Il segugio trotterellò fuori dalla
selva, si fermò di fronte ai due cacciatori e, aperte le fauci, lasciò cadere
ai loro piedi la preda recuperata: un piccolo volatile dal piumaggio bruno, col
becco lungo e robusto, e la freccia fatale ancora conficcata nel petto. Infine,
si fermò a fissarli entrambi, con la lingua che penzolava fuori dalla bocca
come un lungo nastro di morbida carne.
«Ci avevo visto giusto! È una
beccaccia. Ben fatto!» Artemide sorrise al compagno di caccia che con un solo,
precisissimo colpo aveva appena abbattuto il volatile. «Non è facile riuscire a
individuarle e colpirle, tanto meno a quest’ora del giorno.»
«Ti ringrazio, mia Dea.» Lui le
sorrise di rimando col petto gonfio di autocompiacimento: ricevere elogi dalla
Signora della caccia non era cosa in grado di lasciare indifferenti.
«Permettimi, però, di rammentarti che io non sono un cacciatore come gli altri
e che il mio desiderio di predazione è molto più acceso di quanto tu possa mai
immaginare. Un desiderio che non può assolutamente
essere saziato da questo misero pennuto che ora giace ai tuoi candidi piedi.»
«Ahhh…
sei sempre il solito!» Artemide colpì scherzosamente il compagno alla spalla
con la punta dell’arco: un gesto che lo invitava a dare un freno alla propria
boria e a raccogliere il suo trofeo. «Su, datti una mossa, grande cacciatore!»
Lui rise e dondolò la testa.
«Brutale come un uomo, ma bella come la più desiderabile delle vergini. Non è
facile starti vicino né innamorarsi di te, o sterminatrice di cervi. Ma ti
prego, non cambiare mai, perché sei incredibile così come sei.»
Artemide inclinò il capo, confusa da
quelle parole di ambigua interpretazione, e quando il compagno s’inginocchiò e
schiaffò nel sacco della selvaggina la piccola preda lo osservò per qualche
istante, con la fronte aggrottata e gli occhi ridotti a due fessure, come se lo
stesse incontrando per la prima volta.
Si chiamava Orione ed era un
gigante. Figlio del Dio Poseidone e della principessa Euriale di Creta,
sfoggiava per natura un corpo altissimo, tutto muscoli ed energia, in cui
vibrava una forza d’animo straordinaria che gli aveva permesso di sopravvivere
a un passato burrascoso; un passato dai ricordi ancora troppo vividi in cui
Orione frugava raramente, tanto doloroso e inquietante era riportare alla
memoria la notte in cui quell’infame d’un re gli aveva fatto strappare gli
occhi dalle orbite, precipitandolo nell’oblio della cecità. E quanto aveva
sofferto allora! Quanto a lungo aveva camminato a piedi scalzi, inciampando e
inciampando ancora su quegli interminabili viali ciottolosi che per un cieco
sono sempre troppo duri! Non si era mai rassegnato all’oscurità e quando la Dea
Eos, intenerita e innamorata, gli aveva restituito la vista sfiorandogli le
orbite vuote con la tenue luce rosa dell’aurora, Orione aveva pianto per ore e
ore, commosso dalla bellezza dei colori e delle forme, fin quando la sete di
vendetta non gli aveva fatto recuperare il controllo. Allora era partito,
deciso ad ammazzare il re infame che lo aveva accecato, e portando con sé
null’altro che arco, frecce e un lungo coltello affilato aveva attraversato
villaggi, campi coltivati e foreste impervie, seguito a ruota dal suo
inseparabile segugio col quale aveva dato la caccia a ogni genere di bestia,
riscoprendo il proprio animo cacciatore e una convinzione personale troppo a
lungo dimenticata: nessun animale
nato sotto la volta celeste di Urano, neppure il più feroce e terrificante,
poteva sperare di salvarsi da lui.
Era un predatore nato, un abile e
freddo sterminatore di selvaggina, ed era così, nelle vesti di cacciatore
perfetto e selvaggio, che Artemide lo aveva incrociato tra gli alti alberi,
mentre accucciato nel verde folgorava con una delle sue frecce un ignaro
capriolo. E, colpita dal suo innegabile talento, la Dea non ci aveva messo
molto a convincerlo a lasciar perdere quei folli propositi di vendetta per
godersi, invece, qualche battuta di caccia in sua compagnia.
«Non ti tratterrò a lungo. Desidero
solo divertirmi un po’ con qualcuno che sia degno d’essere chiamato cacciatore. E tu mi sembri il tipo
giusto.»
Poche parole e, prima di rendersene
conto, Orione stava correndo tra le querce insieme alla pallida Dea, alla
ricerca di lepri e cinghiali da abbattere: l’inizio di un’inaspettata amicizia
che, appena ora, stava mettendo in risalto i caratteri dei due, permettendo
loro di andare oltre la superficie e conoscersi meglio. E Artemide, che era
molto più sveglia e sensibile del gigante, aveva già cominciato a intuire quali
fossero i suoi difetti e quali i suoi pregi, anche se certi punti della sua
personalità ancora le sfuggivano, come le sfuggiva il significato di quelle
ambigue parole appena udite che un po’ le sapevano di offesa e un po’ di
lusinga. Ma non le analizzò più di tanto. Due, forse tre secondi; il tempo di
vedere Orione rialzarsi e caricarsi in spalla il sacco colmo di selvaggina, e
di nuovo si sentì serena. Il gigante era un tipo semplice e schietto, si
vedeva. Celare chissà quale verità dietro giri di parole non era proprio nel
suo stile e la Dea apprezzava la sua compagnia anche per questo.
«Non stai dimenticando qualcosa?»
gli domandò con aria di rimprovero, notando che era già pronto a riprendere la
battuta di caccia.
Orione aggrottò entrambe le
sopracciglia, senza capire, quindi Artemide sgranò gli occhi e gli indicò il
segugio con un impercettibile cenno del capo, come se non volesse farsi notare
dall’animale. Allora il gigante afferrò. «Bravo, Sirio. Bravo.» Strofinò un
orecchio al cane, che per reazione scodinzolò facendo frusciare i ciuffi d’erba
incolta. Poi ritirò la mano e lanciò ad Artemide un’occhiata paziente, quasi
paterna; uno sguardo che sembrava sussurrare: l’ho fatto per te, ma in realtà credo sia un’inutile idiozia.
«Sirio è un bravo segugio» disse
lei, sorridendo. «E, come me, ha fin troppa pazienza con te.»
Orione rise e scosse la testa, senza
rispondere. Non voleva inciampare di nuovo in quella stupida conversazione.
Ricordava troppo bene com’era finita l’ultima volta.
(Le
lodi rafforzano il legame e stimolano il cane a migliorare)
(Il
cane svolge solo il suo dovere e non deve ricevere smancerie di alcun genere.
Un cacciatore lo sa bene… ma una cacciatrice forse no.)
Com’era stato imprudente e stupido
quel giorno! Aveva capito di aver esagerato nello stesso momento in cui la sua
bocca si era chiusa a formare l’ultima sillaba di quella frase arrogante, ma
ormai era fatta. Il viso sorridente di Artemide si era oscurato; l’aria calda
del pomeriggio si era improvvisamente gelata e lui aveva sentito la gola
seccarsi. Poi, il suo cervello si era come paralizzato e un fiume di scuse
maldestre e alquanto imbarazzate aveva cominciato a traboccargli dalla bocca,
come mosso da vita propria. Non ricordava minimamente cosa aveva detto e non
gli importava. In qualche modo era uscito indenne da quella disastrosa
situazione e ora non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
«Che ne dici di andarcene a sud?»
domandò Artemide, indicando alle proprie spalle. «Poco prima della spiaggia c’è
un boschetto dove dimorano numerose famiglie di cervi.»
Orione si voltò dalla parte opposta,
dove la foresta si faceva più fitta. «Per i cervi c’è tempo. Ora voglio
prendere qualcosa di grosso.»
«Un cinghiale?»
«No.» Il cacciatore rivolse alla Dea
un sorriso audace. «Un orso.»
«Un orso?» Artemide ridacchiò.
«Incrociarne uno a quest’ora del giorno è ancor più difficile che vedere e
abbattere una beccaccia. Ti conviene aspettare il crepuscolo e nel frattempo
lavorare sul tuo passo.»
«Il mio passo? Che intendi dire?»
domandò Orione, ora serissimo.
«La tua mira è ottima, ma il tuo
passo è un po’ troppo pesante. Dovresti imparare a muoverti con più morbidezza
o l’orso fuggirà molto prima che le tue frecce riescano a scalfirlo.»
«Oh, mia Dea!» Orione scoppiò a
ridere. «Questa è proprio buona!»
«Non fare lo sbruffone!» La
cacciatrice sorrise e colpì di nuovo il compagno alla spalla con la punta
dell’arco, stavolta più forte. «Ricorda che sono la Dea della caccia, io! Dovresti ascoltare i miei consigli
invece di prenderli alla leggera!»
Orione s’inginocchiò, le mandò un
bacio con la mano in segno di riverenza e si fermò qualche istante a guardarla
negli occhi. Poi si rialzò e, con un tono che sapeva tanto di promessa, le
disse: «Prima del calar del sole io prenderò un orso. Vedrai.»
«Vedremo» rispose Artemide,
divertita, e scortati dal fido segugio i due s’incamminarono nel folto della
foresta, mentre dal cielo azzurro una regale figura continuava a fissarli,
senza perderli d’occhio un solo istante.