Dal principio, Ares ed Eris pensarono che sarebbero riusciti a passare
senza alcuna difficoltà. Il ruscello di defunti nel quale erano immersi
scorreva senza intoppi, e malgrado Cerbero continuasse a fissarli dritto nelle
pupille – dimostrando di averli notati e di aver riconosciuto la loro
estraneità all’ambiente – qualcosa nel suo atteggiamento lasciava intendere che
non avrebbe attaccato. Il guardiano sembrava essere in fase di studio. Ma non
appena i due si fecero troppo vicini,
un ringhio gutturale strisciò fuori dalle sue tre gole; un suono basso, roco,
che non prometteva nulla di buono e che subito s’accompagnò a uno strano
sibilo. Era la coda dell’animale a soffiare in quel modo: una coda serpentina e
squamosa, che con la sua testa di vipera all’estremità mandava inequivocabili
messaggi ai due invasori. E ora il pelo di Cerbero era ritto; il corpo teso; le
labbra arricciate, a mostrare le zanne. Il guardiano li stava avvertendo.
«Ci attaccherà…» Ares tentò di deglutire, senza riuscirci. «Non ha
capito che siamo Dei.»
«Sì che l’ha capito!» Eris si passò frettolosamente la mano sulla veste,
con una smorfia di disgusto. Il gemello gliela aveva inumidita col suo sudore.
«Ma se anche ci attacca, chi se ne frega! Tu puoi combatterlo!»
«Ma io non voglio, Eris!»
«Lo sapevo! Hai paura!»
«Non ho armi! E poi non voglio fargli male!»
«Dovrai! Perché se ci attacca, io volerò via e lui ti sbranerà!»
«Forse dovremmo cercare un’altra strada…»
«Non c’è un’altra strada!»
Erano ormai giunti in prossimità della roccia, quando Cerbero emise un
fragoroso ringhio e balzò giù, nel fiume di anime, travolgendone una manciata.
Gli altri defunti si scostarono appena, intorpiditi come sonnambuli, mentre i
poveretti che erano stati schiacciati sfuggivano con ipnotica fumosità alle
zampe della bestia, ricomponendosi al suo fianco come se nulla fosse accaduto.
Ares ed Eris sbiancarono. Ora il guardiano era di fronte a loro e sbarrava loro
la strada. Le sue tre teste – più simili nella forma alle teste di un grosso
molossoide, che a quelle di un lupo – sembravano non avere le orecchie, tanto
queste erano tirate indietro, e si muovevano indipendentemente l’una
dall’altra. La coda-serpente scattava e sibilava, coi denti ben in vista. Non
vi era neppure da chiedersi se Cerbero fosse infuriato. I suoi occhi erano due
pepite scarlatte; le zanne scoperte fino alle gengive; i colli tesi in avanti,
nei quali vibrava sempre più forte quel ringhio minaccioso.
Eris si nascose dietro il fratello e lo spinse piano in avanti. «Non
possiamo fermarci adesso!»
«Ma…» Ares avanzò suo malgrado di un passo e, in tutta risposta, Cerbero
scoppiò in un abbaio furibondo. Il suo alito schiaffeggiò i due come una
raffica di vento caldo e sgradevole, che nessuno mai avrebbe voluto respirare.
Il Dio strizzò gli occhi, colpito dall’umida zaffata che gli riempì la faccia
di goccioline, e non sapendo più che fare allungò la mano verso il cane.
Cerbero latrò ancora, si leccò i nasi facendo schioccare le lingue e
scrutò con circospezione la mano del bimbo. Infine l’annusò, chinando prima la
testa di mezzo e poi le altre due.
Ares sentì le unghie di Eris conficcarsi nelle sue spalle. Era tesa come
il cordino di un arco, pronta a strattonarlo all’indietro e a tentare di volare
via con lui, prima che il bestione gli staccasse di netto il braccio. Perché
forse avevano esagerato. Forse non c’era bisogno di rischiare così tanto, pur
di esplorare il Regno dei Morti, e la Dea se ne rese conto appena ora, nel
vedere le dita del fratello esposte al volere di quelle fauci gigantesche. Ma
il ringhio di Cerbero si spense presto, così come il sibilo della
coda-serpente, e il suono delle sue narici aspiranti – che sembravano quasi
voler risucchiare la mano di Ares, tanta era l’attenzione con la quale la
stavano analizzando – si sommò agli ovattati passi dei morti, che incuranti di
tutto proseguivano il loro viaggio. Un suono rassicurante, di cane che sta
riflettendo.
Poi, finalmente, Ares avvertì sulle nocche un colpo di lingua. Un gesto
timido e incerto, quasi da cucciolo.
«Bravo!» Un enorme sorriso sollevò le guance del tracio. «Siamo Dei,
vedi? Non devi ringhiarci contro! Noi siamo tuoi amici!»
Cerbero lo leccò ancora, stavolta con più convinzione, e cominciò a
scodinzolare, scuotendo il serpente in aria.
«Io lo sapevo che ci avrebbe riconosciuti!» Eris si fece avanti, allungò
a sua volta la mano e la scosse davanti ai nasi del mastino. «Da bravo! Lecca
anche me!»
Le teste di Cerbero si sollevarono, come interdette. Lo scodinzolio
s’arrestò.
«Su! Muoviti!» insistette la Dea.
Il cane rimase fermo per un po’, all’apparenza più indeciso che
contrariato, ma alla fine leccò il piccolo palmo che aveva di fronte; uno sfioro
appena accennato, che a malapena inumidì la manina di Eris. Poi tornò a leccare
con piacere quella di Ares, riprendendo a scodinzolare.
«Sei un bravo cane…» Il Dio cominciò a grattare il mastino sotto i colli;
le sue manine sprofondarono nella folta pelliccia fino ai polsi. E ora gli
occhi di Cerbero erano semichiusi; le bocche aperte con le lingue che
penzolavano di lato, atteggiate in una smorfia d’evidente goduria che
somigliava quasi a un sorriso. «Sono sicuro che non ti grattano mai qua sotto…»
Eris colpì la spalla del fratellino con un pugno. «Smettila di
spupazzarti quel cane!» tuonò. La riluttanza di Cerbero nei suoi confronti e il
modo in cui questi dimostrava senza ritegno di preferire le attenzioni di Ares
l’avevano offesa. «Ti comporti sempre da idiota quando vedi un cane!»
«Mi piacciono!» Ares tentò di abbracciare tutte e tre le teste, ma
riuscì a malapena a cingere il collo centrale. «E poi è stato bravo! Stava per
sbranarci, ma alla fine ci ha riconosciuti!»
«Non è bravo. È stupido! Come te!»
«Sei solo invidiosa perché vuole più bene a me che a te!»
Eris fece una pernacchia. «Chi se ne frega di questo pulcioso! Resta
pure qua con lui se vuoi! Io però vado avanti. Voglio vedere gli Inferi!» La
Dea riprese rapida la sua strada, scomparendo dietro l’enorme corpo del
mastino.
«Eris! Non te ne andare!» Ares si sporse di lato, senza però staccarsi
dal guardiano. Sperava di riuscire a intravedere la sorella, ma Cerbero era
troppo grosso e il fiume di anime troppo denso. Perdersi di vista, in mezzo a
quella calca, era questione di un attimo. Il Dio guardò un’ultima volta il
cane, gli massaggiò vigorosamente il pelo in segno di saluto e se lo lasciò
alle spalle, rituffandosi nella mischia. «Eris! Dove sei?» gridò già in preda
al panico, un attimo prima di scorgere la luce della gemella, a pochi passi da sé.
Per quanto impalpabili fossero, tutte quelle anime ammassate riuscivano
ugualmente a celare alla vista i corpi solidi, come mille veli che sfarfallano
uno di fronte all’altro.
«Non dovresti allontanarti così!» la rimproverò Ares, raggiungendola.
«Non vedi quanto è grande qui? E se poi non ci troviamo più?»
«Peggio per te!» bofonchiò Eris, prendendolo per mano. «Io non ho paura
di andare da sola!»
«Ma se eri ferma in mezzo al sentiero! Mi stavi aspettando!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero…»
I due proseguirono il loro cammino in mezzo ai defunti per un breve
lasso di tempo, fin quando giunsero in una landa grigia e affollata; un luogo
nebbioso e inaspettatamente ricco di dettagli dove sembrava regnare il caos più
totale. Urla strazianti risuonavano in lontananza, provenienti da chissà quale
lugubre anfratto; il genere di grida mozzafiato che solo la tortura riesce a
strappare di bocca. Ombre cupe – alle quali si mescolarono quelle traghettate
per ultime da Caronte – erravano per la nebbia fine, senza mai alzare lo
sguardo. C’era chi piangeva in silenzio, chi fissava con occhi spenti il
terreno, chi mormorava frasi sconnesse fra sé e sé, dondolando il capo con
l’automatismo di una bestia chiusa in gabbia. Il dolore che trasudava da quel
luogo era respirabile, così come il puzzo di umido, di bruma, di cose
dimenticate, al quale i due traci ancora non si erano abituati. E ovunque si
ergevano rocce nere, acuminate come coltelli, e alle loro pendici cipressi e pioppi
soffocavano nella nebbia sfoggiando chiome che sembravano muffa, mentre piccole
gocce di luce galleggiavano qua e là a mezz’aria, come lucciole intrappolate in
invisibili tele di ragno. Ma era sufficiente sforzare la vista ed ecco che
l’illusione svaniva e le gemme si trasformavano in lampade a olio, che in
bilico tra le rocce e appese ai rami degli alberi tentavano con le loro lingue
di fuoco di rischiarare l’ambiente. Ma per quanto suggestiva fosse, la loro
luce tremolante non smorzava affatto la spettralità del luogo e, piuttosto, l’amplificava:
perché in quelle terre infernali, dove le grida dei dannati stridevano in cielo
come lame arrugginite e i morti si trascinavano avanti e indietro senza sapere
dove andare, cosa fare, cosa pensare, anche la luce si era arresa alla
tristezza e nei lumi danzava pallidamente, senza più la forza d’illuminare il
mondo.
Il ristagno eterno, che tutto sembrava tingere di grigio, non
risparmiava nulla e nessuno.
«Chissà dov’è il palazzo dello zio Ade…» Ares fece un giro completo su
se stesso. «Io vedo solo morti!»
Eris strizzò gli occhi, fin quasi a chiuderli. Le sembrava di vedere una
figura differente dalle altre, là in mezzo alla nebbia: un uomo con la barba
bianca, la testa calva e il corpo inequivocabilmente solido, come quello dei viventi. Reggeva tra le mani un oggetto
lungo, simile a un giavellotto o un remo; uno strumento che, a causa della foschia,
la Dea non riusciva a mettere a fuoco. «Chi è quello?» domandò, indicando al
fratello lo sconosciuto, che chissà da quanto tempo li stava fissando entrambi,
con aria sorpresa. «Lo vedi?»
Ares si schermò gli occhi con una mano, nonostante non vi fosse alcun
sole a infastidirlo. «Ssssì. Non mi sembra un morto. Che sia lo zio Ade?»
«Quello?! Ma non dire sciocchezze!»
«Ma noi non sappiamo com’è fatto lo zio!»
«E poi non penso che lo zio Ade vada in giro per gli Inferi con un
giavellotto in mano!»
«A me quello sembra un rastrello…»
Eris strizzò di nuovo gli occhi e si accorse che il fratello aveva
ragione. «Sì, probabilmente è un giardiniere o qualcosa di simile. Di certo non
è lo zio Ade.»
«Dovremmo andare a parlargli?» domandò Ares e, come se avesse udito
quella domanda, l’uomo si voltò e s’incamminò rapidamente dalla parte opposta,
scomparendo nella nebbia. «Oh, no! Se n’è andato!»
Eris fece spallucce. «Chi se ne frega. Dai, facciamo un giro nei
dintorni! Voglio scoprire chi è che urla in questo modo!»
«Siiiiì! Andiamo a vedere!»
I due scelsero una direzione a caso e si avviarono nella nebbia. Erano luminosi
e caldi come torce e, quando passavano, tutti i defunti indietreggiavano di un
passo, fissandoli con occhi opachi e labbra che parevano cucite. Da quelle
facce grigie – che la morte aveva reso quasi uguali l’una all’altra – non
trapelava nessuna voglia, men che meno il desiderio di rivolgere la parola ai
due intrusi, ma la luce, la vera luce,
riusciva ancora a catturarle e a far brillare per un momento le loro iridi
vuote. E mentre vagavano tra le ombre, fantasticando su cosa stesse accadendo
ai poveretti che gridavano come bestie macellate, Ares ed Eris notarono altri individui
simili a quello intravisto poco prima; uomini esili, vestiti di nero, che nella
nebbia li osservavano a bocca aperta, incapaci di proferire parola.
«Chi sono questi tizi?» domandò Ares. «I servi dello zio?»
«Credo di sì.» Eris ne indicò uno. «Guarda, quello regge un cestino di
verdura. È
sicuramente un domestico.»
«Quindi anche qua sotto cresce la verdura! Che strano…»
All’improvviso i due avvertirono un forte calore sulla nuca. Si
voltarono. Un uomo con la pelle rugosa, le guance incavate e un paio di occhi
duri e luccicanti come il quarzo, illuminò i loro visi fin quasi ad accecarli, abbassando
la lampada a olio che reggeva nella mano.
«O giovani profanatori, non avanzate d’un solo passo» disse lo
sconosciuto. «Queste gelide terre non vi appartengono.»
«Sta’ zitto, vecchiaccio!» Eris s’incattivì all’istante. «Chi sei tu,
per darci degli ordini?»
«Guarda che noi siamo Dei!» aggiunse Ares. «Possiamo fare tutto quello
che vogliamo!»
«Pensate ciò che più vi aggrada.» L’uomo non si scompose: era immune
alla prepotenza dei due. «Tanto io non sono nessuno. Solo un umile servitore
dell’Illustre. Ma è Lui ad avermi mandato da voi ed è da Lui che devo condurvi
ora. Seguitemi, faccio strada. Il Suo palazzo non è lontano.»
Il servo s’incamminò nella foschia, con il lume ora ben alto davanti
alla faccia, e i due gli andarono dietro senza un istante d’esitazione.