Lungo le nere sponde del fiume
Stige, Ade passeggiava con cuore calmo, accompagnato dalla moglie Persefone.
L'aria era umida, pesante. La volta del cielo, grigia e fosca, pareva fondersi
con la terra, come se tra le due non vi fosse più alcuna distinzione e il mondo
intero non fosse null'altro che una slavata imitazione di se stesso. Negli
Inferi tutto perdeva la sua identità e la sua importanza, facendosi ombra tra
le ombre, e persino lo straziante pianto dei defunti, traghettati da Caronte da
una sponda all'altra dello Stige, smarriva la propria energia non appena le
anime s'incamminavano nei meandri dell'Oltretomba, consce di non poter più
tornare indietro, e di quel pianto non rimanevano che lamenti trascinati e
gemiti privi di vita. E in mezzo a quell'angoscia fatta di lacrime e rimpianti,
i due Signori degli Inferi passavano lenti, distaccati, senza lasciarsi
influenzare da essa in alcun modo: a quel tetro spettacolo erano ormai entrambi
abituati, nonostante lo sbarco delle ombre non riempisse i loro animi dei
medesimi sentimenti.
Ade, a differenza della moglie,
s'inorgogliva nel contemplare i suoi nuovi sudditi riversarsi a fiotti oltre lo
Stige, e per loro, per ognuno di loro, provava un forte senso di possessione
materiale. Erano suoi, finalmente suoi, dopo aver trascorso anni in superficie
a ingraziarsi Zeus e gli altri Dei dell'Olimpo; a vivere vite insignificanti,
gloriose, misere, emozionanti... vite dai mille colori, che ora avrebbero
condizionato il loro futuro nel regno della morte. Ma che quelle anime novelle
finissero con l’ardere di dolore nel Tartaro, che vagassero smarrite nella
Prateria degli Asfodeli o che godessero della pace nei Campi Elisi, ad Ade non
importava: gli bastava saperle sue, pronte a riconoscergli l'autorità che
sapeva di meritare al pari dei suoi fratelli.
Persefone, invece, non guardava
alle ombre con orgoglio, pur essendone la regina. Sfilava tra loro senza
fissarne nessuna in particolare, mentre il suo sguardo coglieva l'ambiente
nella sua interezza. Erano trascorsi tanti anni dal giorno in cui la terra si
era squarciata sotto ai suoi piedi e Ade, a bordo di un cocchio scintillante
trainato da cavalli neri come la notte, l'aveva afferrata trascinandola con sé
giù negli Inferi, e da allora molte cose erano cambiate. Quel matrimonio, nato
dalla forza e dall'inganno, col tempo aveva dissipato la mole di tristezza che
le schiacciava il petto, e a sorpresa, come un frutto dalla buccia amara e il
cuore sorprendentemente dolce, si era fatto gradevole, accogliente, caldo;
un'unione salda e profonda, che era riuscita a farla sentire amata per davvero,
e non solo desiderata. E così com'era cambiato il suo rapporto con Ade, era
cambiata anche lei, cominciando a percepirsi regina degli Inferi e mettendo da
parte la propria empatia nei confronti delle anime piangenti che brulicavano
per tutto l'Oltretomba. Era stata costretta a farlo, a spogliare quelle ombre
d'importanza e valore. Nessuno avrebbe potuto salvarle tutte, rovesciando
l'ordine delle cose e scaraventando nel caos il regno dei viventi: quella era
la triste realtà, e Persefone, pur conservando intatto il proprio animo
misericordioso che tanto la rendeva amata dai mortali, l'aveva accettata, non
potendo fare altrimenti.
Trascinandosi dietro l'oscurità ad
ogni passo, il Dio si fece strada nella nebbia. Teneva la moglie a braccetto e
di tanto in tanto la guardava, innamorato del suo giovane viso di donna. Bionda
e bellissima, Persefone era come una rosa dai candidi petali, sbocciata dalla
sterile terra infernale; un fiore prezioso, profumato, splendido, di cui Ade
era gelosissimo e che non si sarebbe mai stancato di ammirare. Ma i loro occhi
faticavano a incrociarsi. Lo sguardo di lei era fuggevole, concentrato sulle
anime che dal traghetto di Caronte scendevano ad affollare la riva dello Stige.
Qualcosa la turbava.
Ade posò la mano su quella della
Dea, stretta al suo braccio. «Cosa c'è?» domandò, inclinando di poco il capo.
Persefone indicò le ombre
tutt'intorno. «Guarda che affollamento. Non hai anche tu l'impressione che
ultimamente il flusso di defunti si sia intensificato?»
«Infatti è così.» Il Dio annuì,
accarezzando piano le dita della moglie. «Pare che i Messeni siano di nuovo in
guerra con gli Spartani e che i soldati di entrambi gli eserciti stiano cadendo
a terra uno dopo l'altro, come foglie dagli alberi. Non so chi la spunterà, ma
so per certo che lassù Ares si sta dando da fare.»
«Guerra.» Persefone parlò con tono
di biasimo, rivolgendosi a se stessa. «Ma certo, avrei dovuto immaginarlo...»
«Ma no, mia cara.» Ade si fermò,
offrendo alla Dea uno dei suoi lievissimi sorrisi, tra la dolcezza e la
malinconia. «Il numero di nuove ombre può aumentare per le ragioni più svariate
e imprevedibili. Le epidemie, per esempio, a parità di tempo possono offrirci
molti più sudditi rispetto a una guerra e...»
«Mio Signore!» Una voce
maschile, smorzata dall'affanno, colse alle spalle i due sovrani, facendoli
sussultare. «Finalmente vi ho trovato!»
Marito e moglie si voltarono e un
uomo alto e pallido, dagli occhi sporgenti e il viso scavato, si arrestò di
fronte a loro, tutto trafelato: era uno dei servitori personali del Dio, uno
dei più fedeli.
«Che succede?» domandò Ade, sulle
spine. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta che aveva visto uno dei
domestici correre da lui in quel modo, e con quell'agitazione in corpo.
«Due uomini!» ansimò il servitore.
«Due viventi!»
Nell'udire quelle parole lo
sguardo di entrambi i coniugi si accese.
«Sono entrati a palazzo e
pretendono un'udienza. Dicono che è molto importante.»
«Chi sono?» chiese Ade.
«Teseo di Atene, e Piritoo,
principe dei Lapiti. Si sono annunciati così.»
Il Dio tacque qualche secondo,
frugando nei propri ricordi. Legato com'era al regno degli Inferi gli capitava
molto raramente di risalire in superficie, ed era attraverso i resoconti degli
altri Dei, in particolare quelli di Hermes il Messaggero, che entrava in
contatto con quel mondo, scoprendone vicende e personaggi degni di nota. «Teseo
di Atene» ripeté, annuendo. «Eroico principe, figlio di Egeo. Sì, il suo nome è
giunto alle mie orecchie. Questo Piritoo invece non lo conosco.» Ade guardò la
moglie che, a differenza sua, trascorreva metà dell'anno nel regno dei viventi.
«Tu, mia cara, l'hai forse sentito nominare?»
Persefone scosse la testa. «Non mi
sembra. Però posso immaginare per quale ragione entrambi siano discesi negli
Inferi...»
«La ragione è sempre la stessa.»
Ade annuì, condividendo il pensiero della sua regina che, come lui, era pronta
a ricevere le suppliche dei due visitatori affinché uno dei loro cari potesse
lasciare l'Oltretomba e tornare in superficie. Dopotutto era già capitato in
passato e, considerato l'ardore che scuoteva i cuori di certi mortali,
probabilmente sarebbe capitato ancora. Ma stavolta c'era qualcosa di diverso,
d’insolito, a giudicare dal panico che aveva preso il sopravvento sul povero
servitore. E Ade, pur non avendo ancora visto i volti dei due uomini che con
immensa boria pretendevano un'udienza privata come se questa gli fosse
dovuta, era già maldisposto nei loro confronti e impaziente di cacciarli dal
suo regno. «Andiamo» disse, cingendo con un braccio il fianco della moglie, e
con lei fece per incamminarsi in direzione del palazzo. «Il dovere chiama.»
«Mio Signore…»
Ade lanciò un'ultima occhiata al
servo.
«Vi stanno attendendo a spada
sguainata...»
Persefone sussultò, colpita da
quelle parole, ma il Dio degli Inferi non batté ciglio. «Mi dispiace per loro»
rispose, e con la moglie si avviò verso casa, lasciandosi alle spalle il fiume
Stige.
Nell’ampio androne del palazzo,
Piritoo camminava avanti e indietro come una tigre in gabbia, senza mai
staccare gli occhi dalla massiccia porta di fronte a sé oltre la quale si
trovava la Sala del Trono. Il pugno serrato sull’elsa della spada; la tunica
scarlatta, da principe, che gli dondolava sulle caviglie ad ogni passo. Era un
uomo dal viso squadrato e l’espressione dura, dotato di tratti virili capaci di
incutere timore fin dalla prima occhiata; il genere di uomo dal sangue caldo, a
cui la pazienza sfugge via assai rapidamente. «Ma quanto ci mette!» ringhiò tra
i denti per l’ennesima volta, con le pareti di pietra che subito gli
restituivano l’eco della propria voce. «Quello si sta prendendo gioco di noi,
te lo dico io!»
Teseo, alle spalle dell’amico,
chiuse gli occhi per un istante, turbato dal rimbombare di quella voce
aggressiva e invadente. Non gli piaceva per nulla quella situazione e poco ci
mancava che aggredisse Piritoo, chiudendogli la bocca a forza e assumendo
pienamente il controllo della missione: non era il tipo di uomo capace di
starsene fermo mentre le cose precipitavano prima ancora di cominciare. «Ci
riceverà» rispose con voce perentoria, mentre una scarica di nervosismo gli
stringeva la mano attorno all’elsa della spada, la cui lama pendeva verso il
pavimento. «Ora però smettila di urlare e abbassa quella spada. Non dobbiamo
presentarci al Dio in questo modo.»
Piritoo si fermò e gli scoccò
un’occhiataccia. «Abbassare la spada? Ma se sei stato tu a dirmi di sguainarla,
prima ancora di lasciare quella sporca caverna per discendere in questo
inferno!»
«È un atto dimostrativo. Il Dio deve capire che
facciamo sul serio, ma dobbiamo muoverci con la dovuta cautela. Minacciarlo
apertamente è controproducente.»
Senza abbassare la spada, il
principe dei Lapiti si avvicinò al compagno. «Tu non capisci.» Coi muscoli del
braccio inturgiditi per la tensione, posò la mano libera sulla spalla
dell’ateniese e a sorpresa gli rivolse uno sguardo tenero. «Sei un caro amico e
proprio per questo è mio dovere dirti quando sbagli…»
«E fai bene a farlo.» Teseo annuì,
pensando per la milionesima volta che era proprio a causa della profonda
amicizia che lo legava al Lapita se ora si trovava in mezzo ai morti, a tener
fede a una sciocca promessa fatta a cuor leggero qualche anno prima. Ma per
quanto fosse tutto così incredibile e assurdo, oltre che estremamente
pericoloso, l'ateniese non riusciva ad avercela né con lui né con se stesso, ma
anzi, più passavano i minuti più aumentava in lui il desiderio di portare a
compimento quell’impresa. E la sua fede, malgrado tutto, continuava a
resistere. «Però io sono convinto che…»
«Abbassare le spade! Teseo, non è
così che certe cose vanno fatte! Credi forse che Ade abbia sposato Persefone
facendo ricorso alla dolcezza? Che l’abbia morbidamente
strappata alla terra dopo aver cautamente
ponderato sulla situazione? Certo che no! Voleva una moglie e se l’è presa con
la forza, fregandosene di tutto il resto! E non è forse questo ciò che ci ha
detto di fare l’oracolo di Zeus quando gli abbiamo esposto la questione? Non è
stato forse lo stesso Signore dell’Olimpo a indicarci la via da percorrere,
alla fine della quale avrei trovato la mia futura sposa?»
Teseo afferrò la mano di Piritoo,
posata sulla sua spalla. «L’oracolo ci ha detto di tentare ed è quello che faremo, con tutti i mezzi a nostra
disposizione.» Occhi negli occhi col compagno, l’ateniese fece una pausa, poi
aggiunse: «Elena ormai si è fatta donna e tu sai che non vedo l’ora di sposarla,
ma la nostra promessa m’impone di fare tutto il possibile affinché la tua sposa
sia nobile e desiderabile quanto la mia, ed è per questo che sono qua, con te,
pronto ad andare fino in fondo. A patto
che abbassi quella spada e cominci a fidarti di me.»
Il Signore dei Lapiti arricciò il
naso, indeciso sul da farsi. Poi calò l’arma. «Sei un brav’uomo, Teseo, e io ti
amo come un fratello e forse anche di più, ma questa tua ingenuità un giorno ti
sarà fatale e quando ciò accadrà a me si spezzerà il cuore.»
Teseo sorrise, colpendo
amichevolmente con il pugno il petto dell’amico. «Non devi mai preoccuparti per
me. So quello che faccio, ne ho già passate tante.»
Piritoo, troppo teso per
ricambiare il sorriso del compagno, si limitò ad annuire, stritolando l’elsa
con la mano umida di sudore: Teseo stava facendo il possibile per contagiarlo
col suo ottimismo, ma i risultati erano scarsi, come se tra i due vi fosse un
muro invisibile ed entrambi fossero imprigionati nei reciproci stati d’animo.
Ma proprio quando il Lapita fu sul punto di riprendere a inveire contro il Dio
degli Inferi, che ancora non li aveva accolti, un violento stridore di cardini
esplose nell’atrio, riportando l’attenzione dei due alla porta della Sala del
Trono.
«Finalmente!» esclamò Piritoo con le pupille dilatate per
l’eccitazione, e d’istinto afferrò la spada con entrambe le mani, rizzandola
più che mai.
Teseo lo vide, ma lo ignorò. Ormai
era tardi per discutere: la porta si stava aprendo, segno che Ade era pronto a
riceverli, e prima ancora che si spalancasse del tutto Piritoo s’infilò in quel
varco a passo spedito. Teseo lo seguì e insieme i due attraversarono la grande
sala, che subito li avvolse con la sua atmosfera fredda e solenne.
Era una sala immensa, incorniciata
da una fila di colonne massicce che correvano lungo i quattro lati, e tra ogni
colonna era posizionata una lampada ad olio, la cui luce diffondeva
nell’ambiente un bagliore funereo. La pietra del pavimento era gelida; dalle
finestre alle pareti s’intravedeva il cielo grigio dell’Oltretomba la cui
nebbia pareva infilarsi all’interno, rendendo l’aria fosca e tetra. E sul
fondo, sulla cima di un basamento in marmo nero rialzato dal pavimento d’una
decina di gradini, Ade e Persefone sedevano sui loro troni d’oro, l’uno di fianco
all’altro, pronti a ricevere i due invasori.
Erano seri, perfettamente
allineati nelle loro emozioni, e in pochi passi Teseo e Piritoo si trovarono al
loro cospetto.
«O Illustre Re della Buia Terra,
ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza.» La voce dell’ateniese
echeggiò nella sala. «Chi ti parla è Teseo, figlio di re Egeo di Atene, e
questo è il mio compagno Piritoo, principe dei Lapiti.»
«L’accesso al regno delle ombre è
vietato ai viventi» dichiarò Ade, impassibile, nonostante uno degli uomini gli
stesse puntando la spada contro. «Come siete giunti quaggiù? È stato forse un Dio ad
aprirvi la strada?»
«Siamo discesi da soli dalla
caverna sul promontorio di Tenaro, in Laconia. Ma è stato l’oracolo di Zeus a
ispirare le nostre gesta» rispose Teseo.
«L’oracolo di Zeus?» Persefone
indurì lo sguardo, diffidente. «E per quale ragione vi presentate a noi, con le
armi strette nel pugno? Tu, Signore dei Lapiti! Abbassa immediatamente quella
spada.»
Piritoo rimase immobile, con la
punta della lama puntata contro entrambi, ma lo sguardo fisso solo sulla Dea;
uno sguardo acceso di desiderio, di brama lussuriosa, che Ade non poté fare a
meno di notare. Poi Teseo fece un cenno al compagno con la mano, e questo,
lentamente, abbassò la spada. «Non sono venuto fin qua per spaventarvi, mia
regina» disse il Lapita, rivolgendo alla Dea un mezzo sorriso, assai
sgradevole. «Non è nelle mie intenzioni.»
«Tu non mi spaventi» replicò dura
Persefone. «Non sei nessuno per me.»
Ade le gettò un’occhiata e capì
all’istante che il modo in cui l’invasore la stava fissando la metteva a
disagio, e non se ne stupì: non era abituata a ricevere quel genere di sguardo,
di uomo che spoglia con gli occhi. Che violenta
con gli occhi. «Che cosa volete?» domandò il Dio, serissimo e sempre più
impaziente di dare il benservito a quei due sbruffoni che stavano turbando
l’umore di sua moglie. «Vi ascolto.»
Di nuovo, Teseo rivolse all’amico
il medesimo cenno con la mano, stavolta per invitarlo ad attendere e a lasciare
a lui il controllo della situazione, e ottenuto il suo silenzio si prese
qualche secondo per studiare il Signore dei Defunti. Non era affatto un Dio
possente e truce, come se l’era sempre immaginato, bensì un uomo esile, col
volto magro, gli occhi cerchiati d’ombra e lunghi capelli grigi, dello stesso
tono del cielo infernale. Una figura che nel complesso non incuteva alcun
terrore, quanto piuttosto un senso di fragilità, nonostante l’espressione
gelida del viso, così ferma che a Teseo dava l’impressione che il Dio non sbattesse
mai le palpebre.
«Siamo venuti per la regina
Persefone» spiegò infine, guardando Ade negli occhi. «Lei non appartiene a
questo mondo e in quanto creatura della superficie è nell’ordine delle cose che
sposi un vivente. Ed è per questo che siamo qua. Per salvarla.»
Persefone sgranò gli occhi,
vivamente colpita da quell’inaspettata dichiarazione. Ade invece si limitò ad
alzare un sopracciglio, in maniera quasi impercettibile: non poteva credere
alle proprie orecchie e il suo stupore era così elevato da non riuscire a
trovare uno sfogo fisico.
«L’oracolo mi ha fatto il suo
nome.» Piritoo s’intromise nella conversazione, con le guance rosse per
l’emozione del momento. «Ero in cerca di una sposa che fosse desiderabile e di
sangue nobile quanto Elena, la fanciulla scelta da Teseo. Sono certo che la
conosci, Signore delle Ombre. Elena
è una delle figlie più belle di tuo fratello Zeus.» Il Lapita si passò
la lingua sui denti, ammirando la bionda regina dalla testa fino alla punta dei
piedi. «Credo non ci sia altro da spiegare. Io
voglio Persefone.»
Un drammatico silenzio calò nella
sala, dando ancora più enfasi alle parole del principe invasore. Poi Ade
intrecciò le dita in grembo, lentamente, e parlò: «Così è per questo che siete
discesi negli oscuri Inferi. Per chiedermi di regalarvi mia moglie.»
«È una richiesta disgustosa…» sibilò Persefone,
indignata.
«Ti sbagli, Dio!» Piritoo rizzò la
spada, tornando a minacciare Ade. «Non sono venuto quaggiù per chiedere né per
supplicare! Io pretendo Persefone e
me la prenderò, così come hai fatto tu!»
Ade non rispose, limitandosi a
contemplare il Lapita e la sua spada dalla lama scintillante. Poi, con immane
pacatezza spostò lo sguardo su Teseo, alzò le sopracciglia e chinò di poco il
capo, come a voler chiedere all’ateniese, che tra i due pareva il più
assennato, se le cose stessero davvero così. Se davvero avessero in mente di
fare una cosa così folle.
«Perdona la sfrontatezza del mio
compagno, il suo animo impetuoso gli scioglie spesso la lingua. Ma ciò che
vuole dire è giusto, indiscutibile.» Teseo alzò un indice al cielo, come un
filosofo al culmine del suo discorso. «Persefone merita di meglio. Merita di
tornare per sempre a essere Kore, l’amata figlia di Demetra, e non solo per sei
mesi l’anno. Merita di sdraiarsi la sera accanto a un uomo bello, forte,
valoroso… un uomo che sia in grado di darle dei figli.» L’espressione
dell’ateniese mutò per un momento facendosi più affilata, e in essa Ade colse
un sorriso invisibile, represso, sbeffeggiatore:
il giovane stava intimamente ridendo e godendo della sua sterilità e ciò era
evidente. Spietatamente percepibile. «Metti da parte il tuo egoismo, o Illustre
Sovrano, e cedi la tua infelice sposa a Piritoo.»
«Dammela» aggiunse il Lapita tra i denti, col volto sempre più rosso
e sudato e l’arma ancora sollevata. «Non costringermi a prenderla con la
forza.»
Gelido, Ade tornò a contemplare la
spada stretta nelle mani del principe e notò che tremava leggermente: la presa
del Lapita non era salda come sembrava. I suoi grossi bicipiti, con le vene in
rilievo per la tensione, non erano saldi come sembravano, e il Dio capì che in
quel misero corpo mortale albergava più paura che presunzione.
«Mi fate orrore!» ringhiò Persefone, coi pugni serrati sopra i
braccioli d’oro del trono. «La vostra arroganza non resterà impunita!»
Piritoo, sessualmente eccitato
dalla ritrosia della Dea, rispose a quel commento con un altro, viscido sorriso
che a Persefone fece contrarre lo stomaco, spingendola a cercare gli occhi di
Ade. Ma il Dio, pur percependo il suo sguardo su di sé, non la guardò,
continuando a fissare in silenzio i due invasori, come una statua di ghiaccio
millenaria dall’aspetto innocuo, al cui interno, però, pulsava un’energia
feroce sul punto di esplodere. E proprio quando Piritoo aprì di nuovo la bocca
per spronare il sovrano a cedergli la moglie, questo mutò completamente
atteggiamento, come ripresosi da una lunga e intima riflessione, e rivolse a
entrambi un sorriso amichevole.
«Teseo e Piritoo, principe d’Atene e Signore dei Lapiti»
disse, guardando prima l’uno poi l’altro. «La vostra discesa negli Inferi
merita di divenire leggenda e lo dico con cuore sincero. Mai prima d’ora dei
mortali così ardimentosi si erano presentati al mio cospetto. E proprio perché
siete forti e intelligenti, e indubbiamente superiori a coloro che prima di voi
ebbero il coraggio di lasciarsi indietro la terra luminosa per affrontare le
tenebre, capirete che cedere la moglie a uno sconosciuto non è cosa che un
marito possa decidere così, con fretta e con una spada puntata contro.»
«Non vedo perché no» protestò Piritoo, senza calare l’arma.
Ade ignorò quel commento e guardò l’ateniese, indicandolo.
«Tu, Teseo» disse. «Prima hai detto una cosa giusta, che mi ha fatto
riflettere. La felicità di Persefone deve essere la mia priorità e io voglio
che sia così, perché l’amo. E proprio perché l’amo sono disposto a mettere il
suo bene davanti ai miei desideri.»
Teseo annuì, ricambiando il sorriso del Dio, mentre i
muscoli delle sue spalle e delle braccia si rilassavano, al di fuori del suo
controllo: quelle parole lasciavano intuire una conclusione assai positiva
della faccenda.
Pallida in volto per l’incredulità, Persefone fissò il
marito. «Ade…» sussurrò con un filo di voce e lui, senza perdere il suo
sorriso, le gettò un’occhiata tanto rapida quanto inequivocabile: sta’ tranquilla e fidati di me. E la
Dea, ancora inquieta ma libera dalla soffocante morsa del panico, non disse più
nulla, lasciando che il marito facesse tutto ciò che aveva intenzione di fare.
«Acquietate i vostri animi, o uomini!» esclamò infine Ade,
alzandosi in piedi, e colti di sorpresa da quel gesto Teseo e Piritoo
sobbalzarono. «So che avete un disperato bisogno di allentare la tensione. Il
regno delle ombre non è il luogo più rilassante del mondo per dei viventi e
questo breve colloquio vi ha snervati più di quanto avevate previsto, perciò,
avanti… poniamo fine alla questione discutendone in privato, in un ambiente
meno austero di questa fredda sala. Voglio farvi sedere, offrirvi del vino,
conoscervi meglio… e infine darvi la mia risposta.»
Teseo e Piritoo si scambiarono un’occhiata e capirono
all’istante di non essere sulla stessa lunghezza d’onda: il primo smaniava per
accettare quell’invito alla diplomazia, ma il secondo preferiva restare
dov’era, deciso a risolvere la faccenda immediatamente, senza tanti
convenevoli.
«Seguitemi.» Ade scese lateralmente i gradini del basamento
sul quale si ergevano i troni, e dando le spalle ai due invasori s’incamminò in
direzione di una porta, quasi nascosta tra una colonna e l’altra. L’aprì e di
nuovo si voltò verso i due. «Non abbiate paura» disse, attendendo con pazienza
che gli uomini lo seguissero.
«Prendiamola ora»
strisciò a denti serrati Piritoo, fissando Persefone, immobile sul suo trono
con la medesima espressione disgustata di poco prima. «È la nostra occasione!»
«No.» Teseo lo
afferrò per un braccio, obbligandolo ad abbandonare quell’idea, e con uno
scossone lo avvicinò a sé. «Faremo come dice lui. È intenzionato a cedertela di
sua volontà, lo sento!»
Nervoso fino alla punta dei capelli, il Lapita tentò
bruscamente di liberarsi dalla stretta dell’amico, ma subito si arrese.
«D’accordo. Però io la spada non la mollo, qualsiasi cosa dica lui…»
«Piritoo.» Teseo si avvicinò all’orecchio del compagno, fino
a sfiorarlo con le labbra. «Qualsiasi cosa ci offrirà, tu non mangiare e
non bere niente. Ricorda.»
Il Lapita annuì e insieme i due principi seguirono Ade
dall’altra parte della porta, avviandosi verso l’ignoto.
Lasciata la Sala del Trono, Teseo e Piritoo si trovarono a
percorrere un corridoio lungo e stretto, sul quale si affacciavano innumerevoli
porte, tutte serrate. Non c’era molta luce e poche erano le lampade ad olio che
pendevano dal soffitto, appese a sottili catene di ferro, e sebbene il pavimento
in pietra fosse liscio e privo di ostacoli, ad ogni passo i due guerrieri
avevano l’impressione di inciampare, tanto densa era l’oscurità che li
avvolgeva dai sandali fino alla vita. Solo dopo diversi minuti trascorsi a
camminare fianco a fianco, ascoltando il proprio respiro ansioso e il cigolare
delle suole sul pavimento, notarono che era proprio Ade, con la sua figura, a
trascinarsi dietro la penombra, come se lui stesso fosse il fulcro di quel
mondo. Il pilastro di quel mondo. E
questa banale scoperta bastò a farli sentire ancora più tesi, più all’erta,
nonostante il Dio continuasse ad apparire debole ai loro occhi, così magro e
fragile che sarebbe bastato un solo pugno a farlo stramazzare a terra. Forse. Perché gli Dei godono di risorse
infinite e inimmaginabili, si sa.
Ad un certo punto, da una delle porte uscì un uomo con in
mano un cestino di vimini colmo di fichi e arance; uno dei domestici che
prestavano servizio a palazzo. Ade gli si avvicinò e gli bisbigliò qualcosa che
Teseo e Piritoo non riuscirono a udire. L’uomo annuì e rientrò nella stanza da
cui era uscito, e il Dio andò avanti, con i due che lo seguivano a debita
distanza di sicurezza. E l’ateniese, guardandosi intorno con aria smarrita, si
domandò quanto mai potesse essere grande il palazzo del Signore delle Ombre e
se quel corridoio, che sembrava non avere mai fine e che continuava a svoltare
ora a destra ora a sinistra, li avrebbe davvero condotti da qualche parte,
quando finalmente sul fondo comparve una porta, a sbarrare loro la strada.
«Siamo arrivati» annunciò Ade, voltandosi verso di loro, poi
allungò il braccio e aprì la porta, entrando per primo.
«Andiamo» disse Piritoo, prendendosi giusto un attimo per
strusciare sulla tunica la mano umida di sudore, poi andò avanti, seguito a
ruota da Teseo, e insieme i due si trovarono in un ambiente nuovo: una stanza
di dimensioni modeste, molto più piccola rispetto a quella del trono, ma
ugualmente tetra. Non vi erano finestre né lampade ad olio. La luce proveniva
da due bracieri di bronzo posti sul fondo, dai quali salivano lingue di fuoco
che sul soffitto e sulle pareti saettavano bagliori spettrali, e la mancanza di
aperture verso l’esterno diede subito ai due mortali l’impressione di essersi
infilati in un grande sarcofago di pietra. Ma superata quella sgradevole
sensazione, che nulla significava se non che il Dio dei Defunti avesse una
predilezione per gli ambienti freddi e foschi, Teseo e Piritoo aguzzarono la
vista, cogliendo nuovi dettagli di quell’ambiente sconosciuto. Malgrado l’aria
che odorava di chiuso e di braci, quella stanza sembrava vissuta e non pareva
poi così male: allineati al muro vi erano un elegante tavolo in ferro battuto,
sopra il quale era stato posto un vaso di ceramica colmo di asfodeli, e due
belle sedie in legno, con lo schienale alto e i braccioli, di quelle che di
solito si offrono agli ospiti. Vi erano poi una cassapanca, un tappeto in bisso
dorato steso al centro della sala, che col suo colore acceso le conferiva un
po’ di regalità, e un trono di bronzo, che svettava tra i due bracieri. Non era
sontuoso come quello in oro sul quale Ade era solito sedere accanto a
Persefone, ma era ugualmente un trono degno di un Dio, che Teseo e Piritoo non
poterono fare a meno di notare.
«Venite, e lasciate la porta aperta» disse Ade,
incamminandosi verso la parete opposta. Prese le due sedie in legno, le
posizionò delicatamente di fronte al trono e tornò al tavolo. Là diede una
sistemata agli asfodeli, e alcuni petali, bianchi e sottili come ali di
farfalla, gli scivolarono tra le dita, adagiandosi sulla superficie liscia del
mobile. Poi si voltò a guardare i due mortali, che cauti avanzavano nella
stanza: Teseo con la punta della lama che quasi strisciava sul pavimento, e
Piritoo con la spada ancora ritta. «Potete posare le armi, se volete. Sembrano
pesanti e vi assicuro che non ne avrete bisogno…»
Teseo, al centro della sala e sufficientemente distante da
Ade da non sentirsi troppo in pericolo, assottigliò il suo sguardo, diffidente.
«Ci cederai Persefone senza alcuna ritorsione?»
«Come ho già detto, parlerò
con voi.»
«E poi?» Il voltò di Piritoo si arricciò in una smorfia
rabbiosa. «Non sono venuto quaggiù per parlare, l’ho già detto!»
«Oh, ecco il vino.» Ade indicò col mento la porta, dalla
quale riapparve il servo incrociato poco fa in corridoio. Teseo se lo vide
passare davanti e lo osservò posare sul tavolo il vassoio, e mentre questo
sollevava la brocca, pronto a servire da bere, guardò intensamente l’amico,
ricordandogli l’ammonimento di qualche minuto prima; perché bere o mangiare
qualcosa cresciuto dalla terra infernale li avrebbe legati a quel regno per
sempre, così com’era successo a Persefone anni addietro quando ingenuamente
aveva mangiato sei chicchi di melograno, e nessuno di loro due aveva intenzione
di fare quella fine.
«Dobbiamo risolvere questa faccenda» disse Teseo, con grande
determinazione. «Ora.»
Ade, con in mano una coppa d’oro colma di vino rosso, annuì.
«Vi ho portati qua per questo e per nessun’altra ragione.» Attese che il servo
uscisse dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé, poi indicò le due sedie
in legno. «Su, mettetevi comodi.»
Senza mollare la spada, Piritoo s’incamminò verso le sedie e
Teseo lo imitò, mentre il Dio veniva loro incontro col calice sollevato a
mezz’aria.
«Noi non beviamo»
disse il Lapita con tono astioso, sedendosi per primo sulla sedia.
«Lo so» replicò Ade con un sorriso improvvisamente sadico, e
fu in quel momento che Teseo, adagiando a sua volta il corpo sulla sedia, notò
per la prima volta che quello che il Dio reggeva in mano era l'unico calice
presente nella stanza: il servo non ne aveva portati altri. «Brindo a voi,
Teseo e Piritoo. E alla vostra leggendaria e spregiudicata impresa.» Infine il
Signore delle Ombre si portò la coppa alle labbra e poco dopo un grido di
dolore, prorompente e angosciante, squarciò l'aria.
«Rrraaaaaaahhhhh!» Piritoo rovesciò la testa
all'indietro; la spada gli cadde di mano. Gridava a pieni polmoni, come una
baccante invasata, e Teseo fece appena in tempo a girarsi per guardarlo, quando
fu folgorato a sua volta da una fitta d'indescrivibile sofferenza.
«Aaaaaaagggh!» L'ateniese gridò, forte, mentre gli
occhi, stretti a fessura per il dolore, gli rimandavano l'immagine confusa di
Ade che andava a sedersi sul suo trono di bronzo, lasciandosi alle spalle una
nebulosa scia di tenebre. Allora, facendo pieno affidamento sui suoi muscoli,
tentò di alzare le braccia adagiate sui braccioli, e una scarica di dolore più
intenso gli riempì gli occhi di lacrime, confermando definitivamente quanto la
sua mente aveva già intuito: era la sedia. Il suo legno era diventato un
tutt'uno con la carne del suo corpo e lo sentiva dappertutto: sulla schiena,
sul retro delle cosce, sulle natiche. La stoffa della tunica pareva essersi
squagliata, e quella cosa, che tutto era tranne che una sedia normale,
lo stava rapidamente divorando, legando le sue fibre a quelle della sua pelle,
dei muscoli, dei tendini.
«Molla la spada, Teseo.» La voce del Dio giunse distante
alle orecchie dell'uomo, assordato dalle sue stesse grida e da quelle di
Piritoo, ma la sua mano tremante si aprì ugualmente, lasciando cadere l'arma
sul pavimento. «Bravo.» Ade prese un altro sorso di vino e tornò a contemplare
i due, col volto illuminato di piacere; un piacere perverso e feroce, del quale
avrebbe potuto non saziarsi mai tanto appagante era la scena che si stava
svolgendo davanti ai suoi occhi. Poi parlò, malgrado le urla che rimbalzavano
da una parete all'altra della sala: «Ho detto che vi avrei parlato quindi ora
vi spiegherò cosa sta accadendo. Vi siete appena seduti sulle Sedie dell'Oblio, dei cimeli dei quali
sono molto orgoglioso e geloso… quasi quanto sono geloso di Persefone.»
Sudati e col volto paonazzo, Teseo e Piritoo guardarono il
Dio, sforzandosi di trattenere le proprie grida: avevano bisogno del massimo
delle energie per poterlo supplicare e lo sapevano entrambi.
«È inutile che vi agitiate. La vostra carne mortale
si è fusa col legno e ogni movimento, anche il più lieve, non fa altro che
affondare nel vostro corpo migliaia e migliaia di schegge. Sono certo che le
sentite.» Ade fece dondolare il calice di vino, prese un sorso e continuò: «Ma
non è finita qua. Smettetela di guaire come cani morenti solo per un momento.
C'è una cosa che dovete sentire.»
«T-ti prego...» balbettò a fatica
Piritoo, col viso che grondava sudore, e una fitta di dolore gli strappò
l'ennesimo lamento.
«Silenzio» ripeté il Dio e
i due fecero del loro meglio per tacere, nonostante quella sensazione di legno
nella carne che li stava straziando, e nella quiete udirono i propri respiri
ansanti e il battito dei cuori. Ma c'era qualcos'altro e Piritoo se ne accorse
per primo.
«Che cos'è?» gridò il Lapita,
tentando di guardare al di sotto del proprio corpo, malgrado il retro della sua
testa si fosse incollato allo schienale, in un tutt’uno di carne, capelli e
legno. «Cos'è questo scricchiolio?!»
Ade allargò il suo sorriso, senza rispondere, e pochi
istanti dopo la situazione s'infiammò.
«Nooooo! NOOOOO!» Teseo gridò, folle di orrore: nel
legno della sedia di Piritoo si erano aperte delle crepe dalle quali stavano
strisciando fuori dei serpenti. Li vide cadere a terra, pesanti e neri come il
carbone, e distolse lo sguardo quando essi aprirono le fauci, pronti ad
attaccare le caviglie del principe Lapita che per il terrore aveva ripreso ad urlare,
più forte che mai. E quando Teseo percepì il suo legno spaccarsi in più
punti e un paio di serpi scivolargli dalle spalle fino in grembo, il panico gli
annebbiò la mente, spingendolo a tirare, tirare e tirare le proprie membra, fin
quando quella maledetta sedia non si fosse staccata da lui. Allora saltò su e
giù, a destra e a sinistra, istericamente, pregando tutti gli Dei dell'Olimpo
di farlo svenire e sottrarlo a quel supplizio o, meglio ancora, di ucciderlo;
ma quella possibilità era ormai stata depennata dalla lista perché il Signore
dei Defunti non aveva alcuna intenzione di porre fine alle sue pene. E quella
sedia mostruosa, malgrado tutta la forza che lui le stava scaricando addosso,
non si muoveva di un solo millimetro, come se si fosse fusa anche col pavimento
e il legno godesse della pesantezza della pietra.
Comodamente seduto sul suo trono, Ade osservava quello
spettacolo dondolando la coppa di vino. Gli piaceva da impazzire come i volti
dei due erano mutati, accartocciati sotto al peso di quell'incubo, e di essi
coglieva ogni dettaglio. Gli occhi fuori dalle orbite; le grosse gocce di
sudore che colavano dalle tempie fino al collo; la bocca spalancata, che
perdeva saliva. Era dal momento in cui il Lapita aveva osato rivolgere a
Persefone la prima, schifosissima occhiata lussuriosa che il Dio si stava
pregustando quello spettacolo, ed esso, pur essendo appena iniziato, aveva già
superato di gran lunga le sue aspettative.
«Lasciaci andare! TI PREGO!» Piritoo gridava,
agitandosi come un ossesso per evitare gli attacchi dei serpenti, che
attorcigliati alle sue gambe continuavano a salire, mordendogli le cosce,
l’addome e persino i genitali. Ma era tutto inutile, e più si muoveva più aveva
l'impressione che il suo corpo si stesse irrigidendo e che a breve non sarebbe
più stato in grado di controllarlo.
E anche Teseo, dilaniato come l'amico dai morsi delle serpi
e dal dolore causato dalla sedia, aveva la medesima sensazione, e far uscire la
voce gli costava uno sforzo sempre maggiore, come se le sue corde vocali si
stessero seccando. «Lasciaci andare...» mormorò, poco prima che una delle
bestie gli affondasse per l'ennesima volta i denti nella pelle. «T-ti chiediamo
perdono... ti prego!»
«Credevate davvero che vi avrei ceduto mia moglie? Che
l'avrei data al primo spaccone impaziente di metterle le mani addosso?» Ade
rise, accarezzandosi la barba. «Sciocchi mortali! Ormai è tardi per supplicare,
avete fatto le vostre scelte. Certo, avete tentato. Questo vi fa onore e, come
ho già detto, vi rende leggendari. Ma ora è qua che dovete restare.»
«Ti prego! NOOOO!» Piritoo urlò più forte che poté,
col viso che gocciolava lacrime, sudore e sangue, a causa dei morsi dei
serpenti. «Lasciaci andare!»
«Voi non morirete. Il legno della sedia non vi ucciderà, le
serpi non vi uccideranno, perché non è questo ciò che voglio per voi.» Il Dio
fece una pausa, deliziato dal pianto del Lapita: aveva sperato intensamente che
fosse lui il primo a umiliarsi. «A poco a poco perderete la capacità di
muovervi e parlare. Diventerete degli oggetti senzienti, pezzi di carne
attaccati a una sedia dotati, però, di intelletto, e chissà se qualcuno avrà
mai l'ardore di venire quaggiù a reclamarvi. Ma fossi in voi non mi farei
troppe speranze. Non passano molti viventi da queste parti, come potete ben immaginare.»
Terrorizzati e già impazziti per metà, Teseo e Piritoo
gridarono a squarciagola fin quando accadde ciò che il Dio aveva predetto, e i
loro corpi si paralizzarono. Niente più grida, niente più gemiti: a inquinare
il silenzio rimasero solamente il sibilo dei serpenti e il crepitio dei tizzoni
nei bracieri. Ma quell'immobilità era fasulla e Ade lo sapeva: la mente dei due
uomini era accesa, così come i loro occhi, che dalle palpebre spalancate lo
fissavano, colmi di dolore e angoscia. Occhi perforanti, che bramavano la morte
così come un assetato brama l'acqua. E il Dio, seduto sul suo trono cinto dalle
ombre, rimase di fronte a loro sorseggiando vino per un bel pezzo, senza mai
privarli del suo sadico sorriso.
Ma è stupendo!!!! Incredibili descrizioni, ho sentito un brivido su tutto il corpo *+* tutto stupendo, scritto benissimo, complimenti
RispondiEliminagrazie mille, sono felice che ti abbia emozionato.
EliminaNon mi capacito della vostra bravura!! È forse uno dei pezzi più belli di tutto il blog��
RispondiEliminaA dir poco stupendo mi piace un sacco, poi io sono patita per gli dei dell'Olimpo. Sono storie, leggende affascinanti.
RispondiEliminaRiuscite a rendere tutto così reale ���� siete grandi :D
troppo gentile :)
EliminaSplendido come sempre! Sono stata davvero felicissima di leggere finalmente qualcosa su Ade e sul suo amore per Persefone, l'ho trovato davvero bellissimo!
RispondiEliminagrazie!
EliminaFantastico!
RispondiEliminagrazie!
EliminaSe mai un giorno riuscirò a realizzare il mio sogno di diventare un insegnante di storia, nel trattare la storia antica farò leggere questi racconti ai miei studenti. Oltre a mostrare come l'interpretazione della mitologia abbia permesso di comprendere parte del pensiero degli antichi e gli avvenimenti delle epoche più oscure, attraverso tali scritti si può dimostrare ai ragazzi come queste antiche storie siano tutt'oggi appassionanti quanto affascinanti. I miei più vivi complimenti :)
RispondiEliminaTi ringrazio infinitamente per questo bellissimo commento!
EliminaDovete assolutamente uscire un libro **
RispondiEliminaè tra i nostri progetti futuri :)
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaBello, bello, bello. Bello il ritmo, l'intensità , il pathos..bello lo stile, diretto e coinvolgente.Riesci a rendere attuali e moderne storie che sanno comunque della polvere dei millenni, regalando nuova vita ai protagonisti; non si coglie dove hai aggiunto piccoli dettagli quà e là ( sempre tu lo abbia fatto) Sono incantata..amo leggere e amo i buoni libri. Se tu scrivi romanzi fammelo sapere perchè avresti una lettrice affezionata. Grazie delle emozioni.
RispondiEliminaGrazie, Myrin! A breve dovrei completare una raccolta di miti sugli Dei greci (una raccolta di racconti come questo che hai letto, per intenderci)... seguimi su FB https://www.facebook.com/giuliamarinoart/ così saprai quando verrà pubblicata!
EliminaDavvero...ma davvero fantastico..ho sentito la pelle d'oca brrr..grande Ade nuova stima per te..e ovviamente per il suo autore
RispondiEliminaTi ringrazio moltissimo!
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