Per il dio del
sole il primo amore fu violento e amaro quanto il veleno, e
quell’amarezza precipitò dei e mortali nell’oscurità. Non vi fu
luce per giorni, la notte prese il controllo del tempo. Apollo
trascurò il cielo, dimenticò la lira e i propri doveri perché
nulla oramai era più importante di Dafne, la bella ninfa che gli
aveva rubato il cuore. Persino la sorella Artemide, dea della caccia
e della luna, che dall'alba dei tempi egli inseguiva e corteggiava e
che aveva sempre considerato la fanciulla più desiderabile tra
tutte, l'unica capace di farlo tremare con un solo sguardo, era
scomparsa dai suoi pensieri; svanita, come un pensiero importante
smarrito in un attimo di disattenzione. E da quel caos interiore, da
quella nebbia mentale che continuava a presentargli il viso
dell'amata Dafne, il dio del sole non poteva e non voleva fuggire.
Era tutta opera di
Eros, dio della passione amorosa.
Apollo l’aveva
ingenuamente offeso e sfidato, sminuendo la potenza del suo arco e di
quelle frecce all’apparenza insignificanti, e adesso, punito per la
sua presunzione, avrebbe potuto gridare, strapparsi i capelli,
graffiarsi il petto e impazzire d’amore per quell’umile ninfa e
niente e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Le emozioni fluivano dal
suo cuore come le lacrime che ogni giorno scendevano a rigargli le
guance e quel pianto era doloroso, bruciante, folle. Piangeva quando
non poteva vedere Dafne, quando doveva cercarla e aspettare, e la
passione che gli ardeva dentro era così intensa da togliergli il
respiro.
Vi era stato un
altro che come lui aveva lottato per conquistare il cuore di Dafne,
facendosi a tutti gli effetti suo rivale in amore: Leucippo, un
principe mortale.
Per stare vicino a
Dafne, che vergine e diffidente allontanava da sé ogni uomo, il
giovane si era travestito da donna guadagnando così la fiducia della
ninfa e delle sue compagne, sacerdotesse di Gea, dea della terra
nonché madre della fanciulla. E Apollo, per amore di quella vendetta
che sapeva di dover gustare fredda al fine di trarre il massimo della
soddisfazione, aveva ignorato a fatica il richiamo della gelosia,
quella feroce e accecante gelosia che attraverso la voce della dea
Eris, signora della discordia e dell'astio, gli aveva sussurrato
all'orecchio cercando di accendere il suo desiderio di sangue.
A PEZZI! Fallo
a pezzi! Nessuno piangerà mai questo omuncolo senza gloria! Scocca
cento frecce su quella testa vuota e squarciala come una noce!
Ma
Apollo aveva scelto di non sporcarsi le mani bensì di compiere la
propria vendetta con quella squisita eleganza che da sempre lo
caratterizzava e della quale era molto orgoglioso. Allora si era
insinuato subdolamente nella mente delle fanciulle come una
cattiva idea e aveva suggerito loro di officiare i riti sacri nude,
per essere più pure al cospetto di Gea. E quando Leucippo era stato
smarcherato il dio aveva riso di gusto, e quanto era stato bello
ridere dopo tanto tempo! C'erano state grida, suppliche, lacrime: il
giovane si era prostrato a terra disperato ma le sacerdotesse di Gea
non avevano perdonato quell’infamia, quel disgustoso tentativo di
insidiare Dafne con l'inganno, e decise a lavare via l'onta lo
avevano ucciso. Nessuna pietà per i traditori.
E ora che Leucippo
era morto, fra Apollo e la sua graziosa ninfa non vi erano più
ostacoli. Ora sarebbe stato tutto più facile, il vero amore avrebbe
trionfato, e come rinvigorito da quella consapevolezza il sole
splendeva di nuovo, più meraviglioso che mai. Il dio era raggiante.
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Quella mattina
Dafne era andata al bosco e Apollo lo sapeva: la stava cercando. Si
sarebbe dichiarato a lei e le avrebbe mostrato tutta la sua luce, il
suo amore, la sua devozione. Ritto e sicuro di sé, non era scosso da
moti di timidezza né da quelle sciocche paranoie tipiche dei mortali
innamorati. Non temeva un rifiuto: era un dio, il più bello
dell’Olimpo e per questo Dafne l’avrebbe amato. Apollo ne era
certo.
Ma egli non sapeva
che Eros aveva trafitto il cuore della ninfa con una freccia di
piombo: una freccia spuntata, differente da quelle d’oro
dell’amore, che avrebbe portato la fanciulla a reagire con orrore e
repulsione alla passione del dio. Era già tutto scritto, tutto
deciso, ma i due ancora non lo sapevano.
Eccola!
Eccola!
Apollo sentì un
piacevole tuffo al cuore. Dafne era là, accucciata accanto a un
cespuglio di rovi. Stava raccogliendo delle more; la veste turchese,
i capelli raccolti con cura sopra la nuca, i piedi nudi e perfetti,
da dea…
Apollo, voglioso di
stringerla fra le braccia e incapace di resistere ancora, le fu
davanti.
«Sei tu» disse porgendole morbidamente la mano. «Dolce figlia di Peneo e della Terra. Dafne. Mia musa e unico amore.»
«Sei tu» disse porgendole morbidamente la mano. «Dolce figlia di Peneo e della Terra. Dafne. Mia musa e unico amore.»
La ninfa, sorpresa,
sollevò gli occhi color nocciola e incontrò quelli verdi del dio.
Subito scattò in piedi. Le more le caddero dalle mani, il corpo
intero si irrigidì. «Ti prego, vai via!» esclamò facendo un passo
indietro.
Quelle parole
colpirono Apollo in pieno viso come uno schiaffo. Arrossì
violentemente, ritirò la mano: non era preparato a ricevere un
rifiuto. Abbozzò un sorriso incerto che in un attimo si fece
trionfante. Decise di offrire subito il meglio di sé. «La tua
ingenuità parla per te, ma lo comprendo. Sono il dio Apollo,
fanciulla. È mio il sole che ti accarezza le gote al mattino, e mia
è la luce che ti accompagna quando ti incammini al tempio a pregare.
Il mio nome ti è noto e io ora sono qua, dinnanzi a te. Sei bella,
Dafne. Libera come la brezza della sera ed elegante quanto Afrodite.
Da troppo tempo questo dio piange per te. Ti prego, rendilo degno del
tuo amore. Non rifiutare.» Apollo tese di nuovo la mano alla ninfa
più splendido che mai: alto, biondo, sorridente. Nessuna mortale
sarebbe stata così folle da rifiutarlo ed egli lo sapeva bene.
Ma Dafne era immune
al suo fascino e ne sembrava addirittura terrorizzata. Scosse la
testa in segno di rifiuto e rapida si voltò, decisa ad andarsene.
Il cuore innamorato di Apollo si infiammò di rabbia e dolore. «NO!» esclamò il dio afferrando con forza la ninfa per il polso. «Come puoi farmi questo?»
Il cuore innamorato di Apollo si infiammò di rabbia e dolore. «NO!» esclamò il dio afferrando con forza la ninfa per il polso. «Come puoi farmi questo?»
«Lasciami stare!»
gridò Dafne cercando di fuggire. Era spaventata ma anche furiosa.
«Non voglio!»
«Mio amore, ti
prego, ascoltami! Non voglio farti del male! Che fossi maledetto per
l’eternità se osassi fare una cosa simile! Ti prego, non
rifiutarmi!»
Agitata come una
lepre nel sacco, Dafne si aggrappò alla mano del dio nel tentativo
di staccarla da sé. Non sopportava l’idea di farsi toccare da lui
e di averlo vicino.
Disperato, Apollo
si inginocchiò senza però mollare la ninfa. «Ti prego,
Dafne! Amami! Senza di te la vita è vana! Guardalo! Guardalo questo
povero dio che si inginocchia per te! Come puoi rifiutarlo? Con che
cuore?»
Svelta Dafne si
abbassò, raccolse della terra con la mano libera e la lanciò in
faccia al dio cogliendolo di sorpresa.
Apollo si portò le
mani al volto. «NO!» gridò sconvolto. «P-perché...»
La ninfa,
approfittando di quegli attimi di distrazione del dio, si alzò e
scappò via, fra le querce e i pioppi del bosco, veloce come una
preda a cui il destino aveva offerto un'ultima possibilità di
salvezza.
Col dorso delle
mani Apollo si pulì la terra dagli occhi, che bruciavano e
lacrimavano più per il rifiuto che per la polvere, e traballante si
rialzò. «Dafne!» urlò con quanta voce aveva in corpo e subito si
mise a correrle dietro. «Mia Dafne, non temermi! La mia devozione
per te non ha limiti, mai ti farei del male! Io ti amo! Non fuggire
da me! Amami, ti supplico, e saremo felici insieme! DAFNE!»
Pur udendo le grida
di dolore del dio la ninfa non si fermò e si sforzò di correre più
veloce, ma era lenta, impacciata. L'intricato sottobosco ostacolava
la sua corsa in ogni modo: i rami le graffiavano le caviglie, il
muschio umido la faceva scivolare. All’improvviso cadde e una
radice sporgente e ruvida le ferì la guancia. Si toccò e la vista
del sangue la fece scoppiare in lacrime. Sudata, sfinita e con la
bella tunica ora strappata e nera di fango, Dafne si sentì perduta
ma represse con forza quel moto di rassegnazione e riprese a correre.
Il pianto e l'angoscia le facevano tremare le gambe, i singulti le
mozzavano il fiato.
E anche Apollo,
poco più indietro, piangeva, certo che se non avesse avuto l’amore
della bella ninfa sarebbe stato solo e senza gioia fino alla fine dei
tempi, ed era pazzo, pazzo d'ira nei confronti di Eros. Se questa
follia, questa mescolanza di grida e lacrime era realmente l’amore
a cui tutti ambivano, la passione nella quale tutti sognavano di
perdersi, allora sarebbe stato meglio starne alla larga e temerla
come la peggiore delle malattie: Apollo ne era convinto più che mai.
«Dafne, ti prego!
Dove sei?» La voce del dio si faceva sempre più forte. «Dafne!»
La ninfa, senza più
fiato, strisciò dietro al tronco di una quercia. Si asciugò le
lacrime con entrambe le mani, la terra le sporcò il viso. Ansimava
come un capriolo allo stremo delle forze, costretto a scegliere tra i
lupi e l’abisso, e angosciata si chiese se il dio l’avrebbe mai
lasciata andare e se sarebbe tornata ad essere una spensierata ninfa
che raccoglie le more.
Non voglio, ti
prego, lasciami! Vattene via!
«TI AMO, mia
ninfa!» gridò Apollo agli alberi e al cielo con tutta la voce e la
disperazione che aveva in corpo, sapendo che la fanciulla avrebbe
sentito. «Non posso stare senza te, accetta il mio amore! AMAMI!
Amami o fuggi tutta la vita perché io ti seguirò, da Creta a Epiro,
da Rodi a Salonicco, non ci sarà posto dove non potrò seguirti! Oh,
deliziosa ninfa... se solo potessi capire quanto crudele è questa
bestia che mi divora! È fuoco e ghiaccio e fame... fame nera, di te!
È AMORE! Amami, DAFNE!» Apollo si portò una mano al cuore che gli
martellava nel petto. Gli occhi lucidi di pianto erano tristi e
vuoti. Sussurrò: «…amami… te ne prego…»
Dafne capì che il
dio non l’avrebbe lasciata, non quel giorno almeno. Se stesse
dicendo sul serio sul fatto di seguirla per l’eternità non lo
sapeva, ma era certa che non si sarebbe staccato da lei fino a quando
non fosse riuscita a seminarlo. E doveva riuscirci, doveva farcela.
L’idea di averlo vicino la paralizzava e le attorcigliava le
viscere quasi il dio del sole, dalla bellezza leggendaria, non fosse
altro che un enorme scarafaggio deciso a posarsi a tutti i costi sul
suo viso.
Doveva scappare e
doveva farlo subito, perché là, nel bosco, non era al sicuro.
Dafne si alzò in
piedi, sostenendosi al tronco della quercia. Ascoltò il bosco, i
suoi rumori, i suoi impercettibili fruscii. Decise che era il momento
di scattare.
Eolo mio,
assistimi, ti supplico. Accompagnami con la tua mano, guidami col tuo
soffio, fammi scivolare veloce fra queste fronde ostili e fa’ che
l’aria mi sia lieve… ascolta la mia preghiera e aiutami…
La ninfa si lanciò
fuori dal suo nascondiglio e riprese la fuga tuffandosi fra i
cespugli; la veste arrotolata sulle cosce, l’acconciatura ormai
sfatta. Si voltò e fra i boccoli che iniziavano a scenderle accanto
al viso vide Apollo.
Era là, fra le
querce.
Tremendamente
vicino.
I loro sguardi si
incrociarono.
«Dafne!» esclamò
il dio e subito le corse dietro; i capelli biondi spettinati, gli
occhi enormi di stupore e desiderio. «Aspetta, mio amore! ASPETTA!»
«NO!» gridò ella
continuando a correre. Ora aveva i capelli sciolti sulle spalle, le
guance rosse per lo sforzo. «Vai via! LASCIAMI STARE!»
Apollo sentì la
passione farsi più feroce. Quanto era bella con quella chioma libera
e selvaggia, le cosce scoperte, i glutei che ondeggiavano sotto la
veste come onde alla luce del mattino... quei glutei che nessun uomo
aveva ancora sfiorato e stretto a sé...
«Fermati, ninfa!
Accetta le mie braccia! Non sputare sul mio amore!»
Dafne non si fermò.
Attraversò un ruscello, scivolò sui sassi, si rialzò; le gambe
doloranti, la tunica ora fradicia e pesante. Riprese a correre e
Apollo la seguì, molto più agile e veloce: superò la striscia
d’acqua, schivò rami e arbusti persistendo nel gridare il suo nome
fino a quando raggiunsero una radura d’erba morbida come seta.
Il tempio era
ancora lontano e Dafne capì che non ce l’avrebbe fatta a fuggire
dal dio. Il contatto con quell’erba soffice fu una grazia
inaspettata ma il dolore e lo sfinimento erano ormai troppo intensi;
schegge ai piedi, tagli alle ginocchia… Dafne sentì la ferita alla
guancia bruciare e fitte continue alla caviglia sinistra scuoterla ad
ogni passo. Realizzò che doveva essersela storta poco prima cadendo
sui sassi del ruscello.
Non ce la
faccio… qualcuno mi aiuti…
Zoppicante, la
fanciulla capì che era finita. Ancora poco e avrebbe perso le forze.
«Dolce creatura,
mio unico amore! FERMATI!» Apollo era sempre più vicino.
Stremata e ormai
senza speranza, la ninfa rivolse le ultime preghiere a sua madre Gea,
la Terra, e gridò. «Madre mia, ti prego! Salva tua figlia! Ha paura
ed è persa! Proteggila! Fa’ che le calde mani del dio del sole non
sfiorino mai la sua pelle di ninfa! Salvala, amatissima madre! SALVA
TUA FIGLIA!»
La generosa Gea non
poté ignorare la richiesta della sua creatura e subito le venne in
aiuto, decisa a proteggerla.
Dafne iniziò a
rallentare la sua corsa: i piedi le si fecero pesanti come se l’erba
fosse improvvisamente diventata magnetica, collosa, ed ella si sentì
sprofondare nel terreno. Era un contatto freddo ma piacevole, una
strana sensazione di unione, un amplesso con la terra. Le sembrò di
precipitare e volare insieme e sfinita si lasciò cadere, ma non
cadde. Ora le gambe erano dure, sempre più dure e rigide come
pilastri. Dafne sollevò le braccia al cielo; i capelli leggeri come
l’aria, la veste un impalpabile velo. Sentì le cosce farsi lunghe
e robuste, la pelle perdere la sua morbidezza. Vide le dita
allungarsi nell’azzurro del mattino, moltiplicarsi e diramarsi come
vene scure e sottili. Sorrise lievemente, colta da un profondo senso
di pace mentre gemme verdi le spuntavano qua e là sulla pelle
facendosi sempre più numerose: germogli e foglie. Foglie sulle dita,
sulle mani, sulle braccia. Ovunque.
«NO!» Apollo
gridò sconvolto e subito si lanciò sull’amata. Dafne, le braccia
ormai incollate per sempre al cielo, si voltò un’ultima volta
verso il dio e capì di essere salva: il suo bel corpo di ninfa era
divenuto un ruvido tronco, le gambe scomparse, e dei lunghi capelli
non vi erano che rami e un fitto fogliame color smeraldo. Apollo vide
il suo viso allungarsi verso l’alto spalmato su quella grezza
corteccia, e quando si schiantò su quel legno duro e lo abbracciò
Dafne non c’era più.
«TI PREGO, NO!»
Il dio fece correre le mani sull'albero come impazzito, alla ricerca
di un segno qualunque che gli suggerisse che riavere indietro la sua
amata fosse possibile. Ci girò intorno, tastò il legno, scrutò il
fogliame che ora dondolava silenzioso mosso dal vento. «NULLA! NON
C'È NULLA!» esclamò
infine schiacciando la fronte umida di sudore sul tronco, e avvilito
si lasciò sopraffare dalla disperazione e pianse.
Colpì l’albero
coi pugni, ne graffiò la corteccia fino a farsi sanguinare le mani e
gridò il suo dolore alla Grecia intera.
«Se non sarai
mia... sarai del mondo» singhiozzò fra le lacrime e i sospiri
accarezzando il tronco di quell’incantevole alloro che per sempre
gli avrebbe ricordato la graziosa ninfa. «Sarai tu, ora e per
l’eternità tutta, pianta sacra del sole. Maestosa darai il
benvenuto ai sacerdoti di Delfi e dei vincitori e degli eroi sarai
preziosa corona, e mai appassirai ma custodirai il tuo colore con la
neve e l’arsura, il ghiaccio e la tempesta affinché tu sia sempre
verde e bella e odorosa. Questo è il volere di Apollo.»
Il dio staccò con
delicatezza un rametto di alloro, lo curvò e se lo poggiò sul capo
in memoria di Dafne, suo primo grande amore. Sfiorò con la mano la
corteccia dell'albero un’ultima volta e infine se ne andò.
complimenti, bellissimo.
RispondiEliminaOddio wow. Scritto divinamente,
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