giovedì 8 novembre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE III (Ares, Eris, Ade)




Dal principio, Ares ed Eris pensarono che sarebbero riusciti a passare senza alcuna difficoltà. Il ruscello di defunti nel quale erano immersi scorreva senza intoppi, e malgrado Cerbero continuasse a fissarli dritto nelle pupille – dimostrando di averli notati e di aver riconosciuto la loro estraneità all’ambiente – qualcosa nel suo atteggiamento lasciava intendere che non avrebbe attaccato. Il guardiano sembrava essere in fase di studio. Ma non appena i due si fecero troppo vicini, un ringhio gutturale strisciò fuori dalle sue tre gole; un suono basso, roco, che non prometteva nulla di buono e che subito s’accompagnò a uno strano sibilo. Era la coda dell’animale a soffiare in quel modo: una coda serpentina e squamosa, che con la sua testa di vipera all’estremità mandava inequivocabili messaggi ai due invasori. E ora il pelo di Cerbero era ritto; il corpo teso; le labbra arricciate, a mostrare le zanne. Il guardiano li stava avvertendo.
«Ci attaccherà…» Ares tentò di deglutire, senza riuscirci. «Non ha capito che siamo Dei.»
«Sì che l’ha capito!» Eris si passò frettolosamente la mano sulla veste, con una smorfia di disgusto. Il gemello gliela aveva inumidita col suo sudore. «Ma se anche ci attacca, chi se ne frega! Tu puoi combatterlo!»
«Ma io non voglio, Eris!»
«Lo sapevo! Hai paura!»
«Non ho armi! E poi non voglio fargli male!»
«Dovrai! Perché se ci attacca, io volerò via e lui ti sbranerà!»
«Forse dovremmo cercare un’altra strada…»
«Non c’è un’altra strada!»
Erano ormai giunti in prossimità della roccia, quando Cerbero emise un fragoroso ringhio e balzò giù, nel fiume di anime, travolgendone una manciata. Gli altri defunti si scostarono appena, intorpiditi come sonnambuli, mentre i poveretti che erano stati schiacciati sfuggivano con ipnotica fumosità alle zampe della bestia, ricomponendosi al suo fianco come se nulla fosse accaduto. Ares ed Eris sbiancarono. Ora il guardiano era di fronte a loro e sbarrava loro la strada. Le sue tre teste – più simili nella forma alle teste di un grosso molossoide, che a quelle di un lupo – sembravano non avere le orecchie, tanto queste erano tirate indietro, e si muovevano indipendentemente l’una dall’altra. La coda-serpente scattava e sibilava, coi denti ben in vista. Non vi era neppure da chiedersi se Cerbero fosse infuriato. I suoi occhi erano due pepite scarlatte; le zanne scoperte fino alle gengive; i colli tesi in avanti, nei quali vibrava sempre più forte quel ringhio minaccioso.
Eris si nascose dietro il fratello e lo spinse piano in avanti. «Non possiamo fermarci adesso!»
«Ma…» Ares avanzò suo malgrado di un passo e, in tutta risposta, Cerbero scoppiò in un abbaio furibondo. Il suo alito schiaffeggiò i due come una raffica di vento caldo e sgradevole, che nessuno mai avrebbe voluto respirare. Il Dio strizzò gli occhi, colpito dall’umida zaffata che gli riempì la faccia di goccioline, e non sapendo più che fare allungò la mano verso il cane.
Cerbero latrò ancora, si leccò i nasi facendo schioccare le lingue e scrutò con circospezione la mano del bimbo. Infine l’annusò, chinando prima la testa di mezzo e poi le altre due.
Ares sentì le unghie di Eris conficcarsi nelle sue spalle. Era tesa come il cordino di un arco, pronta a strattonarlo all’indietro e a tentare di volare via con lui, prima che il bestione gli staccasse di netto il braccio. Perché forse avevano esagerato. Forse non c’era bisogno di rischiare così tanto, pur di esplorare il Regno dei Morti, e la Dea se ne rese conto appena ora, nel vedere le dita del fratello esposte al volere di quelle fauci gigantesche. Ma il ringhio di Cerbero si spense presto, così come il sibilo della coda-serpente, e il suono delle sue narici aspiranti – che sembravano quasi voler risucchiare la mano di Ares, tanta era l’attenzione con la quale la stavano analizzando – si sommò agli ovattati passi dei morti, che incuranti di tutto proseguivano il loro viaggio. Un suono rassicurante, di cane che sta riflettendo.
Poi, finalmente, Ares avvertì sulle nocche un colpo di lingua. Un gesto timido e incerto, quasi da cucciolo.
«Bravo!» Un enorme sorriso sollevò le guance del tracio. «Siamo Dei, vedi? Non devi ringhiarci contro! Noi siamo tuoi amici!»
Cerbero lo leccò ancora, stavolta con più convinzione, e cominciò a scodinzolare, scuotendo il serpente in aria.
«Io lo sapevo che ci avrebbe riconosciuti!» Eris si fece avanti, allungò a sua volta la mano e la scosse davanti ai nasi del mastino. «Da bravo! Lecca anche me!»
Le teste di Cerbero si sollevarono, come interdette. Lo scodinzolio s’arrestò.
«Su! Muoviti!» insistette la Dea.
Il cane rimase fermo per un po’, all’apparenza più indeciso che contrariato, ma alla fine leccò il piccolo palmo che aveva di fronte; uno sfioro appena accennato, che a malapena inumidì la manina di Eris. Poi tornò a leccare con piacere quella di Ares, riprendendo a scodinzolare.
«Sei un bravo cane…» Il Dio cominciò a grattare il mastino sotto i colli; le sue manine sprofondarono nella folta pelliccia fino ai polsi. E ora gli occhi di Cerbero erano semichiusi; le bocche aperte con le lingue che penzolavano di lato, atteggiate in una smorfia d’evidente goduria che somigliava quasi a un sorriso. «Sono sicuro che non ti grattano mai qua sotto…»
Eris colpì la spalla del fratellino con un pugno. «Smettila di spupazzarti quel cane!» tuonò. La riluttanza di Cerbero nei suoi confronti e il modo in cui questi dimostrava senza ritegno di preferire le attenzioni di Ares l’avevano offesa. «Ti comporti sempre da idiota quando vedi un cane!»
«Mi piacciono!» Ares tentò di abbracciare tutte e tre le teste, ma riuscì a malapena a cingere il collo centrale. «E poi è stato bravo! Stava per sbranarci, ma alla fine ci ha riconosciuti!»
«Non è bravo. È stupido! Come te!»
«Sei solo invidiosa perché vuole più bene a me che a te!»
Eris fece una pernacchia. «Chi se ne frega di questo pulcioso! Resta pure qua con lui se vuoi! Io però vado avanti. Voglio vedere gli Inferi!» La Dea riprese rapida la sua strada, scomparendo dietro l’enorme corpo del mastino.
«Eris! Non te ne andare!» Ares si sporse di lato, senza però staccarsi dal guardiano. Sperava di riuscire a intravedere la sorella, ma Cerbero era troppo grosso e il fiume di anime troppo denso. Perdersi di vista, in mezzo a quella calca, era questione di un attimo. Il Dio guardò un’ultima volta il cane, gli massaggiò vigorosamente il pelo in segno di saluto e se lo lasciò alle spalle, rituffandosi nella mischia. «Eris! Dove sei?» gridò già in preda al panico, un attimo prima di scorgere la luce della gemella, a pochi passi da sé. Per quanto impalpabili fossero, tutte quelle anime ammassate riuscivano ugualmente a celare alla vista i corpi solidi, come mille veli che sfarfallano uno di fronte all’altro.
«Non dovresti allontanarti così!» la rimproverò Ares, raggiungendola. «Non vedi quanto è grande qui? E se poi non ci troviamo più?»
«Peggio per te!» bofonchiò Eris, prendendolo per mano. «Io non ho paura di andare da sola!»
«Ma se eri ferma in mezzo al sentiero! Mi stavi aspettando!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero…»
I due proseguirono il loro cammino in mezzo ai defunti per un breve lasso di tempo, fin quando giunsero in una landa grigia e affollata; un luogo nebbioso e inaspettatamente ricco di dettagli dove sembrava regnare il caos più totale. Urla strazianti risuonavano in lontananza, provenienti da chissà quale lugubre anfratto; il genere di grida mozzafiato che solo la tortura riesce a strappare di bocca. Ombre cupe – alle quali si mescolarono quelle traghettate per ultime da Caronte – erravano per la nebbia fine, senza mai alzare lo sguardo. C’era chi piangeva in silenzio, chi fissava con occhi spenti il terreno, chi mormorava frasi sconnesse fra sé e sé, dondolando il capo con l’automatismo di una bestia chiusa in gabbia. Il dolore che trasudava da quel luogo era respirabile, così come il puzzo di umido, di bruma, di cose dimenticate, al quale i due traci ancora non si erano abituati. E ovunque si ergevano rocce nere, acuminate come coltelli, e alle loro pendici cipressi e pioppi soffocavano nella nebbia sfoggiando chiome che sembravano muffa, mentre piccole gocce di luce galleggiavano qua e là a mezz’aria, come lucciole intrappolate in invisibili tele di ragno. Ma era sufficiente sforzare la vista ed ecco che l’illusione svaniva e le gemme si trasformavano in lampade a olio, che in bilico tra le rocce e appese ai rami degli alberi tentavano con le loro lingue di fuoco di rischiarare l’ambiente. Ma per quanto suggestiva fosse, la loro luce tremolante non smorzava affatto la spettralità del luogo e, piuttosto, l’amplificava: perché in quelle terre infernali, dove le grida dei dannati stridevano in cielo come lame arrugginite e i morti si trascinavano avanti e indietro senza sapere dove andare, cosa fare, cosa pensare, anche la luce si era arresa alla tristezza e nei lumi danzava pallidamente, senza più la forza d’illuminare il mondo.
Il ristagno eterno, che tutto sembrava tingere di grigio, non risparmiava nulla e nessuno.   
«Chissà dov’è il palazzo dello zio Ade…» Ares fece un giro completo su se stesso. «Io vedo solo morti!»
Eris strizzò gli occhi, fin quasi a chiuderli. Le sembrava di vedere una figura differente dalle altre, là in mezzo alla nebbia: un uomo con la barba bianca, la testa calva e il corpo inequivocabilmente solido, come quello dei viventi. Reggeva tra le mani un oggetto lungo, simile a un giavellotto o un remo; uno strumento che, a causa della foschia, la Dea non riusciva a mettere a fuoco. «Chi è quello?» domandò, indicando al fratello lo sconosciuto, che chissà da quanto tempo li stava fissando entrambi, con aria sorpresa. «Lo vedi?»
Ares si schermò gli occhi con una mano, nonostante non vi fosse alcun sole a infastidirlo. «Ssssì. Non mi sembra un morto. Che sia lo zio Ade?»
«Quello?! Ma non dire sciocchezze!»
«Ma noi non sappiamo com’è fatto lo zio!»
«E poi non penso che lo zio Ade vada in giro per gli Inferi con un giavellotto in mano!»
«A me quello sembra un rastrello…»
Eris strizzò di nuovo gli occhi e si accorse che il fratello aveva ragione. «Sì, probabilmente è un giardiniere o qualcosa di simile. Di certo non è lo zio Ade.»
«Dovremmo andare a parlargli?» domandò Ares e, come se avesse udito quella domanda, l’uomo si voltò e s’incamminò rapidamente dalla parte opposta, scomparendo nella nebbia. «Oh, no! Se n’è andato!»
Eris fece spallucce. «Chi se ne frega. Dai, facciamo un giro nei dintorni! Voglio scoprire chi è che urla in questo modo!»
«Siiiiì! Andiamo a vedere!»
I due scelsero una direzione a caso e si avviarono nella nebbia. Erano luminosi e caldi come torce e, quando passavano, tutti i defunti indietreggiavano di un passo, fissandoli con occhi opachi e labbra che parevano cucite. Da quelle facce grigie – che la morte aveva reso quasi uguali l’una all’altra – non trapelava nessuna voglia, men che meno il desiderio di rivolgere la parola ai due intrusi, ma la luce, la vera luce, riusciva ancora a catturarle e a far brillare per un momento le loro iridi vuote. E mentre vagavano tra le ombre, fantasticando su cosa stesse accadendo ai poveretti che gridavano come bestie macellate, Ares ed Eris notarono altri individui simili a quello intravisto poco prima; uomini esili, vestiti di nero, che nella nebbia li osservavano a bocca aperta, incapaci di proferire parola.
«Chi sono questi tizi?» domandò Ares. «I servi dello zio?»
«Credo di sì.» Eris ne indicò uno. «Guarda, quello regge un cestino di verdura. È sicuramente un domestico.»
«Quindi anche qua sotto cresce la verdura! Che strano…»
All’improvviso i due avvertirono un forte calore sulla nuca. Si voltarono. Un uomo con la pelle rugosa, le guance incavate e un paio di occhi duri e luccicanti come il quarzo, illuminò i loro visi fin quasi ad accecarli, abbassando la lampada a olio che reggeva nella mano.
«O giovani profanatori, non avanzate d’un solo passo» disse lo sconosciuto. «Queste gelide terre non vi appartengono.»
«Sta’ zitto, vecchiaccio!» Eris s’incattivì all’istante. «Chi sei tu, per darci degli ordini?» 
«Guarda che noi siamo Dei!» aggiunse Ares. «Possiamo fare tutto quello che vogliamo!»
«Pensate ciò che più vi aggrada.» L’uomo non si scompose: era immune alla prepotenza dei due. «Tanto io non sono nessuno. Solo un umile servitore dell’Illustre. Ma è Lui ad avermi mandato da voi ed è da Lui che devo condurvi ora. Seguitemi, faccio strada. Il Suo palazzo non è lontano.»
Il servo s’incamminò nella foschia, con il lume ora ben alto davanti alla faccia, e i due gli andarono dietro senza un istante d’esitazione.