Seduto sul suo scintillante trono
d’oro, Zeus, signore dell’Olimpo, ascoltava il proprio respiro nell’attesa che
la calma e la lucidità tornassero a fargli visita. Un silenzio glaciale, quasi
assordante, aleggiava nel grande tempio e la sua immota profondità aumentava a
dismisura il peso del dramma che si era consumato di fronte agli occhi del Dio,
appena pochi minuti prima.
Cosa ci faceva sulla Sacra Montagna? Perché
era corso a cercare conforto nella quiete e nel vuoto, come se questi potessero
aiutarlo a dimenticare ciò che aveva fatto?
Quel tremendo silenzio, in cui ogni suo
respiro cadeva pesante come un macigno, gli sembrava folle, insostenibile, e lo
stava odiando sempre di più. Eppure, malgrado il cuore spaccato, il Dio non si
muoveva. Il possente corpo era affondato sul trono, privo di forze; i gomiti
poggiati sui lucidi braccioli; il volto nascosto dietro alla mano.
Basta…
Che avesse gli occhi aperti o le palpebre
calate, Zeus continuava a rivedere quella scena, a riviverla, come se fosse ormai incisa sulla sommità della sua
mente, al di sopra di qualsiasi altro pensiero e ricordo. La voce di Semele, la
sua innamorata, che con femminile insistenza lo invitava a rivelarsi a lei in
tutto il suo divino splendore; le morbide mani che gli accarezzavano le spalle;
il profumo di fanciulla nuda e calda, pronta a concedersi a lui e a farlo
impazzire… se solo lui avesse accolto la
sua richiesta. E quella sensazione di ricatto, di ostacolo impossibile da
oltrepassare, perché Semele era tanto bella quanto testarda e non avrebbe mai
mollato la presa; e la rabbia, la voglia, l’impazienza… quella fiammata di
passione violenta che dal petto era salita ad incendiargli la fronte e le
guance…
E infine l’arrendevolezza. Il punto di
non ritorno.
(d’accordo)
Il Dio prese a massaggiarsi la fronte
corrugata.
(abbandonerò
queste fattezze umane e ti mostrerò la mia luce, purché tu la smetta con queste
sciocchezze e ti conceda ancora a me!)
Poche parole, pronunciate con evidente
stizza, e il destino della fanciulla era stato segnato. Ma nell’udirle lei
aveva sorriso d’entusiasmo e soddisfazione, come sorridono le donne quando
riescono ad averla vinta, e senza attendere un istante di più lui si era tirato
su col busto, aveva allargato le braccia e si era trasformato.
Basta…
basta…
Con che indescrivibile velocità
l’idillio amoroso era mutato in tragedia! Con che energia il potere ereditato
da suo padre Crono gli era sfuggito di mano, non appena si era mostrato
all’amata mortale senza trucchi né incantesimi! L’elettricità delle folgori era
scoppiata nella stanza come un temporale; un boato terrificante aveva scosso le
pareti del palazzo reale, le travi del soffitto, i pavimenti. Tutta Tebe aveva
tremato e Semele, povera sventurata, era stata travolta in pieno da
quell’ondata di luce e fulmini, divina essenza di Zeus, e il suo corpo nudo e
bianco si era acceso come un tizzone.
Mai il Dio si sarebbe liberato di
quelle immagini, di quei dettagli così dannatamente nitidi e mostruosi, o
almeno così credeva, e mentre l’orrore gli scorreva davanti, le sue dita
affondavano nelle palpebre chiuse, a strizzare gli occhi.
Innumerevoli erano state le morti a cui
aveva assistito, prima ancora di prendere dominio dell’Olimpo, come
innumerevoli erano stati i castighi e le sofferenze che aveva inflitto a tutti coloro
che avevano osato alzare la testa e oltraggiarlo. Forte, severo e possente, non
era tipo da lasciarsi impressionare facilmente dall’agonia, men che meno da
quella umana. Eppure, quand’era innamorato, Zeus soffriva molto, e la morte
accidentale di Semele, macabra come poche, persisteva nel tormentarlo come il
peggiore degli incubi. La pelle candida che, cinta dalle folgori, si arrossava
fino a ustionarsi; il corpo che si contorceva in preda alla sofferenza e allo
sgomento; gli occhi fuori dalle orbite; la bocca spalancata, così spalancata
che la mascella pareva quasi sul punto di dislocarsi; e le grida… quelle grida
strazianti…
Zeus si stropicciò il volto con la mano
e lo sentì più caldo che mai. Quanto tempo poteva essere passato da quando
aveva lasciato Tebe? Cinque minuti? Dieci? Venti? Sentiva ancora l’odore di
carne bruciata nelle narici; la ruvidezza
di quella pelle fumante sotto le dita.
Dato un freno alla propria luce
prorompente, mentre il fuoco scatenato dalle folgori andava divorandosi la
stanza, con mano incerta aveva sfiorato il ventre di Semele, quasi non
riuscisse a credere ai propri occhi e avesse bisogno di toccare la realtà per
accettarla, e subito aveva sentito le labbra arricciarsi per il disgusto e il
dolore. Ma, malgrado lo sconvolgimento, non aveva ritirato all’istante le dita
e una vivace scintilla si era accesa nella sua testa; un barlume di consapevolezza, che ora contribuiva ad
acuire il suo male.
Riprese a torturarsi la fronte, quando dei
passi echeggiarono sul liscio pavimento in pietra del tempio.
Il Dio alzò lo sguardo e vide Era, sua
moglie, venirgli incontro a testa alta. Le braccia incrociate sul seno; il
lungo chitone color acquamarina con le bordature dorate che sulle gambe cadeva creando
morbide onde; il prezioso diadema, appannaggio delle Dee maggiori, che tra
mille riflessi di luce svettava sul capo fiero e fermo. La sua espressione era seria;
lo sguardo solenne, quasi drammatico, e nel vederla avanzare così, con gli
occhi colmi di freddo biasimo, Zeus capì che doveva aver saputo della morte di
Semele, ma non se ne stupì. Probabilmente sapeva di lei da molto tempo e,
dominata dalla gelosia e dall’orgoglio, doveva aver cospirato e agito affinché
la bella fanciulla si separasse per sempre da lui e finisse scaraventata
nell’Ade. E come in passato, anche stavolta doveva essere riuscita chissà come a
portare a termine i suoi piani.
«Mio Signore…» disse la Dea, giunta al
suo cospetto. «Hai una faccia che fa spavento.»
Il Dio la scacciò con un gesto della
mano. Non aveva voglia né di parlarle né di vederla, e tanto meno di subirsi le
sue sceneggiate da innocentina.
Ma Era non si mosse e più gelida che
mai gli passò l’indice sotto al mento, obbligandolo a guardarla.
«Stai forse soffrendo per quell’inutile
mortale? Per quella sgualdrina tebana con cui da un po’ di tempo scendevi a
spassartela credendo di farmela sotto il naso?»
Gli occhi di Zeus s’ingrandirono per il
dolore e la rabbia. «Allora è vero!» tuonò.
«Tu sapevi e l’hai uccisa!»
«Io?» La Dea si portò la mano al seno e
scoccò al marito un’occhiataccia di rimprovero. «Non dire sciocchezze. Non sono
stata di certo io a incenerirla con una tempesta di fulmini.»
Quelle parole ferirono il Dio a fondo,
smorzando all’istante la sua voglia di conflitto e facendolo precipitare di
nuovo in pasto ai sensi di colpa. Dopotutto, c’era ben poco di che discutere;
ben poco da controbattere. Aveva ceduto alle richieste di Semele e aveva perso
il controllo del proprio potere, condannandola a una morte orrenda, e di questo
non poteva certo incolpare sua moglie.
E la Dea, nel vederlo chinare la testa
con fare esausto, capì che non sarebbe stata messa sotto torchio, né ora né
mai, e un meraviglioso senso di soddisfazione mista a sollievo le si espanse nel
petto. Ovviamente il suo sposo ci aveva visto giusto: era stata lei a spingere
indirettamente la giovane verso la morte, tanto quanto lui l’aveva spinta
direttamente, ed era stato semplice, quasi imbarazzante nella sua banalità. Le
era bastato assumere le sembianze della fidata nutrice di Semele, e così
camuffata rivelare alla fanciulla che l’uomo sconosciuto con cui trascorreva le
notti era in realtà Zeus, il potente sovrano dell’Olimpo. Infine, per
completare l’opera, aveva instillato nel suo cuore l’irrefrenabile voglia di
vederlo senza filtri, in tutta la sua magnificenza. Il resto era venuto da sé e
ormai faceva parte del passato; un passato doloroso al quale Zeus, a breve,
avrebbe smesso di dedicare la propria attenzione.
«Ho visto Tebe tremare, so bene cos’è
successo» continuò Era, passeggiando davanti al trono sul quale sedeva il
marito. «A me non sfugge mai nulla, ormai dovresti averlo imparato. Eppure…»
«Vattene. Voglio stare solo.» Il Dio,
tra dolore, fastidio e un mal di testa sempre più galoppante, tornò a
stropicciarsi il volto. Si sentiva a pezzi e l’odore di carne bruciata nelle
narici, che altro non era se non una sgradevole illusione, non accennava a
svanire.
«Quanta sofferenza per una misera
mortale…» La Dea si voltò di schiena, quanto bastava per celare a Zeus il suo
viso, ora segnato da una smorfia di sdegno e profonda amarezza. Era gelosa, gelosissima degli intensi sentimenti che
soggiogavano il cuore del Dio, ma al tempo stesso li detestava perché tante,
troppe erano state le umiliazioni che lui, sposo fedifrago e libertino, l’aveva
costretta a subire, e ormai l’amore che provava nei suoi confronti si era
irrecuperabilmente mescolato all’astio, condannandola a uno stato di perenne
insoddisfazione. «Sei ridicolo e la cosa assurda è che non te ne rendi neppure
conto.» Sospirò adirata e tornò a guardarlo con deplorazione. «Stai qua a
struggerti come se avessi appena perso l’amore della tua vita, l’unica creatura
capace di darti gioia e piacere, quando tra qualche giorno non sarai neppure in
grado di ricordare il suo volto o il suo nome. Come con tutte le altre.»
«Ora
basta!» Zeus affondò il pugno sul bracciolo del trono. Non tollerava più
quelle frecciatine, quella soffocante situazione, ed era intenzionato a
rimettere la moglie al suo posto. Immediatamente. «So che sei contenta! Che sei
venuta qua apposta per torturarmi, per sbattermi in faccia la tua gioia! Mi hai
forse preso per stupido? Quindi piantala con questa sceneggiata e ridi! RIDI! So che vuoi farlo e te lo concedo,
ma poi sparisci dalla mai vista!»
Il viso di Era si fece più serio che
mai; i suoi verdissimi occhi scintillarono, colmi d’odio e malinconia. «Credi
forse che gioisca della morte delle tue amanti?» La Dea si avvicinò al marito.
Le braccia stese sui fianchi; l’atteggiamento improvvisamente aggressivo, di
pantera pronta ad attaccare. «Credi forse che pulire e ripulire il mio onore di
moglie, che tu ti diverti a insozzare con la tua incontrollabile lussuria, sia
un gioco di mio gradimento? Che mi piaccia fare la parte della cattiva? Che mi
dia gioia vederti godere tra le braccia di un’altra e vederti soffrire quando
la perdi? Ti sbagli! Io non mi
diverto affatto a scaraventare le tue amanti fuori dalla nostra vita e non ho
nessuna voglia di ridere! MAI!»
Interdetto da quello sfogo, Zeus rimase
immobile per qualche secondo, indeciso se abbassare gli occhi o insuperbirsi e rammentare
alla moglie la propria posizione di sovrano indiscusso, al quale neppure lei
poteva rivolgersi con quel tono. Ma era troppo stanco, troppo provato per
affrontare un inutile scontro coniugale e allora si limitò a sventolarle
davanti la mano, scacciandola in malo modo dal tempio.
Era non disse più nulla. Arricciò il
naso stizzita, incrociò le braccia e diede le spalle al marito, rimanendo così,
a marcare col silenzio la sua evidente irritazione. Se ne sarebbe andata,
perché con lui poteva tirare la corda solo fino a un certo punto, superato il
quale doveva obbedirgli volente o nolente, ma prima avrebbe atteso un suo ritrattamento:
pochi attimi d’indugio, non di più, per offrirgli la possibilità di mostrarsi
pentito e tenderle una mano, trascorsi i quali l’avrebbe lasciato a piangersi
addosso come desiderava.
E mentre i due erano là, a mal
sopportarsi a vicenda per differenti ragioni, un frusciare d’aria, simile a un
soffio di vento, s’infilò con energia dall’entrata del tempio.
Entrambi volsero lo sguardo al fondo,
con blando interesse, e videro Hermes, il messaggero degli Dei, sfrecciare
verso di loro sospeso a mezz’aria, con indosso i suoi leggendari sandali alati.
Rapido e leggero, il giovane Dio percorse il naos in un batter di ciglia, e la Dea, che maldisposta com’era non
aveva alcuna voglia di rivolgergli la parola, si decise finalmente a togliere
il disturbo. Camminando a testa alta ed emanando quella particolare e gelida
eleganza che da sempre la caratterizzava, si lasciò il trono d’oro alle spalle
e quando Hermes le passò accanto ricevette il suo immediato saluto, al quale
rispose con un lievissimo cenno del capo. Infine sparì, lasciando il figlio
solo con il padre.
«Hermes, ragazzo mio…» disse Zeus,
continuando a massaggiarsi le rughe della fronte. Sentiva ancora sulla pelle
del viso il calore del fuoco che aveva avviluppato Semele ed era una sensazione
che col passare del tempo pareva intensificarsi anziché diminuire, come il
puzzo di bruciato nelle narici. «Che cosa desideri?»
«Ho consegnato a Poseidone il tuo
messaggio, come mi avevi ordinato» rispose pronto il Dio. «Te lo avrei riferito
già stamattina ma ho aspettato che facessi ritorno sull’Olimpo.»
Il ragazzo non notò subito il malessere
che stava soffocando suo padre. Immaturo, distratto e perennemente in movimento
fin dal giorno in cui era venuto alla luce, Hermes era un amante della
praticità, degli aspetti più concreti, superficiali e appaganti dell’esistenza
divina; un estimatore della vita facile e semplice, troppo impegnato a volare,
rubare o imbrogliare uno o più dei suoi fratelli e sorelle per riuscire a
fermarsi e cogliere ogni sfumatura dei complessi sentimenti altrui. Non che
mancasse di empatia né di buon cuore: semplicemente aveva altro per la testa e
la voglia di muoversi e divertirsi, tipica della sua giovane età, gli rendeva
difficile entrare immediatamente in sintonia con chiunque non fosse
spensierato, furbacchione e allegro quanto lui. «Dice che verrà alla riunione,
ma non mi è sembrato affatto entusiasta» continuò. «Credo che avrebbe preferito
un colloquio privato, ma è solo una mia supposizione…»
Zeus aggrottò le sopracciglia, i suoi
occhi si assottigliarono. Non riusciva a ricordare quale fosse la questione a
cui stava facendo riferimento il figlio, ma dopo qualche secondo i suoi
pensieri, per quanto arrugginiti, gli restituirono dei pallidi ricordi. Atena e
Poseidone che si litigavano il controllo di un’isola insignificante a ovest di
Atene; il Dio che non voleva mollare, Atena che non voleva mollare, ed entrambi
che pretendevano una sua decisione. Le solite stupidaggini, messe in piedi
giusto per il gusto di litigare e fare la voce grossa; stupidaggini che ora,
con la morte di Semele, a Zeus sembravano più che mai seccanti e banali.
«Padre, va tutto bene?» Improvvisamente
il viso di Hermes si fece serio, la sua voce preoccupata.
Il sovrano alzò lo sguardo incrociando quello
del figlio, e la limpidezza dei suoi occhi, così amichevoli e per nulla
giudicanti, lo fece sciogliere. Dondolò la testa da una spalla all’altra,
nascose il volto dietro alla mano e cominciò a raccontargli ciò che era
successo a Tebe. Sputò le parole una ad una, con gran fatica, e giunto alla
fine, nel ricordare a voce il corpo di Semele ustionato dalle fiamme, sentì la
commozione farsi acutissima; il dolore abissale e nero. Imbarazzato per quel
moto di emotività, a suo giudizio indegno per un Dio del suo livello, Zeus si
passò una mano sugli occhi lucidi e si schiarì la voce, pur avendo terminato il
proprio drammatico racconto, e solo allora si rese conto di quanto bisogno
avesse avuto di dividere il peso di quel fardello con qualcuno.
«Mi dispiace…» Hermes parlò piano, sinceramente
colpito dal triste incidente capitato al padre. Aprì la bocca per aggiungere
dell’altro, sentendo di doverlo fare, ma subito la richiuse: aveva il timore di
suonare inappropriato e banale, qualsiasi cosa avesse detto.
«La morte di Semele mi addolora e non
so cosa darei per poter tornare indietro e non cedere di fronte alle sue
richieste. Ma c’è dell’altro.» Zeus fece una pausa, buttò fuori un lungo
sospiro e proseguì: «Qualcosa che al solo pensiero mi distrugge e che temo mi
priverà del sonno per molto, moltissimo tempo…»
«Cosa, Padre?»
«Lei era incinta.»
Il messaggero trasalì, i suoi occhi si
fecero grandi e tondi.
«Non me lo aveva ancora confidato, forse
per timore d’un abbandono o chissà per quale altra ragione, ma io lo sapevo. Il
suo ventre si era fatto più tondo, le forme prosperose, materne. Stava cullando
la vita... la vita di mio figlio.» Il sovrano sollevò una mano, la stessa che
aveva posato sull’addome fumante di Semele poco prima di far ritorno
sull’Olimpo, e la fissò con amarezza. Pochi istanti di silenzio, poi un
sussurro, quasi un intimo pensiero sfuggito al suo controllo: «E ora se ne sono andati entrambi.»
Hermes si portò una mano alla nuca mentre
il suo sguardo, ora serissimo e pensieroso, indugiava sul volto del potente
padre. Quella rivelazione lo aveva impressionato, eppure non riusciva ad
avvertire né tristezza né desolazione, come se i cupi sentimenti che avrebbe
dovuto provare fossero in ritardo, bloccati chissà dove. «No, no, no» affermò
d’un tratto, scuotendo il capo con ferrea convinzione. «Questo non è possibile.»
Zeus lo guardò perplesso e anche un po’
indignato. «Dubiti forse della mia sincerità?» domandò.
«Oh, no! Non oserei mai e mi scuso se
per errore ti ho dato questa impressione» replicò il Dio, con un sorriso rassicurante
che subito svanì. «Però non riesco a credere che il frutto del tuo seme ceda
alla morte con tale facilità, come una qualsiasi creatura terrena.»
«Stai parlando di un frutto che non era
maturo…»
«Non ha importanza!» Hermes avanzò di
un passo verso il padre. Gli occhi sempre più accesi; il corpo teso, come se il
messaggero fosse pronto a spiccare un balzo e afferrare il Dio per le spalle.
Era convinto di essere dalla parte della ragione e si vedeva. «Potrebbe essere
ancora vivo. Mentre noi stiamo qua a parlare, nelle sue vene potrebbe ancora
scorrere il tuo sangue divino! Non dare per scontata la sua morte solo perché
la madre ha smesso di infondergli la vita. È di tuo figlio che stiamo parlando, non di un bimbo qualunque! Non può
morire così!»
Ti
sbagli, Hermes…
Ti
sbagli.
Zeus cominciò a tormentarsi la barba con
le dita. Si sentiva in precario equilibrio tra la voglia di credere al figlio e
il desiderio di urlargli addosso e cacciarlo dal tempio. «Ti sbagli» mormorò a
bassa voce, nel tentativo di autoconvincersi, ma l’ipotesi sollevata dal giovane
Dio, quell’ipotesi tremenda, era troppo pesante per poter essere rimossa o
ignorata. «Vorrei darti ragione. Lo vorrei più di qualsiasi altra cosa, ma ti
sbagli…»
«Può essere. Forse hai ragione tu,
forse la sua luce si è già estinta» rispose Hermes e un accenno di malinconia
gli brillò negli occhi per un momento. «Ma se è ancora vivo, Padre… sappi che si sta spegnendo e che noi, pur
sospettando, non stiamo muovendo un dito.»
Il figlio di Crono avvertì un brivido
violento mordergli i muscoli e le ossa. Aprì la bocca e la richiuse.
Cosa avrebbe dovuto rispondere a Hermes?
A cosa stava pensando? Cosa sarebbe stato giusto fare in una simile situazione?
Era nel caos e il dubbio di essere
fuggito sulla Sacra Montagna lasciando a Tebe, in quel corpo di donna ormai
defunto, il frutto di quell’amore condannandolo a morte certa, lo faceva
sentire un mostro più di quanto non si sentisse già per aver ucciso l’amata fanciulla
con la potenza delle sue folgori. Non poteva andare avanti così: doveva mettere
la parola fine a quella vicenda e doveva farlo presto o sarebbe impazzito.
E finalmente capì ciò che andava fatto
per alleggerire il peso di tutta quella storia: il ventre di Semele andava
aperto e la piccola vita al suo interno estratta, augurandosi che non fosse
troppo tardi. Ma al solo pensiero di rivedere quel corpo semi-carbonizzato, con
cui fino al giorno prima aveva fatto l’amore, Zeus sentiva le braccia e le
gambe farsi molli e men che meno riusciva ad immaginarsi con un coltello in
mano, intento ad affettarne le povere carni, fosse stato anche per un fine
superiore e nobile.
Non poteva farlo. Non lui.
Ciononostante avrebbe provato a dare a quello sventurato
figlio o figlia una possibilità.
«Ormai sai come la penso, Hermes, e sfortunatamente
il tuo spiccato ottimismo non è riuscito a intaccare il mio umore» affermò il
sovrano. «Ma su un punto devo darti ragione. Non posso voltarmi e tentare di
dimenticare senza aver avuto la certezza che questo erede, sangue del mio
sangue, sia morto. Sarebbe un’ingiustizia imperdonabile.»
Hermes annuì e, senza crogiolarsi nella
vanitosa soddisfazione di aver fatto cambiare idea al padre, domandò: «Cosa hai
intenzione di fare?»
«Se è viva, quella creatura va estratta
dal grembo materno prima che esso diventi una soffocante prigione, e questo è
un compito che affido a te, figlio mio. Portala da me e io vedrò cosa farne.»
Il messaggero non batté ciglio e chinò
la testa, per nulla sorpreso da quella dichiarazione: era abituato a farsi
carico d’incombenze di ogni genere, là sull’Olimpo, e prendeva ordini da suo
padre fin da quand’era fanciullo. Fece un salto e si fermò a mezz’aria, pronto
a partire senza tanti convenevoli.
«Sii discreto, mi raccomando» lo ammonì
Zeus. «Mia moglie non deve sapere di questo bambino quindi non farti vedere, se
per caso riuscirai a tornare sull’Olimpo con un fagotto tra le braccia.»
«Non preoccuparti, Padre.»
«Io ti aspetterò qua. Ora va’, vola a
Tebe.» Zeus lanciò un’ultima occhiata a Hermes; uno sguardo quasi supplicante. «E
fa presto» aggiunse.
Il giovane Dio piroettò nell’aria come
un’acrobata e sfrecciò a tutta velocità fuori dal tempio, senza più guardarsi
indietro.
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