giovedì 8 novembre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE III (Ares, Eris, Ade)




Dal principio, Ares ed Eris pensarono che sarebbero riusciti a passare senza alcuna difficoltà. Il ruscello di defunti nel quale erano immersi scorreva senza intoppi, e malgrado Cerbero continuasse a fissarli dritto nelle pupille – dimostrando di averli notati e di aver riconosciuto la loro estraneità all’ambiente – qualcosa nel suo atteggiamento lasciava intendere che non avrebbe attaccato. Il guardiano sembrava essere in fase di studio. Ma non appena i due si fecero troppo vicini, un ringhio gutturale strisciò fuori dalle sue tre gole; un suono basso, roco, che non prometteva nulla di buono e che subito s’accompagnò a uno strano sibilo. Era la coda dell’animale a soffiare in quel modo: una coda serpentina e squamosa, che con la sua testa di vipera all’estremità mandava inequivocabili messaggi ai due invasori. E ora il pelo di Cerbero era ritto; il corpo teso; le labbra arricciate, a mostrare le zanne. Il guardiano li stava avvertendo.
«Ci attaccherà…» Ares tentò di deglutire, senza riuscirci. «Non ha capito che siamo Dei.»
«Sì che l’ha capito!» Eris si passò frettolosamente la mano sulla veste, con una smorfia di disgusto. Il gemello gliela aveva inumidita col suo sudore. «Ma se anche ci attacca, chi se ne frega! Tu puoi combatterlo!»
«Ma io non voglio, Eris!»
«Lo sapevo! Hai paura!»
«Non ho armi! E poi non voglio fargli male!»
«Dovrai! Perché se ci attacca, io volerò via e lui ti sbranerà!»
«Forse dovremmo cercare un’altra strada…»
«Non c’è un’altra strada!»
Erano ormai giunti in prossimità della roccia, quando Cerbero emise un fragoroso ringhio e balzò giù, nel fiume di anime, travolgendone una manciata. Gli altri defunti si scostarono appena, intorpiditi come sonnambuli, mentre i poveretti che erano stati schiacciati sfuggivano con ipnotica fumosità alle zampe della bestia, ricomponendosi al suo fianco come se nulla fosse accaduto. Ares ed Eris sbiancarono. Ora il guardiano era di fronte a loro e sbarrava loro la strada. Le sue tre teste – più simili nella forma alle teste di un grosso molossoide, che a quelle di un lupo – sembravano non avere le orecchie, tanto queste erano tirate indietro, e si muovevano indipendentemente l’una dall’altra. La coda-serpente scattava e sibilava, coi denti ben in vista. Non vi era neppure da chiedersi se Cerbero fosse infuriato. I suoi occhi erano due pepite scarlatte; le zanne scoperte fino alle gengive; i colli tesi in avanti, nei quali vibrava sempre più forte quel ringhio minaccioso.
Eris si nascose dietro il fratello e lo spinse piano in avanti. «Non possiamo fermarci adesso!»
«Ma…» Ares avanzò suo malgrado di un passo e, in tutta risposta, Cerbero scoppiò in un abbaio furibondo. Il suo alito schiaffeggiò i due come una raffica di vento caldo e sgradevole, che nessuno mai avrebbe voluto respirare. Il Dio strizzò gli occhi, colpito dall’umida zaffata che gli riempì la faccia di goccioline, e non sapendo più che fare allungò la mano verso il cane.
Cerbero latrò ancora, si leccò i nasi facendo schioccare le lingue e scrutò con circospezione la mano del bimbo. Infine l’annusò, chinando prima la testa di mezzo e poi le altre due.
Ares sentì le unghie di Eris conficcarsi nelle sue spalle. Era tesa come il cordino di un arco, pronta a strattonarlo all’indietro e a tentare di volare via con lui, prima che il bestione gli staccasse di netto il braccio. Perché forse avevano esagerato. Forse non c’era bisogno di rischiare così tanto, pur di esplorare il Regno dei Morti, e la Dea se ne rese conto appena ora, nel vedere le dita del fratello esposte al volere di quelle fauci gigantesche. Ma il ringhio di Cerbero si spense presto, così come il sibilo della coda-serpente, e il suono delle sue narici aspiranti – che sembravano quasi voler risucchiare la mano di Ares, tanta era l’attenzione con la quale la stavano analizzando – si sommò agli ovattati passi dei morti, che incuranti di tutto proseguivano il loro viaggio. Un suono rassicurante, di cane che sta riflettendo.
Poi, finalmente, Ares avvertì sulle nocche un colpo di lingua. Un gesto timido e incerto, quasi da cucciolo.
«Bravo!» Un enorme sorriso sollevò le guance del tracio. «Siamo Dei, vedi? Non devi ringhiarci contro! Noi siamo tuoi amici!»
Cerbero lo leccò ancora, stavolta con più convinzione, e cominciò a scodinzolare, scuotendo il serpente in aria.
«Io lo sapevo che ci avrebbe riconosciuti!» Eris si fece avanti, allungò a sua volta la mano e la scosse davanti ai nasi del mastino. «Da bravo! Lecca anche me!»
Le teste di Cerbero si sollevarono, come interdette. Lo scodinzolio s’arrestò.
«Su! Muoviti!» insistette la Dea.
Il cane rimase fermo per un po’, all’apparenza più indeciso che contrariato, ma alla fine leccò il piccolo palmo che aveva di fronte; uno sfioro appena accennato, che a malapena inumidì la manina di Eris. Poi tornò a leccare con piacere quella di Ares, riprendendo a scodinzolare.
«Sei un bravo cane…» Il Dio cominciò a grattare il mastino sotto i colli; le sue manine sprofondarono nella folta pelliccia fino ai polsi. E ora gli occhi di Cerbero erano semichiusi; le bocche aperte con le lingue che penzolavano di lato, atteggiate in una smorfia d’evidente goduria che somigliava quasi a un sorriso. «Sono sicuro che non ti grattano mai qua sotto…»
Eris colpì la spalla del fratellino con un pugno. «Smettila di spupazzarti quel cane!» tuonò. La riluttanza di Cerbero nei suoi confronti e il modo in cui questi dimostrava senza ritegno di preferire le attenzioni di Ares l’avevano offesa. «Ti comporti sempre da idiota quando vedi un cane!»
«Mi piacciono!» Ares tentò di abbracciare tutte e tre le teste, ma riuscì a malapena a cingere il collo centrale. «E poi è stato bravo! Stava per sbranarci, ma alla fine ci ha riconosciuti!»
«Non è bravo. È stupido! Come te!»
«Sei solo invidiosa perché vuole più bene a me che a te!»
Eris fece una pernacchia. «Chi se ne frega di questo pulcioso! Resta pure qua con lui se vuoi! Io però vado avanti. Voglio vedere gli Inferi!» La Dea riprese rapida la sua strada, scomparendo dietro l’enorme corpo del mastino.
«Eris! Non te ne andare!» Ares si sporse di lato, senza però staccarsi dal guardiano. Sperava di riuscire a intravedere la sorella, ma Cerbero era troppo grosso e il fiume di anime troppo denso. Perdersi di vista, in mezzo a quella calca, era questione di un attimo. Il Dio guardò un’ultima volta il cane, gli massaggiò vigorosamente il pelo in segno di saluto e se lo lasciò alle spalle, rituffandosi nella mischia. «Eris! Dove sei?» gridò già in preda al panico, un attimo prima di scorgere la luce della gemella, a pochi passi da sé. Per quanto impalpabili fossero, tutte quelle anime ammassate riuscivano ugualmente a celare alla vista i corpi solidi, come mille veli che sfarfallano uno di fronte all’altro.
«Non dovresti allontanarti così!» la rimproverò Ares, raggiungendola. «Non vedi quanto è grande qui? E se poi non ci troviamo più?»
«Peggio per te!» bofonchiò Eris, prendendolo per mano. «Io non ho paura di andare da sola!»
«Ma se eri ferma in mezzo al sentiero! Mi stavi aspettando!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero…»
I due proseguirono il loro cammino in mezzo ai defunti per un breve lasso di tempo, fin quando giunsero in una landa grigia e affollata; un luogo nebbioso e inaspettatamente ricco di dettagli dove sembrava regnare il caos più totale. Urla strazianti risuonavano in lontananza, provenienti da chissà quale lugubre anfratto; il genere di grida mozzafiato che solo la tortura riesce a strappare di bocca. Ombre cupe – alle quali si mescolarono quelle traghettate per ultime da Caronte – erravano per la nebbia fine, senza mai alzare lo sguardo. C’era chi piangeva in silenzio, chi fissava con occhi spenti il terreno, chi mormorava frasi sconnesse fra sé e sé, dondolando il capo con l’automatismo di una bestia chiusa in gabbia. Il dolore che trasudava da quel luogo era respirabile, così come il puzzo di umido, di bruma, di cose dimenticate, al quale i due traci ancora non si erano abituati. E ovunque si ergevano rocce nere, acuminate come coltelli, e alle loro pendici cipressi e pioppi soffocavano nella nebbia sfoggiando chiome che sembravano muffa, mentre piccole gocce di luce galleggiavano qua e là a mezz’aria, come lucciole intrappolate in invisibili tele di ragno. Ma era sufficiente sforzare la vista ed ecco che l’illusione svaniva e le gemme si trasformavano in lampade a olio, che in bilico tra le rocce e appese ai rami degli alberi tentavano con le loro lingue di fuoco di rischiarare l’ambiente. Ma per quanto suggestiva fosse, la loro luce tremolante non smorzava affatto la spettralità del luogo e, piuttosto, l’amplificava: perché in quelle terre infernali, dove le grida dei dannati stridevano in cielo come lame arrugginite e i morti si trascinavano avanti e indietro senza sapere dove andare, cosa fare, cosa pensare, anche la luce si era arresa alla tristezza e nei lumi danzava pallidamente, senza più la forza d’illuminare il mondo.
Il ristagno eterno, che tutto sembrava tingere di grigio, non risparmiava nulla e nessuno.   
«Chissà dov’è il palazzo dello zio Ade…» Ares fece un giro completo su se stesso. «Io vedo solo morti!»
Eris strizzò gli occhi, fin quasi a chiuderli. Le sembrava di vedere una figura differente dalle altre, là in mezzo alla nebbia: un uomo con la barba bianca, la testa calva e il corpo inequivocabilmente solido, come quello dei viventi. Reggeva tra le mani un oggetto lungo, simile a un giavellotto o un remo; uno strumento che, a causa della foschia, la Dea non riusciva a mettere a fuoco. «Chi è quello?» domandò, indicando al fratello lo sconosciuto, che chissà da quanto tempo li stava fissando entrambi, con aria sorpresa. «Lo vedi?»
Ares si schermò gli occhi con una mano, nonostante non vi fosse alcun sole a infastidirlo. «Ssssì. Non mi sembra un morto. Che sia lo zio Ade?»
«Quello?! Ma non dire sciocchezze!»
«Ma noi non sappiamo com’è fatto lo zio!»
«E poi non penso che lo zio Ade vada in giro per gli Inferi con un giavellotto in mano!»
«A me quello sembra un rastrello…»
Eris strizzò di nuovo gli occhi e si accorse che il fratello aveva ragione. «Sì, probabilmente è un giardiniere o qualcosa di simile. Di certo non è lo zio Ade.»
«Dovremmo andare a parlargli?» domandò Ares e, come se avesse udito quella domanda, l’uomo si voltò e s’incamminò rapidamente dalla parte opposta, scomparendo nella nebbia. «Oh, no! Se n’è andato!»
Eris fece spallucce. «Chi se ne frega. Dai, facciamo un giro nei dintorni! Voglio scoprire chi è che urla in questo modo!»
«Siiiiì! Andiamo a vedere!»
I due scelsero una direzione a caso e si avviarono nella nebbia. Erano luminosi e caldi come torce e, quando passavano, tutti i defunti indietreggiavano di un passo, fissandoli con occhi opachi e labbra che parevano cucite. Da quelle facce grigie – che la morte aveva reso quasi uguali l’una all’altra – non trapelava nessuna voglia, men che meno il desiderio di rivolgere la parola ai due intrusi, ma la luce, la vera luce, riusciva ancora a catturarle e a far brillare per un momento le loro iridi vuote. E mentre vagavano tra le ombre, fantasticando su cosa stesse accadendo ai poveretti che gridavano come bestie macellate, Ares ed Eris notarono altri individui simili a quello intravisto poco prima; uomini esili, vestiti di nero, che nella nebbia li osservavano a bocca aperta, incapaci di proferire parola.
«Chi sono questi tizi?» domandò Ares. «I servi dello zio?»
«Credo di sì.» Eris ne indicò uno. «Guarda, quello regge un cestino di verdura. È sicuramente un domestico.»
«Quindi anche qua sotto cresce la verdura! Che strano…»
All’improvviso i due avvertirono un forte calore sulla nuca. Si voltarono. Un uomo con la pelle rugosa, le guance incavate e un paio di occhi duri e luccicanti come il quarzo, illuminò i loro visi fin quasi ad accecarli, abbassando la lampada a olio che reggeva nella mano.
«O giovani profanatori, non avanzate d’un solo passo» disse lo sconosciuto. «Queste gelide terre non vi appartengono.»
«Sta’ zitto, vecchiaccio!» Eris s’incattivì all’istante. «Chi sei tu, per darci degli ordini?» 
«Guarda che noi siamo Dei!» aggiunse Ares. «Possiamo fare tutto quello che vogliamo!»
«Pensate ciò che più vi aggrada.» L’uomo non si scompose: era immune alla prepotenza dei due. «Tanto io non sono nessuno. Solo un umile servitore dell’Illustre. Ma è Lui ad avermi mandato da voi ed è da Lui che devo condurvi ora. Seguitemi, faccio strada. Il Suo palazzo non è lontano.»
Il servo s’incamminò nella foschia, con il lume ora ben alto davanti alla faccia, e i due gli andarono dietro senza un istante d’esitazione.



La dimora di Ade si rivelò differente da come i bimbi l’avevano immaginata. Nulla a che vedere coi templi scintillanti che dominavano la cima del monte Olimpo, tra statue imponenti e fontane d’acqua turchina. Eppure nessun'altra casa, destinata a ospitare il Dio dei morti, avrebbe potuto essere più perfetta di quella e, quasi fosse consapevole del proprio fascino, essa apparve nelle tenebre a poco a poco, come un relitto sul fondo del mare.
Era bianca e imponente quanto una montagna. Torce incastonate nelle mura esterne ne illuminavano il perimetro, scaricando vampate di luce azzurrina sulla pietra: per ragioni sconosciute ai due gemelli, il fuoco che ardeva intorno alla casa era blu e ciò le conferiva un’aura di sacralità, quasi d’inviolabilità. E del resto, di morti Ares ed Eris non ne vedevano laggiù. Vi erano servitori che vagavano per il giardino, facendo la spola tra un albero da frutto e l’altro con grosse ceste di vimini sottobraccio, e altri che entravano e uscivano dall’alto portone d’ingresso, ma di defunti neanche a parlarne. La dimora del sovrano era un luogo proibito. Bastava osservarla per capire che era meglio starne alla larga. L’oscurità le stritolava le fondamenta e allungava le sue nebulose spire su di essa, come una piovra intenta a far strisciare i tentacoli intorno alla preda; e quelle lingue nere si muovevano, si dissolvevano e si ricomponevano, gonfiandosi come onde anomale che salivano sulla pietra fino a sommergere le torce e i loro celesti fuochi. E contro quelle ombre divoratrici, ben poco potevano i cespugli di crisantemi che costeggiavano le mura, accuratamente potati; ben poco potevano i meli e i melograni che malgrado le chiome grigie offrivano frutti d’un vermiglio acceso, che pendevano dai rami come enormi gocce di sangue. Il Palazzo emanava la malsana bellezza dei luoghi perduti e nulla, né luci né fiori né frutti scarlatti, avrebbe mai potuto addolcirne il volto perché su di esso, come in uno specchio, si rifletteva il volto stesso dell’Oblio.  
«Che strana casa» disse Eris, mentre immagini sconnesse le passavano per la mente: un rudere in un villaggio abbandonato; una fortezza nemica nella nebbia; una nave da guerra stesa sul fondale, completamente ricoperta di bianche conchiglie. La casa dello zio, con le sue pareti di pietra stritolate dalle ombre, suscitava in modi insoliti la sua fantasia. «Non so decidere se è brutta o bella.»
«A me piace molto» disse Ares. «Dovremmo farne costruire una così in Tracia, al posto di casa nostra!»
«Uhmm… non so…»
I due seguirono il servo fino al portone. Erano certi che l’uomo lo avrebbe spinto o che al massimo avrebbe bussato utilizzando il batacchio, ma non appena vi furono davanti, questo si aprì da solo facendo gridare i cardini. Ares ed Eris aspettarono che il servo varcasse la soglia, quindi entrarono. Maschere bianchicce e incuriosite – i domestici che avevano appena aperto la porta – li accolsero all’interno della casa, fissandoli con labbra sigillate e occhi disapprovanti. L’uomo rivolse un cenno del capo ai colleghi, poi scrutò con la coda dell’occhio i due, senza voltarsi.
«Seguitemi» disse e si avviò.
Ares ed Eris indugiarono, conquistati dal nuovo ambiente. Erano all’interno di una corte; uno spazio inaspettatamente elegante, in cui si affacciava una parte delle stanze della casa. Le porte delle camere erano di marmo, le soglie di bronzo. Un quadrato d’acqua scintillava nel mezzo dell'atrio come una lastra di ghiaccio, contornato da alberelli di limone e triclini che invitavano al riposo. Colonne di pietra correvano lungo tutto il lato ovest, creando un portico dove massicci bracieri sbuffavano riccioli di fumo argentato, che si scioglievano prima di arrivare all’apertura sul tetto. L’aria era buona: profumo di agrumi e incenso, con una leggera nota di bruciato; una fragranza che sapeva di casa ricca e accogliente, e che per qualche istante fece dimenticare ai due bambini di essere sepolti sottoterra, tra morti e desolazione. 
Dato un ultimo sguardo all’ambiente, Ares ed Eris si affrettarono a trotterellare dietro al servo, che li guidò tra porticati e corridoi fino a condurli in una stanza spaziosa. Affreschi ormai sbiaditi decoravano pareti e soffitto, riproponendo epiche scene del passato: l’evirazione di Urano, la battaglia contro i Titani, la suddivisione dei regni tra i tre Cronidi, la costruzione dei cancelli del Tartaro… Su quei muri scoloriti vi era la storia degli Olimpi, ma Ares ed Eris erano troppo giovani per reputarla interessante e trovandosi chiusi in quello spazio inaspettatamente spoglio, che aveva tutta l’aria d’essere una stanza in attesa d’essere arredata, concentrarono la propria attenzione sull’uscio che si ergeva in fondo alla sala. Era una porta a due ante, in legno scuro e intagliato e con un grosso batacchio d’oro agganciato al centro; l’ingresso che solo una Sala del Trono poteva vantare.
«Aspettate qui. L’Inesorabile vi riceverà a breve.» L’uomo scrutò un’ultima volta i bambini, minacciandoli con lo sguardo di obbedire e non farsi venire in testa strane idee, tipo fuggire dal Palazzo e far perdere le proprie tracce. Poi s’incamminò verso la porta, batté il batacchio tre volte – tuoni micidiali che, Ares ed Eris ci avrebbero giurato, dovevano essere stati uditi in tutto il Regno – e infine entrò, scomparendo dall’altra parte.
I gemelli ebbero giusto il tempo di bighellonare per la stanza e bisticciare un po’
(Pensi che lo zio Ade ci sgriderà?)
(Sgriderà te. Io non ho fatto niente)
(Bugiarda! L’idea di venire quaggiù è stata tua!)
(Tanto non ti crederà nessuno)
quand’ecco che la porta si riaprì e il servo ricomparve.
«Potete entrare» disse l’uomo, tenendo aperta la porta. «Il Sovrano vi sta aspettando.»
Ares ed Eris esitarono, come colti da timore. Dallo spiraglio della porta s’intravedeva una sala immersa nella penombra; un luogo fosco e gigantesco, contornato da solide colonne su cui tremava l’azzurra luce delle torce. E che odore gelido, di oro e pietra millenaria, usciva da laggiù! Un odore che sapeva di riti solenni, troni sontuosi, catene e prigioni.
Odore di potere.
I due si scambiarono un'occhiata nervosa, poi si presero per mano e varcarono la soglia. La porta si chiuse alle loro spalle con un botto, che rimbombò tra le pareti facendoli sobbalzare. Erano dentro. Avanzarono di qualche passo, guardandosi intorno, e subito si sentirono rimpicciolire. La sala era immensa; le colonne alte e possenti come tibie di gigante; le torce sibilanti, con quel misterioso fuoco blu che sfidava le tenebre e ghiacciava l’atmosfera. E mentre camminavano sul gelido pavimento, sentendosi per la prima volta due profanatori prossimi al castigo, Ares ed Eris videro il Signore degli Inferi emergere dall’oscurità, seduto sul suo trono d’oro dall’alto schienale; una figura simile a un miraggio, che apparve nell’aria fosca quasi di sorpresa, così com’era apparsa nella nebbia la sagoma del suo palazzo.
I bimbi s’irrigidirono.
«Avvicinatevi. Non abbiate paura.» Ade parlò con voce calma e rassicurante; un padrone di casa che non vedeva l’ora di accogliere i suoi ospiti. «Lasciate che vi veda in viso.»
Ares ed Eris si fecero avanti lentamente, fino a giungere al suo cospetto, e là si fermarono, fissandolo a bocca aperta con l’indiscrezione tipica dei bambini.
Il Dio dei Morti era così cupo da non sembrare quasi un Dio.
Il suo viso era pallido e affilato; gli occhi ombrosi e incredibilmente stanchi, come avessero conosciuto solo insonnia e malinconia. Una barba curata gli copriva il mento e le guance; capelli d’un grigio perlato, simile all’argento, gli correvano sciolti sulle spalle, che ampie vesti nere facevano apparire più robuste di quanto non fossero. Non era un Dio dall’aspetto vigoroso, ciononostante emanava una spropositata autorità. Forse era la posa decisa, con la schiena ben dritta e adesa allo schienale del trono; forse era il naso importante ereditato dal padre, identico a quello dei fratelli Zeus e Poseidone; o forse era la massa nebulosa di tenebre, che si gonfiava e sgonfiava ai suoi piedi come nero vapore indissolubile, a conferirgli quell’aria solenne, da autentico sovrano. Ares ed Eris non se lo chiesero: una parte di loro continuava a dubitare che quel tizio dal volto cereo fosse realmente il Re dei Defunti.
«Tu sei… Ade?» domandò Ares.
«Nostro zio Ade?» gli fece eco Eris, alzando un sopracciglio.
«Oh…» Il Dio sorrise; i suoi occhi si addolcirono. «Non so se sono vostro zio. Ma sicuramente sono Ade, figlio di Crono e Rea e Sovrano dell’Averno. Voi invece, che ve ne andate a zonzo per il mio Regno come fosse il vostro, chi siete mai?»
«Noi siamo Ares ed Eris» rispose il piccolo tracio.
«Figli di Zeus ed Era» aggiunse la Dea, incrociando le braccine.
«Ares ed Eris! Ma che sorpresa.» Il viso di Ade s’illuminò. «Non l’avrei mai detto. Vi avevo sempre immaginati biondi.»
Quel commento fece sorridere Ares e imbronciare Eris, come la peggiore delle offese.
«Ora che vi osservo meglio, però, noto chiaramente che siete figli dei miei fratelli.» Ade indicò prima l’uno, poi l’altra. «Tu hai lo stesso sorriso di tuo padre. E tu lo stesso cipiglio di tua madre. Non mi stupisce che siate riusciti ad arrivare fin qui. Nelle vostre vene scorre sangue e determinazione.»
«Sai che Caronte non ci voleva traghettare?» squittì Eris, sperando con quella denuncia di mettere il nocchiero dei guai. «Abbiamo dovuto insistere un sacco!»
«E poi abbiamo anche domato Cerbero!» Are s’impettì, tutto orgoglioso. «Sembrava che volesse attaccarci, ma poi io l’ho placato!»
Ade si accarezzò la barba, divertito. L’entusiasmo di quei due bimbi era come un sorso d’acqua fresca dopo millenni di sete soffocante. «Dalle vostre vesti lorde deduco che siete passati per uno degli ingressi più stretti e ripidi. Mi complimento. Avete dato prova di grande forza e coraggio, giovani come siete. Ma ditemi. Per quale ragione avete scelto di compiere una simile impresa?»
Ares ed Eris si scambiarono uno sguardo confuso, quindi tornarono a guardare lo zio. «Ares ha ucciso un bambino» disse la Dea, come fosse la cosa più naturale del mondo. «E quando Thanatos è venuto a prenderlo, ci è venuto in mente che potevamo esplorare gli Inferi. Così… per divertirci.»
«Avete ucciso un bambino? Voi?» Ade aggrottò le sopracciglia, come se non avesse udito bene. «Per qual ragione?»
«Perché era uno stronzo!» rispose Ares. «Lui e i suoi amici ci insultavano e si credevano migliori di noi. Così li abbiamo picchiati e a lui ho fracassato la testa con una pietra.»
 «È stato bello. C’era sangue dappertutto!» Eris saltellò sul posto, facendo scricchiolare i sandaletti di cuoio sul pavimento. «Era la prima volta che lo facevamo e ci è piaciuto tantissimo!»
«Quanto ardore…» Ade intrecciò le dita davanti alla bocca, in posa riflessiva. «Mi auguro che i vostri genitori vi abbiano lodati, per esservi fatti rispettare con così tanta passione.»
«Mamma e papà?!» Eris smise di saltellare e arricciò la bocca; una smorfia quasi disgustata. «Loro non sanno niente di quello che facciamo. Per questo ci hanno lasciati a vivere in Tracia. Per non averci tra i piedi.»
Ade si fece improvvisamente serio; le sue dita scesero a serrarsi sui braccioli del trono.
«Nostro padre non ci loda mai. Dice che non sappiamo fare nulla…» Ares prese a disegnare col piede immaginari cerchi sul pavimento. «Io volevo fargli vedere quanto siamo bravi a uccidere, ma Eris ha detto che avrei perso tempo…»
«Ares spera sempre di impressionare mamma e papà in qualche modo. Non ha ancora capito che a loro non importa niente di noi. Io invece l’ho capito da tempo, perché sono più intelligente.»
«Non è vero che cerco di impressionarli…»
«Sì che è vero! Ti dispiace che se ne freghino di noi. Non far finta di no adesso!»
«Be’…»
Ade si alzò in piedi; l’oscurità che lo avvolgeva si arricciò su se stessa, distendendosi lungo tutto il basamento di marmo. Scese i gradini e si avvicinò ai due bimbi, trascinandosi dietro l’ombra come un lungo strascico, mentre quelli lo guardavano ipnotizzati con le teste rovesciate all’indietro. In piedi, il sovrano era molto più alto di quanto non sembrasse da seduto e incuteva soggezione.
«Vostro padre sta aspettando di conoscervi. Di capire chi siete davvero. Per questo parla così.» Ade si portò una mano al cuore. «Credetemi, io lo conosco bene.»
«Lui-ci-detesta» disse Eris con decisione; un tono di voce che alle orecchie di Ade suonò quasi di sfida. «Per lui possiamo anche scomparire nel nulla, tanto ci considera inutili.»
«A lui piace solo Atena!» Ares mollò un forte calcio al pavimento. «Vorrebbe che fossimo come lei, ma noi siamo diversi!»
«Non siamo solo diversi. Noi siamo cattivi. Nostro padre ce lo dice sempre.»
«E secondo voi è vero?» domandò Ade.
Eris rivolse allo zio un sorrisetto malvagio. «Nel mio caso sì! A me piace fare del male! Mi piace far litigare le persone e vederle piangere. E mi piace anche vederle morire!»
«Ma pensa…» Ade emise una risatina, tra lo stupore e il divertimento. Quindi posò la mano sulla testa della nipote, morbidamente; un gesto che lei non apprezzò e che la spinse ad arruffarsi ancora di più i capelli con entrambe le mani. «E tu?» domandò, ora rivolto verso Ares. «Anche tu ami far del male come tua sorella?»
Sul volto pallido dello zio, il tracio rivide le proprie mani grondanti sangue; risentì il batticuore, il sudore che gli correva giù per le guance come pioggia, la faccia che bruciava e pulsava e formicolava. Uccidere non gli era semplicemente piaciuto. Uccidere gli aveva fatto assaggiare per la prima volta l’adrenalina e per le sue squisite scariche di pazzia sentiva di aver già sviluppato una forte dipendenza. «Io non sono come lei» rispose. «A me non interessa far piangere gli altri o farli litigare. Io amo solo combattere. E uccidere.»
Ade prese il nipote per il mento e lo guardò a fondo negli occhi. «Che meraviglioso potenziale...» sussurrò, come riflettendo tra sé e sé. Ares sorrise, con gli occhi che luccicavano e il petto gonfio d’un sentimento mai provato prima; un piacere simile alla commozione. E contemplando quel faccino che ora splendeva quanto il sole, il sovrano ebbe la conferma di quanto già pensava: il piccolo era alla disperata ricerca di apprezzamento. «Mi rincresce che Zeus non vi sia di supporto e che contrasti la vostra natura, invece di farne motivo di vanto. Voi due siete destinati a grandi cose.»
«Davvero?» domandò Eris.
«Ma nostro padre dice che siamo solo dei barbari.» Ares s’incupì. «E che non combineremo mai niente.»
Ade gli accarezzò la testa, serissimo. Poi ritirò la mano e tacque qualche istante con lo sguardo rivolto al soffitto, come stesse cercando le parole perfette da rivolgere ai due nipotini. «Sapete che si dice di Dei e mortali?» domandò.
I due scossero la testa.
«Che sono come dei semi.»
«Semi?» ripeté Eris. «Come quelli delle piante?»
Ade annuì. «Ogni Dio e mortale, alla nascita, cela in sé la propria futura realizzazione. Ciò che è destinato a divenire. Così, come da un seme di mela non può nascere un albero di arance, anche voi siete vincolati alla vostra natura e costretti a obbedirle. Non è una cosa insolita, anzi. Anche per vostro padre è stato così. Per carattere e vigore solo lui poteva spodestare nostro padre Crono e conquistare l’Olimpo. Era un seme forte, da cui non poteva che nascere un grande sovrano. Capite ciò che voglio dire?»
«S-sì…» balbettò Ares. «Credo di sì.»
«E quale sarebbe la nostra natura?» domandò Eris.
«Il male.» Ade sorrise. «Voi non siete semi buoni. Siete semi cattivi. Per questo vi piace spargere dolore e morte. E sarà così per sempre, non cambierete, perciò vostro padre farà meglio ad abituarsi all’idea.»
I gemellini si guardarono. Quella conversazione li stava confondendo, ma anche eccitando.
«Perché ci dici queste cose, zio?» domandò Eris.
Il Signore dei Morti si voltò, facendo roteare la chioma e le vesti regali. «Venite, nipoti miei» disse, risalendo i gradini del basamento. I bimbi lo seguirono e si fermarono davanti al trono scintillante. «Sedetevi» disse il Dio, allungando un braccio.
I due lo fissarono sbigottiti. «Davvero possiamo?!» chiesero all’unisono.
«Certamente.»
I gemellini si tuffarono sul trono e presero posto uno accanto all’altra, sorridendo esaltatissimi.
«Ditemi. Cosa si prova a sedere sul trono degli Inferi?» domandò Ade.
«È bellissimo!» rispose Eris, dondolando i piedini che ora non arrivavano a terra. «Sembra che tutto il Regno sia mio! Hahaha!»
Ares non disse nulla, limitandosi a osservare la gigantesca sala come se la stesse vedendo per la prima volta. Sedere su quel trono lo faceva sentire strano e gli offriva una ancor più strana tachicardia.
«Ares.» Ade s’inginocchiò accanto al nipotino, per parlargli alla sua altezza. E in quel visetto dagli occhi ambrati, che ora lo fissavano smarriti perché quel trono alto e lucente era troppo maestoso per lui, il Dio vide il figlio che mai avrebbe potuto avere e una morsa gli strinse il cuore. «Forse mi sono sbagliato. Forse vostro padre è davvero uno sciocco, che mai riuscirà a sentirsi fiero di voi per ciò che naturalmente siete. Ma quale sia la verità, non è poi così importante. Non curarti di lui, se curarti di lui ti fa star male. Tu e tua sorella dovete andare avanti facendo solo ciò che vi piace, e vedrete che quella stessa natura che vostro padre disprezza vi renderà grandi, temuti e rispettati.»
«Vuoi dire che anche noi, un giorno, avremo un trono d’oro tutto nostro?» domandò Ares, incredulo.
«E tutti i mortali avranno paura di noi?» rincarò Eris, sporgendosi così tanto che per poco non cadde dallo scranno.
«Ne sono sicuro» rispose il sovrano. «Per questo vi ho fatti sedere sul mio trono. Per farvi assaggiare la grandezza, cosicché possiate desiderarla e raggiungerla nel più breve tempo possibile. Perciò sfogatevi. Spargete odio, terrore, violenza. Picchiate fino a non sentire più le mani. Torturate fin quando il vostro sorriso non si fa pesante e il nemico non ha più voce né saliva per implorarvi. Fate la guerra al mondo, ogni giorno e ogni notte della vostra vita. E uccidete
«Siiiiì!» Eris balzò in piedi sul trono, sfarfallando le alucce in preda all’euforia. Si sentiva come un cavallo selvaggio e pericoloso a cui avessero appena tolto le briglie, concedendogli di falciare chiunque si trovasse sulla sua via. «Io voglio fare tutte queste cose! Lo voglio tantissimissimo!»
Ares guardò lo zio. Era esterrefatto.
«Io non sono tuo padre, Ares.» Il sovrano gli accarezzò di nuovo la testolina. «Da me non avrai indifferenza se ucciderai, ma solo sincera gratitudine. E più ucciderai, più io ti sarò riconoscente, perché quelli che per te saranno morti senza nome né importanza, per me saranno nuovi e preziosi sudditi. E di essi io ho sempre bisogno.»
Ares avvertì un colossale sorriso esplodergli in faccia. Gli sembrava di non essersi mai sentito così felice, così completo, ed estasiato com’era non riuscì più a rispondere, ma solo a cogliere pensieri saettanti e sconclusionati:
(Non ti deluderò, zio)
(Ucciderò giorno e notte)
(Ti adoro)
(Sguazzerò nel sangue e nelle budella)
(Sono un seme cattivo)
(Vedrai)
(Vedrai quanto sono bravo a uccidere)
Ma anche senza parole, Ade capì ciò che il nipote voleva dirgli, ciò che si celava nel fondo del suo piccolo cuore ferito: tra i figli di Crono, era sempre stato il più empatico e perspicace. Posò la mano sulla spalla del bimbo, resistendo all’impulso di prenderlo in braccio, poi si alzò in piedi.  
«Mi ha fatto piacere conoscervi, Ares ed Eris, e vi ringrazio di questa visita inaspettata. Non ne ricevo molte, come potete ben immaginare. Ora però è tempo per voi di tornare nel Regno della Luce.»
Un ululato di dispiacere seguì le parole del sovrano.
«Ma zio! Io voglio restare qui, in mezzo ai morti!» esclamò Eris, arrabbiata. «Non voglio andarmene! No!»
«Non possiamo restare per sempre qua con te?» domandò Ares, scendendo dal trono. «Ti prego, zio!»
Ade rivolse al piccolo un sorriso stremato. La sua richiesta gli fece più male del previsto. «Purtroppo non è possibile. Ricordate cosa vi ho detto sulla natura?»
«Che non si può cambiare…» mugolò Ares.
«Esattamente. E voi, per natura, appartenete al mondo della superficie. Non a questo.» Ade si chinò leggermente in avanti. «Non essere triste, Ares. Tu e tua sorella potrete sempre tornare a farmi visita, in qualsiasi momento.»
Ares tentò di sorridere e non ci riuscì: era profondamente abbattuto. Ma quando Eris balzò giù dal trono e lo affiancò, senza più lamentarsi, capì che era giunto il momento di arrendersi. Allora sorrise. «Va bene, zio. Torneremo presto a trovarti.»
«Tu, forse.» Eris guardò il fratello, poi lanciò un’occhiataccia allo zio. «Io non rifaccio tutta quella strada, se ora mi mandi via. Capito?»
 Ade rise e annuì, mentre sul viso incattivito della nipote rivedeva una piccola Era, in uno dei suoi soliti sfoghi di rabbia. «Su, venite con me.» disse infine. «Vi accompagnerò personalmente fino in superficie.»
I gemellini si avvicinarono al sovrano e tutti e tre uscirono dalla Sala del Trono.


Ade condusse i nipoti nelle scuderie del palazzo, e non appena ebbe varcato la soglia, tre servitori – uno più pallido dell’altro – gli si precipitarono incontro. Erano stupiti: come tutti a palazzo, anche loro avevano saputo della presenza dei due Dei, e tutto si sarebbero aspettati da quella straordinaria situazione tranne che Ade li conducesse nelle scuderie, la zona degli Inferi da lui meno frequentata. E questa sua visita poteva significare una cosa sola.
«Preparate il carro» disse il sovrano.
I servi annuirono e si affaccendarono subito: uno si avviò verso il fondo della scuderia, scomparendo dietro l’angolo in uno spazio che dava sull’esterno; gli altri s’infilarono nelle cabine ai lati del corridoio centrale e cominciarono ad accompagnare fuori i quattro cavalli del Dio. Ares ed Eris sospirarono di meraviglia. Non avevano mai visto degli stalloni più belli: neri, possenti, con le briglie d’oro, la criniera selvaggia e il respiro che saettava fiamme. Sollevavano nubi di polvere a ogni colpo di zoccolo, mentre i loro occhi scrutavano il mondo, scintillanti come gocce di lava.
Molto più eccitato della sorella, Ares sommerse lo zio di domande sui suoi destrieri e questi rispose con gran pazienza, accompagnandolo insieme alla sorella in fondo alla scuderia finché tutti e tre non giunsero all’esterno, davanti al carro. E là, Ares ed Eris s’incantarono ancora: il cocchio del sovrano era dorato e sontuoso quanto quello di Zeus; un vero gioiello nella grigia penombra infernale, al quale i servitori stavano già legando gli stalloni. Tutto si stava svolgendo più in fretta del previsto.
Eris balzò sul cocchio per prima, senza chiedere il permesso, mentre Ares si alzava sulle punte dei piedi per accarezzare i cavalli che, incuriositi dalla sua luce, chinarono subito il muso caldo su di lui, facendolo ridere. Ade osservò entrambi, chiuso nelle proprie intime riflessioni, e non appena il carro fu pronto vi salì sopra, mettendosi alle spalle dei due. Intimò loro di reggersi forte, poi schioccò le redini e lanciò gli stalloni al galoppo. E sbuffando nastri di fiamme dal naso e dalla bocca, questi corsero lungo tutto il cortile e infine si alzarono da terra, sfrecciando verso il cielo; quel cielo bianchiccio che non avrebbe dovuto esistere, ma che ora il carro del Dio stava attraversando quasi in verticale, come un fulmine che dalla terra risale verso le nubi. Ares ed Eris si sporsero per vedere il Regno dei morti dall’alto, ma fecero appena in tempo a scorgere il tetto del palazzo e una porzione di terra puntellata di defunti – ora minuscoli come formiche – che la nebbia fagocitò tutto.
Stavano galoppando nel nulla; un vuoto in cui il cocchio dorato scivolava senza vibrare e la sconfinata foschia divorava ogni suono, ogni odore, ogni colore. Ares ed Eris si ritrassero e si aggrapparono al nero mantello dello zio. Avevano entrambi l’impressione di essere sul punto di diventare ciechi e sordi; di non riuscire a sentire più nulla perché tutto ora sembrava allontanarsi da loro, come un sogno in via di dissolvimento. Chiusero gli occhi, strizzandoli forte. Erano troppo orgogliosi per ammettere a se stessi che avevano paura, che odiavano ferocemente quella strana dimensione grigia e piatta, così attesero che tutto finisse, concentrando l’attenzione sul proprio battito cardiaco, l’unica cosa che ancora riuscivano a percepire. Ma la risalita verso la luce sembrò durare un’eternità e i due, appoggiati allo zio, cominciarono ad abbandonarsi all’incoscienza di un dolce svenimento simile al sonno, finché un suono lontano, un vero suono, non li riportò indietro. Allora si accorsero che il carro stava vibrando e i loro sensi s’infiammarono. Erano ancora nel vuoto, ma la nebbia si stava scurendo e gli zoccoli dei cavalli ora battevano su qualcosa di solido. Pochi attimi e fu il buio più nero.
«Siamo quasi arrivati» disse Ade, e nel sentire la sua voce così vicina, Ares ed Eris si rasserenarono e si staccarono da lui, tornando a stringere i pugni intorno al bordo metallico del cocchio. E in quelle tenebre sconfinate gli zoccoli schioccavano sempre più furiosi, e ovunque vibrava un suono franoso, di terra che si sbriciola, e in testa al cocchio ora sembravano esserci cento cavalli e tutti macinavano oscurità, nitrendo fuoco scarlatto; e l’aria ora odorava di terra, di radici, di fango, e in faccia Ares ed Eris sentivano schiantarsi granelli sconosciuti, che sul carro tintinnavano come chicchi di grandine, e quelle vibrazioni si facevano sempre più violente e a Eris sembrava di essere di nuovo sulla barca di Caronte
(Si distruggerà)
e il rumore degli zoccoli e dei detriti era assordante, e tutto pareva sul punto di squarciarsi e nessun terremoto sarebbe stato mai più devastante di quello e…
L’oscurità scoppiò con un boato.
Il carro aveva spaccato in due la terra e ora sfrecciava nel cielo azzurro, come una dorata eruzione vulcanica. Accecati, Ares ed Eris socchiusero gli occhi, mentre il sole si distendeva sui loro volti come un panno caldo. Quant’era potente la luce! Quant’erano accesi i colori! Erano stati via per poco, eppure le loro pupille si erano già abituate alle tenebre e ora il Mondo della Luce appariva sgradevole, quasi inospitale. Ma quando Ade tirò le redini e il carro cominciò a scendere giù per verdi pianure incolte, Ares ed Eris capirono di essere in Tracia e un attaccamento viscerale si fece largo nei loro cuori. Erano a casa.
Il sovrano fermò il cocchio su un campo coperto di gramigna e pietre. I gemelli scesero e si guardarono intorno. Conoscevano quella zona. Non era distante dai villaggi dei mortali né dai boschi in cui erano soliti giocare coi semidei, sulle sponde del Nestos.
«Grazie, zio» disse Ares, senza però riuscire ad aggiungere: di tutto.
Il Dio annuì. «Rendetemi fiero» disse. «So che ne siete in grado.» Poi schioccò le redini e il carro puntò di nuovo verso il cielo, trainato dai maestosi cavalli. Ares ed Eris lo osservarono disegnare un’ampia curva, per poi cadere in picchiata a terra, squarciandola; un botto tremendo, rumore di zoccoli e sassi che si frantumano, e il cocchio del Dio dei morti scomparve dall’altra parte. I due videro la terra serrarsi sopra il buco; un cumulo di terriccio marrone nel mezzo del campo di gramigna. Si guardarono i piedi: sentivano ancora il suolo vibrare, perforato dagli zoccoli degli stalloni infernali intenti a scavarsi la via. Una vibrazione che durò pochi attimi appena, come il sibilo di un sasso gettato in un pozzo. Poi fu il silenzio.
I gemelli si presero per mano e si avviarono verso un melo in fondo al campo. Avevano entrambi fame ed erano così pensierosi da non riuscire a fiatare. L’incontro con lo zio aveva segnato una svolta nelle loro vite; un cambiamento drastico che ancora non riuscivano a comprendere appieno ma che, lo sentivano, li avrebbe resi più felici.
Si arrampicarono sull’albero, staccarono delle mele e, seduti sui rami, cominciarono a mangiarle. Si sentivano frastornati ma soddisfatti, e mentre mangiavano si scambiarono boccacce buffe; un modo per assicurarsi che anche l’altro stesse bene. E mentre erano lassù, che masticavano a bocca aperta sputacchiando pezzetti di mela ovunque, voci lontane giunsero alle loro orecchie. Voci di ragazzi che si stavano avvicinando.
Eris roteò gli occhi, quindi represse il proprio bagliore e fece svanire le proprie ali. Non voleva seccature dai mortali: dopo il lungo viaggio negli Inferi, desiderava solo mangiare in pace. Ares la guardò e fece lo stesso, trattenendo il proprio bagliore. Anche lui aveva voglia di stare tranquillo. Stava ancora pensando allo zio e a quanto gli sarebbe piaciuto averlo per padre.
«Ehi voi! Stranieri!»
«Scendete immediatamente!»
Il gruppo di ragazzi gridò dal fondo del campo. Erano sei giovinotti sui quindici anni, ancora troppo giovani per radersi ma non per sentirsi i padroni del mondo. Ares ed Eris li osservarono avvicinarsi, quindi la Dea buttò a terra la mela che aveva iniziato a mangiare e ne staccò un’altra, prendendone un grande morso. 
«Smettetela! Quello è il nostro melo!» gridò uno.
«Andatevene via! Mocciosi di merda!» gridò un altro.
Ares ed Eris avvertirono una fitta allo stomaco; una fiammata d’ira mista a desiderio: era il seme cattivo di cui aveva parlato Ade. La loro essenza. Si scambiarono un sorriso. E mentre la Dea si metteva comoda sull’albero, distendendosi tra i suoi rami come una serpe pericolosa, Ares diede un ultimo morso alla mela e la gettò alle proprie spalle. Poi saltò giù, scrutò rapidamente la terra e, col gruppetto di ragazzi che ormai gli faceva ombra, trovò ciò che stava cercando.
Afferrò il sasso e sorrise.


3 commenti:

  1. Assolutamente stupendo, adoro il modo in cui scrivi. Le parole spariscono e vieni portato direttamente nel racconto. Tutte le scene sono fantastiche e i personaggi mai da meno, mi è davvero piaciuto leggere questo racconto!
    Adoro anche come caratterizzi tutti questi personaggi, così profondamente umani nella loro divinità. Che dire, spero davvero di leggere altre interazioni tra Ade e i due gemellini, specialmente Ares, devo ammettere che mai mi sarei aspettata di provare una stretta al cuore così quando ho letto.
    Ora sono terribilmente curiosa di sapere come questo rapporto si è evoluto nella loro età adulta, e davvero spero un giorno di scoprirlo. È incredibile che tu riesca a suscitare questo da un racconto, grazie mille davvero!

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    1. Ti ringrazio molto per questo bellissimo commento! E' forse uno dei più belli che abbia mai ricevuto! Grazie :)

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    2. Non sei l'unica a pensarla così. Ogni volta che rileggo uno di questi racconti è come se il mio mondo sparisse insieme a tutte le preoccupazioni giornaliere e mi ritrovassi proiettato indietro nel tempo in compagnia di divinità ed eroi che amo, temo e di cui, soprattutto, non posso fare a meno.

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