giovedì 2 gennaio 2020

I DUE GUERRIERI (Ares e Atena)



Quando seppe ciò che era accaduto ad Atena, Ares non rise.
Restò immobile a fissare il vuoto con occhi sgranati, mentre Dioniso e Hermes sghignazzavano come matti e gli mollavano vigorose pacche sulla schiena, pronti a nutrirsi del divertimento che si aspettavano di vedere traboccare da ogni poro della sua pelle. Ma lui non rise e per un paio di secondi restò così, congelato dall’incredulità e assordato da quelle risate scimmiesche che ben conosceva e apprezzava, ma che adesso non riuscivano in alcun modo a sollevargli gli angoli della bocca. Poi, il ghiacciò si spaccò, il corpo sfuggì al suo controllo, bollente come metallo appena forgiato, e con l’energia di mille carri da guerra il tracio si lanciò tra i sentieri sfavillanti dell’Olimpo. Non si rese conto di ciò che faceva, non rifletté sul proprio operato: la sua testa era vuota di pensieri e piena di rabbia cieca e travolgente; il genere di collera che precede un omicidio efferato, e che presto esplose contro la porta della fucina di Efesto.
Ares mollò un calcio all’anta e la spalancò con un boato. Quindi entrò nel fumoso laboratorio.
Martello alla mano, in piedi davanti all’incudine, il fabbro lo guardò a bocca aperta: non poteva credere a ciò che stava accadendo. Aveva forse dimenticato un’ordinazione? Quel barbaro sconsiderato era davvero così pazzo da prendersela in quel modo per un’inezia simile? Probabilmente sì. Del resto, quelli erano gli anni della guerra di Troia e chi, più del Signore della Strage, avrebbe avuto il diritto di adirarsi se un’armatura non fosse stata completata entro i termini pattuiti?
Efesto fece per parlare, quando il guerriero emise un ringhio bestiale, afferrò uno dei tavoli e lo scaraventò contro il muro. Il legno andò in pezzi come si fosse schiantato contro una montagna, ferraglia d’ogni genere si sparse ovunque con fragore metallico. Poi, Ares si fiondò sul fabbro e lo afferrò per il grembiule da lavoro.
«MERDOSO D’UNO STORPIO!» gridò, sollevandolo in aria e schiacciandolo contro il muro, il volto rosso d’ira, le pupille minuscole come granelli di carbone in un mare d’ambra luccicante. «Come hai osato fare una cosa del genere? Come cazzo ti sei permesso?»
Efesto lasciò cadere il martello e afferrò istintivamente le grosse braccia del tracio, tentando di liberarsi. Il modo in cui questi lo premeva contro la pietra gli schiacciava i polmoni, impedendogli di respirare. «A…res! C-cosa…?»
«Sai bene cosa hai fatto!» ruggì il guerriero. «Tutti parlano della soddisfazione che ti sei preso!»
Il fabbro tossì, emise una specie di gorgoglio e tossì di nuovo. «N-non so di cosa parli! Dico davvero!»
«ATENA!» gridò lui, scuotendo l’avversario così forte da fargli battere i denti. «Ecco di cosa parlo!»
«At-» Efesto tossì di nuovo. «Io non…»
Ares mollò il poveretto che, zoppo com’era e preso alla sprovvista, subito si accasciò a terra. Lo guardò con disgusto, afferrò la stampella appoggiata al ceppo dell’incudine e gliela gettò addosso. «Alzati, pezzo di sterco!» esclamò. «E smettila di mentire.»
Efesto si aggrappò alla stampella e si tirò su, l’espressione ora più infastidita che spaventata. Da anni era abituato a sopportare i familiari – che non si facevano alcuno scrupolo a deriderlo appena si presentava loro l’occasione – ma il modo in cui il guerriero lo stava trattando andava ben oltre alle semplici risatine che era abituato a ricevere alle proprie spalle, e cominciava a innervosirlo.
«Cosa vuoi che ti dica, Ares?» domandò guardandolo negli occhi. «Se non ti decidi a spiegarmi qual è il tuo problema puoi anche andartene perché, a differenza tua, io ho molto lavoro da fare.»
«Non t’azzardare a usare questo tono con me!» gridò il tracio scagliando a terra una cassetta piena di tenaglie. «Sono l’ultima persona con cui ti conviene fare lo stronzo!»
«Perché sei arrabbiato? Dimmi cos’ho fatto, invece di sfasciarmi la fucina!»
Ares digrignò i denti in una smorfia feroce. «Hai tentato di stuprare Atena!» gridò.
«Stuprare, io? Oh, no! Non è così che è andata! È stato tutto un malinteso!» Efesto alzò entrambe le mani e si strinse nelle spalle, il volto segnato da rughe di dispiacere sincero. «Qualche giorno fa, Atena mi commissionò un’armatura nuova e io le dissi che non volevo oro da lei, ma che mi sarei assunto l’incarico per amore. Fu una sciocchezza detta così per dire, è ovvio. Sapevo che non avrebbe mai ceduto la sua preziosa verginità al Dio più brutto e deriso dell’Olimpo. Ma poi Poseidone mi rivelò che lei aveva deciso di concedersi a me e che persino Zeus approvava la nostra unione. Mi disse che era troppo pudica per ammettere la voglia che le ardeva dentro e che, perciò, spettava a me farmi avanti. Non mi aveva mai mentito prima, Poseidone, così mi fidai di lui, come un povero stolto! E quando Atena tornò per ritirare l’armatura, be’… tentai di fare l’amore con lei e non mi accorsi subito che non voleva, perché pensai fosse timida. Ma non l’ho stuprata! Non ho mai neppure pensato di farlo! Sia io che lei siamo stati vittime di uno scherzo crudele. Questo è ciò che è successo.»
«SO BENE COS’È SUCCESSO!» Ares mollò un calcio a una delle tenaglie cadute a terra, scaraventandola dall’altra parte della fucina. «Hai tentato di scopartela ma non ci sei riuscito, perché lei si dimenava, e nella foga le hai sborrato sulla coscia!»
Efesto rimase interdetto: aveva sospettato che l’incidente con Atena fosse ormai di pubblico dominio, ma il fatto che tutti gli Dei sapessero che l’abbraccio con la Pallade l’aveva portato a una rapida eiaculazione gli scatenò un grande imbarazzo. «Atena è molto bella» disse con un sospiro stanco. «Chiunque al mio posto avreb-»   
«Chiudi quella cazzo di bocca!» gridò Ares, il dito puntato contro di lui. «Zoppo maledetto! Le hai sborrato sulla coscia! Meriteresti d’essere evirato per ciò che hai fatto!»
«Perché t’infuri?» Le spesse e scure sopracciglia di Efesto quasi si toccarono sopra al naso in un cipiglio d’incomprensione. «Tu odi Atena.»
«Certo che la odio! Non la sopporto e neppure lei sopporta me!»
«Allora perché ti arrabbi in questo modo?»
Ares prese a camminare avanti e indietro come una pantera in gabbia, i muscoli gonfi, le narici che soffiavano aria rovente, gli occhi spalancati e cerchiati dal furore. Non sapeva cosa rispondere, non ricordava com’era finito in quella surreale situazione in cui tutto gli sembrava sbagliato a cominciare dalla collera che lo stava facendo bruciare come una gigantesca pira. Emise un grugnito, scosse la testa, si passò la mano sul volto sudato, continuando a sfilare nervosamente davanti alla forgia.
«Se non fossi certo dell’odio che nutri per Atena, direi che sei geloso di lei» disse Efesto, seguendolo con lo sguardo.
«Io la odio, quella puttana!» Ares si girò di scatto verso il fabbro. «Geloso di lei? Io? Devi aver preso troppe botte al cervello rotolando giù dall’Olimpo, orrido storpio!»
«Eppure ti sei precipitato qui, neanche fossi suo marito. Ma a dire la verità, non m’interessa sapere cosa ti passa per la testa.»
«Ecco, bravo. Fai bene a farti i cazzi tuoi.»
Efesto rivolse all’amante di sua moglie un sorriso affilato, di chi sta per infilare il dito nella piaga con sadico piacere: ormai aveva scoperto qual era il segreto che nascondeva, e desiderava approfittare dell’occasione per vendicarsi di lui. «Ma forse a te interessa sapere cosa si prova a sborrare su Atena. Sai com’è, al momento questa bella sensazione la conosco solo io.»
Ares sentì una vampata salirgli dal petto fino alla punta dei capelli: fuoco puro, insopportabile, che gli contrasse il volto in un’espressione selvaggia. Odiava Efesto per ciò che gli stava facendo, ma ancora di più odiava se stesso per l’insensata gelosia che provava nei confronti di Atena; quella gelosia che non riusciva in alcun modo a nascondere e che gli stava costando una pesante umiliazione.
Ruggì e scaricò il pugno contro il muro. Crepe nere simili a folgori si diramarono dalle sue nocche e corsero tra le pietre, assottigliandosi fino a scomparire nella tenebra fuligginosa. Il dolore alla mano non lo appagò, la rabbia non si spense perché un suo personale equilibrio – del quale fino ad allora aveva ignorato l’esistenza – era andato perduto per sempre, e nulla avrebbe potuto cambiare quel fatto.
Riafferrò per il grembiule il fabbro – che ora lo guardava incredulo – e lo tirò a sé con uno strattone. Lo fissò dritto nelle pupille, respirandogli addosso e detestando ogni molecola del suo corpo curvo e tozzo; quel corpo che aveva osato stringere Atena in un abbraccio sessuale e sporcare la sua bianca pelle di sperma. Quanto gli sarebbe piaciuto spaccare tutte le ossa a quel miserabile! Quanto si sarebbe divertito a trasformare la sua carne lussuriosa in una poltiglia percorsa da scariche di dolore lancinante! Avrebbe goduto da morire nel renderlo ancora più zoppo, ma anche nell’impeto dell’ira il guerriero ricordò di avere le mani legate perché Efesto era figlio di Era, come lui. Un fratello dello stesso grembo. E l’austera madre – che già lo sopportava a fatica a causa della sua indole violenta e sanguinaria – non lo avrebbe mai perdonato se avesse osato metterla in imbarazzo di fronte a Zeus e al resto della famiglia, commettendo una simile follia ai danni del fratello. E tutto questo per cosa, poi? Perché era geloso di Atena?
Ares mollò Efesto spingendolo all’indietro e si lanciò fuori dalla fucina. Le sagome degli Dei celesti gli sfrecciarono accanto come illusioni, nulla riuscì a trattenere il suo sguardo: la furia gli alterava la mente e lo avvolgeva come nebbia fitta, impedendogli di vedere la realtà. Passò davanti al tempio di Atena, afferrò per il tronco uno degli ulivi che decoravano la via e lo sradicò dalla terra, gettandolo contro le colonne frontali. Agì d’impulso, adirato anche con la Pallade per ciò che era accaduto. Poi si voltò, frantumò con un calcio uno dei vasi di fiori adagiati ai lati del sentiero e fece per andarsene, quando una voce di Dea furiosa scoppiò alle sue spalle.
«Buzzurro maledetto! Smettila subito!» Atena uscì dal tempio e si fermò sui gradini, gli occhi cerulei che splendevano come specchi colpiti dal sole, l’elmo di bronzo in bilico sulla fronte, la dory stretta nel pugno. Era furibonda per l’attacco che stava subendo e i luccicanti abiti da guerra la facevano apparire più minacciosa che mai.
Il Dio la guardò, stupito dalla sua apparizione. Aveva pensato che fosse già discesa sulla Terra per combattere accanto all’esercito di Agamennone, ma nel vederla in tenuta da battaglia, così bella, pulita e lucente, capì di averla incrociata per un soffio prima del suo ritorno a Troia. Le andò incontro, rosso di rabbia, e lei fece lo stesso, lanciandosi giù dai gradini. Nessuno dei due sapeva cosa stava accadendo, ma entrambi sentivano la necessità impellente di far valere le proprie ragioni.
«Eccola qua, la puttana!» gridò Ares fermandosi davanti alla Dea. Non la sfiorò con un dito, come se tra loro fosse sorta un’invisibile barriera, e incombette su di lei coprendola d’ombra.
«Che ti salta in mente? Qui non siamo a Troia!» Atena picchiò l’estremità inferiore della dory contro il lastricato di pietra, il rumore causato dal colpo si propagò come un tuono soverchiando per un istante la sua voce. Sentiva le dita pizzicare dalla voglia di spaccare il naso al fratello; un impulso che stava mettendo a dura prova la sua capacità di autocontrollo. «Ci sono delle regole da rispettare, razza di barbaro incivile! Non puoi devastarmi la casa solo perché gli uomini di Ettore stanno perdendo!» 
«Che cazzo me ne frega di Ettore!» rispose Ares dando in escandescenze. «Credi sia una questione di guerra? Di schieramenti?»
«Certo che sì!» rispose Atena, sempre più innervosita. «Nessun altro Dio caro ai Troiani sarebbe così arrogante e pazzo da attaccarmi sull’Olimpo, a parte te!»
«Troia non c’entra nulla! Sei tu il problema!»
«Di che stai parlando?»
«Di’ la verità! Ti è piaciuto farti sborrare addosso da Efesto!»
Un lampo di sgomento sincero attraversò il viso di Atena. Era consapevole del fatto che i familiari stessero ridendo di lei – chi più, chi meno – per lo scherzo di cui era caduta vittima insieme al fabbro, ma fino a quel momento nessuno aveva osato parlarle apertamente della vicenda, e men che meno lo aveva fatto scegliendo termini così brutali. Ma Ares non era là per deriderla. Non c’era alcun sorriso tronfio sulla sua faccia, neanche un misero accenno di soddisfazione. E che dire dello sfacelo che aveva fatto davanti al tempio? Un gesto frutto di una rabbia prorompente al quale Atena, ora, non riusciva più a dare un significato.
«Non voglio parlare di ciò che è accaduto» disse la Dea sforzandosi di non abbassare lo sguardo e di tenerlo fisso su quello del tracio. Non aveva alcun controllo sulla vergogna che le stava colorando le guance, ma sugli occhi sì, quelli poteva e doveva tenerli ben alti. «Voglio sapere perché hai sradicato uno dei miei ulivi e distrutto uno dei miei vasi.»
Ares gettò un’occhiata all’albero che giaceva oltre alle spalle di Atena, schiantato contro alle colonne, e a poco a poco si calmò, sprofondando in un fastidioso imbarazzo. Che stava facendo? In che razza di trappola senza via d’uscita si era andato a cacciare?
Guardò di nuovo la Dea e, per un momento, gli sembrò di tornare indietro nel tempo, a quando da ragazzino pendeva dalle sue labbra e sognava di diventare un guerriero forte e meraviglioso come lei. L’aveva ammirata in silenzio per anni. Numerose erano state le volte in cui, durante l’adolescenza, si era sfogato in solitudine immaginandola nuda e innumerevoli quelle in cui, da adulto, aveva raggiunto rapidi orgasmi sognando di violarla, di castigarla, di punirla per la sua spocchia costringendola ad apprezzare un’arte volgare in cui lui, e non lei, era maestro indiscusso. La odiava e la invidiava perché era la figlia favorita di Zeus; perché era intelligente e amata dai mortali; perché vinceva in un solo mese più battaglie di quante riuscisse a vincerne lui in un anno intero. La odiava perché la desiderava e non riusciva a smettere di desiderarla, pur sapendo che i loro corpi – a differenza delle armi – non si sarebbero mai sfiorati. E a quella particolare frustrazione si era abituato, l’aveva fatta sua rassegnandosi all’idea che dalla Dea non avrebbe avuto mai nulla, a parte freddezza e disprezzo. Ma ora non riusciva più a rassegnarsi e a farsi bastare l’odio, perché Efesto aveva condiviso un’esperienza unica e intima con lei, e lui, che l’odiava e l’amava da centinaia di anni, era rimasto a bocca asciutta, solo con la propria inconfessabile gelosia e la sensazione d’aver perduto per sempre qualcosa d’importante.
Atena, che riusciva a leggere dentro al guerriero più di quanto lui immaginasse, provò disagio nel vederlo così turbato. Sguardi particolari al suo corpo – scoccati quand’era sicuro di non essere visto o quand’era semplicemente sovrappensiero – l’avevano indotta a sospettare che fosse ancora infatuato di lei, come lo era stato da ragazzino e forse addirittura di più, ma quel pensiero le era sempre sembrato troppo inverosimile e ridicolo da meritare un approfondimento. Alla luce dei nuovi fatti, però, la Pallade sentiva di non avere più alcun dubbio a riguardo, ma solo una sconvolgente certezza che non sapeva come gestire.
Alzò con eleganza il braccio. La fida civetta scese rapida dal cielo e si posò sulla sua mano.
«Non ho tempo per le tue sciocchezze, devo tornare a Troia» disse con fretta e imbarazzo evidenti. Quindi superò il tracio e si allontanò. 
Ares la seguì con lo sguardo finché la vide sparire tra i templi, poi si fissò la mano: le nocche erano lucide d’icore e sporche della fuliggine che copriva il muro della fucina di Efesto; quella stessa fuliggine che doveva aver lordato le pallide cosce di Atena, mentre il fabbro la stringeva e palpava con dita nere, arrapato come una bestia in calore.
Il Signore degli Opliti ringhiò e sferrò uno, due, tre pugni all’aria. Poi si allontanò a grandi falcate. Aveva bisogno di combattere e uccidere, e ne aveva bisogno ora. 


Sotto alle mura di Troia, i soldati di Agamennone e quelli di Ettore si schiantavano gli uni contro gli altri in una mischia feroce tutta polvere e grida. Ovunque risuonava il rumore metallico delle spade, fasci di lance dalle punte di bronzo fendevano l’aria conficcandosi negli scudi avversari con boati tremendi. L’aria odorava di terra, sudore e sangue. I feriti cadevano in ginocchio, rotolavano sulla schiena, si contorcevano in preda al dolore, mentre i compagni calavano le armi sui nemici, che subito alzavano gli scudi per proteggersi.
Vestiti di armi e luce, gli Dei celesti combattevano in sostegno dei loro eroi prediletti falciando quanti più avversari possibili. Dalle mura della città, Apollo e Artemide scoccavano frecce letali che colpivano gli opliti di Agamennone al volto, alle gambe, al cuore, concedendo ai Troiani spazio per avanzare. Al centro della piana, nella tempesta di spade, Atena guerreggiava coprendo le spalle al prode Diomede, mentre più avanti Ares trapassava con la dory i soldati achei da parte a parte, li sollevava in aria ruggendo e li scaraventava dietro di sé. La sua bronzea armatura – una corazza di manifattura divina la cui forma riproduceva i muscoli del torace – riluceva come oro battuto, il pennacchio nero si scuoteva al ritmo delle uccisioni forsennate. Non indossava lo scudo: in una mano reggeva la lancia, nell’altra la spada, e le alternava senza alcun criterio, ricevendo a ogni attacco schizzi di sangue sull’elmo calato in protezione del volto. Gli uomini non riuscivano a schivarlo né a contrattaccare. La sua lama penetrava nella carne fino all’elsa, il duro legno della dory correva dentro di loro sfondando ogni organo, tendine, osso. Nessuno crollava al suolo ferito. Il Dio barbaro massacrava ogni nemico di Troia con furia assassina, e lo scaraventava nell’Ade prima che le sue membra toccassero terra e l’armatura risuonasse sopra di lui.
Atena s’accorse che il fratello era più brutale del solito e la cosa la preoccupò: la sua ira stava avvantaggiando i Troiani. Per recuperare terreno, infuse nel cuore di Diomede vigore e coraggio, donò divina lucentezza alla sua corazza, all’elmo e allo scudo che ora, più che di metallo, sembravano fatti di fiamma. Voleva che il guerriero apparisse invincibile agli occhi dei compagni, che si ricoprisse d’onore e conducesse l’esercito acheo alla vittoria.
Rinvigorito nell’animo e ripulito d’ogni stanchezza, Diomede sterminò decine di Troiani trascinando dietro di sé gli uomini di Agamennone, ma s’arrestò quando vide due soldati di Ettore – in piedi su un carro trainato da destrieri neri – puntare dritti verso di lui, le lance sollevate e pronte a colpirlo. Si chiamavano Fegeo e Ideo ed erano figli di Darete, sacerdote devoto a Efesto; due Troiani valorosi in cerca di gloria che, lanciati a tutta velocità contro il re di Argo, per un momento mozzarono il fiato ad Atena.
Fegeo attaccò per primo, la sua lancia sfrecciò sopra alla spalla sinistra di Diomede, mancandola. L’argivo non mostrò alcun timore. Tese i muscoli, scagliò la dory e trafisse l’avversario al cuore, buttandolo giù dal carro. Terrorizzato dalla morte del fratello, Ideo saltò a terra e tentò di fuggire, mentre l’acheo, impetuoso come un torrente in piena, recuperava l’asta dal cadavere e si preparava ad attaccare di nuovo. Atena assistette alla scena con sguardo orgoglioso, guidando a distanza la mano dell’eroe affinché non sbagliasse il colpo. Ares si girò verso i due e alzò la lancia per colpire Diomede, ora vicinissimo al troiano; l’odiato Diomede che godeva delle simpatie di Atena; l’odiato Diomede che nella mischia della battaglia gli sfuggiva sempre, rapido come un pesce. Ma prima che la dory volasse dalla mano del tracio, una figura lucente – che fino a quel momento aveva assistito agli scontri dalla vetta dell’Olimpo – piovve dal cielo interponendosi tra i due combattenti.
Era Efesto.
Mosso da compassione per il vecchio sacerdote a lui devoto, che in un solo giorno rischiava di trovarsi a piangere sui cadaveri di entrambi i figli, il fabbro cinse Ideo tra le braccia e lo avvolse in una nube d’ombra nera. Pur trovandosi a fronteggiare un Dio, Diomede non si fermò. Mirò alla testa del troiano e scagliò la lancia con tutta la forza che aveva in corpo, ma essa attraversò la tenebra a vuoto, diradandola come se un’enorme bocca vi avesse soffiato sopra. Il re emise un grido di frustrazione: il troiano era scomparso insieme al Dio. Volatilizzato. Non potendo fare altro, a parte incassare quella piccola sconfitta, Diomede recuperò la dory e si allontanò mescolandosi ai compagni.
Irritata come se qualcuno le avesse tolto il boccone di bocca, Atena picchiò la lancia a terra. Anche Ares si scosse tutto, in preda al nervoso, e imprecando calò l’arma. L’apparizione di Efesto lo aveva distratto e ormai colpire Diomede era impossibile: grazie alla luce che emanava, l’eroe era ben visibile sulla piana, ma adesso i soldati di Agamennone gli offrivano protezione mantenendosi ben stretti intorno alla sua figura. Scagliare la lancia così lontano gli avrebbe dato ben poca soddisfazione, perché a finire al cospetto di Caronte sarebbe stato l’ennesimo insignificante mortale o, nel migliore dei casi, due insignificanti mortali. Come al solito, doveva attendere un’altra occasione per squarciare la testa o infilzare gli intestini a quel maledetto sbruffone. Del resto, le circostanze non gli lasciavano altra scelta.
Ares sputò a terra e riprese a combattere, mentre intorno a lui i Troiani indietreggiavano, inciampavano, si accasciavano al suolo colpiti a morte dagli Achei. L’impresa di Diomede e il modo in cui, per volere divino, scintillava dalla testa ai piedi avevano sollevato l’animo dei soldati di Agamennone e annientato quello degli uomini di Ettore, che ora faticavano a tenere le file serrate.
Sentendosi d’un tratto solo nella battaglia, Ares guardò Apollo e Artemide che sopra alle mura si affaccendavano incoccando e scoccando una freccia dopo l’altra, le bocche tese in smorfie di sforzo. I loro colpi, pur uccidendo con precisione, non riuscivano ad arrestare l’avanzata achea, perché i Troiani si muovevano qua e là in preda al panico offrendo ai nemici terreno prezioso.
Merda!
Continuando a battersi e a lordarsi di sangue, il tracio sacrificò parte delle proprie energie per guidare le armi dei soldati di Ettore. Le punte di bronzo delle lance, forgiate e lucidate dai fabbri troiani, fracassarono decine di corazze avversarie. Le spade tagliarono le gole versando sui corpi e sulla terra scrosci di sangue fresco. Sostenuti nell’animo dal Dio della Guerra Truce, i sudditi di Priamo si ricompattarono e ripresero ad avanzare, sforzandosi di tenere a bada il terrore che nutrivano per Diomede, l’eroe lucente che stava sterminando i loro compagni. La battaglia poteva offrire ancora molto e Ares fece del suo meglio per farla proseguire, ma non per amore dei Troiani, quanto per mera necessità personale. Aveva bisogno di sbudellare, sgozzare, ammazzare. Aveva bisogno di scaricare la frustrazione accumulata a causa di Efesto – quel mentecatto che aveva pure osato presentarsi a Troia, mandando all’aria il suo tentativo di uccidere Diomede – e soprattutto aveva bisogno di dimostrare ai familiari il proprio valore. In particolar modo ad Atena.
La Pallade lo guardò, ferma in mezzo alla mischia, e si sorprese nel vedere con quanta destrezza stesse ricompattando l’esercito troiano, massacrando al contempo gli uomini di Agamennone. Ancora qualche minuto e la battaglia sarebbe tornata al punto di partenza, e questo lei non poteva assolutamente permetterlo. S’incamminò dritta tra i soldati evitandoli senza difficoltà, mentre la guerra violenta scuoteva la terra, e presto raggiunse il fratello.
Ares pugnalò alla schiena un soldato acheo, si girò e trasalì nel trovarsi di fronte la Dea. I suoi occhi glauchi splendevano tra le feritoie dell’elmo come gocce di rugiada congelata; occhi bellissimi e terribili, fissi su di lui. Il guerriero avvertì l’impulso di alzare la spada per attaccare per primo, quand’ecco che Atena si sollevò l’elmo e lo spinse all’indietro, scoprendosi il viso. Allora, Ares capì che non era venuta a cercare uno scontro: la sua espressione era fredda, ma non ostile.
«È giunta l’ora di farci da parte» disse la Dea sfilando la lancia dalla mano del tracio senza alcuna difficoltà, e gettandola a terra insieme alla propria. «Questa sciocca guerra che ci stiamo facendo l’un l’altro sta rendendo collerico il nostro illustre padre. Lasciamo che Achei e Troiani si conquistino la vittoria con le proprie forze ed evitiamo la furia del Cronide. È la cosa più saggia da fare.»
Incredulo, Ares rimase fermo, mentre con dita sicure Atena gli toglieva di mano anche la spada e la lasciava cadere al suolo. Gonfiò il petto e aprì la bocca per protestare, per dire che le cose non erano affatto così semplici, che lui non poteva abbandonare i Troiani come lei non poteva abbandonare gli Achei, ma tutto il suo impeto si sciolse in un mare di dolce sorpresa appena Atena lo prese per mano.
Era da secoli che lui e la Dea non si toccavano, se non attraverso le armi.
«Vieni. Andiamo a riposarci un po’…» disse la Pallade, evitando per pudore lo sguardo del guerriero mentre con delicatezza lo tirava per il braccio, guidandolo fuori dalla mischia.
Ares si lasciò condurre, docile come un agnello, le orecchie che ora non sentivano più alcun suono a parte il soffice rumore dei passi di Atena, dell’armatura che scricchiolava sopra alla sua veste, del lino candido che rimbalzava sulle caviglie. La realtà che lo circondava sembrò rallentare la sua corsa. I soldati che si ammazzavano l’un l’altro si fecero sempre più lontani ed evanescenti, come spettri di un sogno ormai sgretolato. Le spade brillanti, gli scudi sporchi di terra, gli elmi schizzati di sangue, le lance che volavano e si conficcavano nelle corazze… Niente, in quella dimensione ovattata e rallentata, riuscì a conquistare l’attenzione del tracio: i suoi occhi erano pieni del bel viso di Atena e, in essi, non c’era posto per null’altro.
Stupefatti, Apollo e Artemide gridarono il nome del fratello dalle mura di Troia, continuando a scoccare frecce contro gli uomini di Agamennone. Sapevano che l’assenza di Ares sarebbe costata cara ai Troiani. Ma lui non li udì. Intravide a malapena, con la coda dell’occhio, l’aurea figura di Diomede che ora stava rilanciando i compagni contro l’esercito di Ettore, spingendolo di nuovo a indietreggiare.
Atena lo aveva preso per mano.
Tutto il resto del mondo poteva aspettare.


Scesero lungo la piana fino a raggiungere le rive dello Scamandro. Un tappeto di erba fitta e fiori selvatici ricopriva la terra, che ora odorava di fresco e non di sangue rappreso. Alberi solitari si ergevano a un cubito dall’acqua specchiandosi sulla sua liquida superficie. Il fiume scorreva pigramente con un rilassante sciacquio, il fragore della guerra risuonava distante come un sottofondo che non merita considerazione. Non c’era nessuno, in quella verde e silenziosa striscia di terra ai piedi di Troia, a parte i due figli di Zeus e qualche libellula sopra il pelo dell’acqua.
Ferma sulla sponda, Atena si girò verso Ares e gli sfilò l’elmo. Il tracio la lasciò fare, l’espressione rapita, il cuore che batteva forte sotto alla corazza, l’aria fresca che ora gli soffiava sul viso sudato insieme al profumo della Dea; odore di oli floreali da bagno e bronzo scaldato dal sole.
Atena lasciò cadere l’elmo a terra, riprese il guerriero per mano e lo tirò giù, sedendosi insieme a lui sull’erba. Poi, piegò le gambe e si abbracciò le ginocchia, lo sguardo rivolto allo Scamandro che indolente serpeggiava verso ovest, allungandosi in direzione del mare.
«Sei migliorato» disse.
Ares ebbe come un fremito: non poteva credere a ciò che aveva appena udito.  «Mi stai facendo un complimento? Tu?» domandò.  
 «Non è un complimento, bensì un dato di fatto» rispose Atena, senza scomporsi. «Rispetto a un tempo sei diventato più forte e veloce. O forse combatti meglio quando sei adirato. Chissà.»
«Oggi è una giornata di merda.» Ares strappò un ciuffo d’erba e lo scagliò di fronte a sé. «Quello stronzo d’uno storpio sta facendo il possibile per rompermi i coglioni. È evidente che stamattina non l’ho spaventato abbastanza!»
«Che significa?» La Dea si voltò a guardare il tracio, stupita. «Cosa hai fatto stamattina?»
«Gli ho sfasciato un po’ di cose.» Lui scrollò le spalle con fare menefreghista. «Se lo meritava.»
«Per ciò che mi ha fatto?»
«Certo!» Le iridi di Ares si accesero. «Quel merdoso ti ha sborrato addosso! Che avrei dovuto fare? Ridere della sua impresa come stavano ridendo tutti?»
«Non ho bisogno di essere difesa da te» disse Atena, alzando il mento con atteggiamento superiore. «Hai forse dimenticato chi sono?»
«E tu hai dimenticato chi sono io?» la incalzò lui fissandole ora gli occhi, ora le labbra. «Poco fa mi hai preso per mano. Tu, che mi detesti.»
«L’ho fatto per salvarti da te stesso.» La Dea arrossì lievemente e tornò a guardare il fiume, le braccia incrociate sopra alle ginocchia. «Sei così preso dalla guerra che non ti rendi conto di ciò a cui tutti rischiamo di andare incontro. Nostro padre è furibondo per il modo in cui la famiglia è divisa tra Achei e Troiani.»
«Se volevi salvarmi significa che ti sto a cuore. E io non credo che sia così.»
«Non dire sciocchezze.» Atena si rigirò. «Sei pur sempre mio fratello.»
«Questo non significa nulla.»
La Dea afferrò il guerriero per il bicipite, forte. Un contatto che scatenò ad Ares un brivido su tutto il corpo. «Non dire sciocchezze» ripeté. «E smettila di essere geloso di me. Ti ricordo che anche tu mi detesti.»
«Avrei voluto essere stato io…» mormorò Ares contemplando la rosea bocca della Pallade in uno stato di erotica fascinazione.
Lei aggrottò le sopracciglia, confusa da quelle parole.
«…a sborrarti addosso…»
Atena ritirò la mano di scatto, come se una vipera avesse tentato di morsicarla. «Fai schifo!» esclamò indignata. «Fate tutti schifo voi maschi!»
Ares rimase fermo per un istante, come non riuscisse a realizzare di aver davvero trasformato quel pensiero segreto in voce. Arrossì violentemente e guardò altrove, la mano che ora scuoteva i capelli agitata dal disagio, il torace che sembrava bruciare sotto all’armatura. Si schiarì la gola e, oltre alle ciocche di capelli che ora gli cadevano sulla fronte, lanciò uno sguardo furtivo alla Dea. Ormai era fatta, non poteva tornare indietro. Ma nel vedere quanto i muscoli di lei si fossero irrigiditi e il volto riempito d’un rossore grazioso, il guerriero smise di sentirsi in imbarazzo e cominciò a sentirsi incredibilmente forte. Nata dalla testa di Zeus, Atena era incapace per natura di gestire qualsiasi genere di dinamica sessuale e l’attrazione erotica che lui nutriva nei suoi confronti la metteva in grande difficoltà, e questo a lui piaceva perché gli permetteva di dominarla, di schiacciarla sotto di sé in una condizione di evidente inferiorità, di sentirsi finalmente e completamente superiore a lei, almeno fuori dal campo di battaglia.
«È vero» disse, sorridendo con arroganza. «Ti odio, ma ti scoperei volentieri.»
Atena gli scagliò un’occhiata furiosa e scioccata insieme. «Se ti azzardi a toccarmi con un solo dito, giuro che ti faccio a pezzi con le mie stesse mani.»
«Sei tu quella che ama toccare.» Ares alzò un sopracciglio con fare malizioso. «Ti sarebbe bastato chiamarmi per nome, ma hai scelto di prendermi per mano.»
«Smettila con queste stupidaggini, stai diventando noioso» sbuffò Atena, poi schiaffò il palmo della mano sulla corazza del guerriero e lo spinse giù, nervosa come un padrone che mette in castigo il cane.
Ares la lasciò fare anche questa volta e si trovò disteso sull’erba. Afferrò la mano della Dea un attimo prima che lei la ritirasse e col pollice le accarezzò le nocche, piano. Atena lo guardò infastidita ed era già pronta a strattonare il braccio all’indietro, quando lui la lasciò andare.
«Ogni volta che mi guardi mi sento un ratto pulcioso.» Ares incrociò le braccia dietro alla nuca, lo sguardo serio, ora rivolto al cielo azzurro e senza nuvole. «Non mi guardavi così, quand’ero bambino.»
«Non eri così, quand’eri bambino» rispose Atena, lanciando un’occhiata alle proprie spalle: come aveva immaginato, Diomede e gli Achei stavano facendo strage dei Troiani, ora indeboliti dall’assenza del Dio sterminatore. Si concesse un minuscolo sorriso, poi tornò a fissare il fratello, seria. «Le cose cambiano.»
Ares la guardò, l’espressione malinconica, quasi supplice. «Dimmi ancora una volta che sono migliorato…»
Atena sentì la tensione sciogliersi, i muscoli farsi più leggeri: mai avrebbe creduto che il Signore del Massacro covasse nel cuore un simile bisogno di approvazione; della sua approvazione. E com’era accaduto a lui, quando poco prima di scendere a Troia l’aveva fronteggiata davanti al tempio, anche a lei sembrò di tornare indietro di secoli, agli anni in cui l’aveva tenuto affettuosamente sotto alla propria ala dandogli lezioni di strategia militare e combattimento affinché diventasse un Maestro della Guerra; anni che non avrebbe mai potuto dimenticare, qualsiasi cosa fosse accaduta tra loro.
Gli scostò i capelli dalla fronte, con le nocche scivolò sulla sua guancia ruvida.
«Sei migliorato» disse.
Il guerriero non sorrise: era rapito dalla bellezza della Dea, dalla lucentezza dei suoi occhi color ruscello, dal rossore di quelle labbra vergini di baci. «Ti voglio…» sussurrò.
Atena posò di nuovo la mano sulla sua corazza, impedendogli di alzarsi se mai avesse tentato di farlo. Quindi si chinò su di lui e gli baciò la fronte; un bacio leggero come un petalo. «Questo è tutto ciò che otterrai da me» disse categorica, guardandolo nelle pupille.
Ares emise un lungo e lento sospiro, come avesse finalmente trovato la pace dopo anni di tormenti. Sorrise, felice, eccitato, soddisfatto all’estremo: sapeva di essere il primo e unico Dio che la casta guerriera avesse mai baciato, e poco gli importava che le sue labbra gli avessero appena sfiorato la fronte. Al pari di Efesto, anche lui aveva ottenuto qualcosa di unico e intimo da lei; qualcosa che chiunque altro avrebbe considerato banale e inappagante, ma che per lui aveva un valore inesprimibile.
«Ne è valsa la pena…» mormorò ubriaco di desiderio.
«Che vuoi dire?»
«Lasciar morire tutti quei Troiani per venire con te in riva al fiume. Ne è valsa la pena.»
Atena fece una faccia stupita.
«Suvvia» disse lui, fingendosi offeso. «Non crederai davvero che io sia così stupido. So bene cosa sta accadendo in questo momento sotto alle mura, cosa sta facendo quello stronzo di Diomede, quanto sangue troiano sta inzuppando la terra. “Voglio salvarti dalla furia di nostro padre, Ares!”. Pensavi sul serio che mi sarei bevuto una simile puttanata?»
«Be’…»
«Mi hai portato qua solo per permettere agli Achei di sterminare gli uomini di Ettore.»
«È andata così, non posso negarlo. Ma tu, pur sapendo cosa stava accadendo ai Troiani, sei rimasto con me.»
«Era ciò che desideravo.»
«Non farti illusioni, Ares. Ciò che è accaduto oggi non cambierà le cose.» Atena guardò il Dio con occhi duri e brillanti come gemme grezze. «Non avrò alcuna pietà di te sul campo di battaglia.»
«Anch’io sarò impietoso. Ti spaccherò il culo e lo spaccherò anche a quel merdoso del tuo Diomede e a quell’altro merdoso di Agamennone. Non ho dimenticato che siamo in guerra, come non l’hai dimenticato tu, ma non pensiamoci ora…» Il Dio prese la mano della Pallade, se la posò sulla testa e chiuse gli occhi, le dita ora intrecciate alle sue. «Possiamo attendere ancora un po’, prima di tornare.»
Atena restò ferma per un momento, come indecisa sul da farsi. Si liberò dalla presa, rimase con la mano sospesa a mezz’aria e infine la posò tra i capelli del tracio, accarezzandoli piano. Esausto per la guerra e per le forti emozioni che l’avevano travolto quel giorno, Ares cadde in uno stato di rilassamento profondo e presto si addormentò. E pur avendo ottenuto ben più di ciò che desiderava, la Dea continuò a guardarlo e a passargli le dita tra i capelli, ritrovando sul suo volto ammorbidito dal sonno il bimbo che un tempo l’era stato tanto caro.
«Spero davvero che tu sia pronto» sussurrò, sfiorandogli un’ultima volta la guancia con le nocche. Infine si alzò e se ne andò.


16 commenti:

  1. Anche se non ho mai trovato l'attrazione di Ares e Atena così bella, questa storia mi ha fatto ricredere: scritta benissimo, da ogni riga si evince l'odio, la passione e l'entusiasmo. È così bello che non ho parole in bocca, complimenti vivissimi

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    1. Ti ringrazio tantissimo <3 Il tuo bel commento mi ha illuminato la giornata!

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  2. Il mio pairing preferito!! �� Sei stata meravigliosa! Sto leggendo anche le Baccanti, lo adoro!! ❤️

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    1. Anch'io amo Ares e Atena, sono molto interessanti come coppia "non convenzionale". Sono felice che "Le Baccanti" ti stia piacendo, ci ho messo molto cuore mentre lo scrivevo <3

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  3. c'è una seconda parte?
    è splendidoooooo

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  4. questa storia è una meraviglia , la relazione tra Ares e Atena mi piace moltissimo , per favore fai una parte 2

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  5. Complimenti, adoro leggere le tue storie. Sei bravissima, è facile immergersi e perdersi completamente nel racconto! Questo racconto mi è piaciuto in modo particolare, specialmente perché la coppia Ares e Atena mi affascina molto, per certi versi mi ricordano Cathrine e Heathcliff di Cime Tempestose. Soprattutto Ares con quella capacità di amare e di odiare a 360°, in modo selvaggio e violento. Mi sono emozionata mentre leggevo! Davvero bello, bello, bello!

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  6. Comunque Ares si dovrebbe calmare un po', dopotutto si fa la moglie di Efesto e nessuno parla, per un EQUIVOCO per una venuta sulla coscia manco dentro, lui si infuria....
    Chi capirà Ares sarà bravo

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  7. Ho scoperto I tuoi racconti da poco, trovo che scrivi con semplicità seppur con dovizia di particolari e sai creare un bel pathos durante la lettura, questo racconto è il mio preferito, già riletto 3 volte, spero farai altre pubblicazioni!

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    2. Grazie dei complimenti! :) Oltre ai racconti che trovi sul blog ho pubblicato anche due libri: "Storie di Dei" e "Le Baccanti". Se t'interessano, li trovi sui principali store online o li puoi ordinare in libreria!

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  8. Ho trovato molto interessante il modo creativo in cui il racconto ricontestualizza uno degli episodi più toccanti dell'Iliade. Sono felice che si torni a scrivere sui miti in modo vitale e non solo (con tutto il rispetto per Hillman e Carotenuto) psico-analitico: sono felice che gli Déi tornino a fare cultura anche grazie a lavori come questo; che tornino a generare passioni e modelli di valore; che tornino, insomma, a camminare in mezzo a noi. Grazie.

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  9. Bellissimo... spero che ci sarà un seguito, adoro Atena e Ares.
    Efesto e Poseidone sono da strozzare

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  10. Spero ci saranno nuovi racconti in futuro. Amo il suo modo di scrivere

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