di affetto, desiderio e violenza a cui non sapeva resistere.
Si voltò; le braccia conserte, la chioma che le dondolava sulla schiena. Senza degnare di un’ultima occhiata il corpo massacrato di Adone che ora giaceva sugli anemoni, si allontanò e Ares la seguì senza dire una parola: sapeva che la sua rabbia sarebbe durata poco e che forse, già quella stessa sera, lo avrebbe perdonato e invitato nel suo letto. E così fu.

11 commenti:

  1. Splendido, semplicemente splendido

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  2. Bellissimo, come tutti gli altri, intriso di umanità. Io non posso comprendere Afrodite, sono troppo orgogliosa ma so che esistono donne così, che possono amare uomini brutali e che riescono a non sentirsi offese dalla loro presenza e il tuo racconto mi aiuta ad accettarle senza giudicarle. Grazie, per aver mostrato così bene ciò che per è così incomprensibile.

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