martedì 9 luglio 2019

PAURA E TERRORE - (La nascita di Phobos e Deimos)




Afrodite capì subito di essere rimasta incinta, non appena aprì gli occhi e la luce del nuovo giorno le si distese sul viso. Ancora nuda per la notte d’amore trascorsa, si rigirò nel letto, allungò le braccia intorno al corpo di Ares e lo baciò sulla guancia. Il guerriero si svegliò, emise un mugolio e le rivolse la solita occhiata annebbiata, da bimbo morto di sonno, che le faceva puntualmente sciogliere il cuore. Afrodite lo baciò di nuovo, stavolta sull’angolo della bocca, e l’espressione buffa di lui si addolcì, trasformandosi in un tenero sorriso. Amavano svegliarsi insieme quasi quanto amavano abbandonarsi alle gioie del sesso, e quella luminosa mattina – mentre si scambiavano lunghi sguardi d’amore nell’intimità della dimora di lei, a Corinto – entrambi sentirono sbocciare nell’animo una gradevole certezza, una sensazione che ben conoscevano e che accoglievano sempre con piacere: quella che avevano di fronte sarebbe stata una bellissima giornata.
Si crogiolarono per un po’ tra le lenzuola, baciandosi e accarezzandosi, poi Ares si alzò controvoglia e si rivestì. Aveva una guerra in Messenia ad attenderlo e circa quattromila opliti, suoi seguaci, da condurre alla vittoria. S’infilò la corazza di bronzo, si piegò e si allacciò i sandali. Nuda e coi capelli sciolti, Afrodite si alzò a sua volta, gli prese la mano spingendolo a rialzarsi e se la posò sul ventre. Ares la guardò negli occhi e, benché fosse il meno perspicace tra i figli di Zeus, capì all’istante ciò che l’amata gli stava comunicando: a differenza delle mortali, che necessitavano di mesi prima di poter confermare una gravidanza, le Dee sentivano immediatamente se il loro grembo era stato seminato e, a riguardo, non sbagliavano mai.
Sorrise e le accarezzò la pancia con impacciata delicatezza.
«So a cosa stai pensando.» Afrodite sorrise a sua volta. «Ricorda che potrebbe anche essere una femmina.»
«Maschio o femmina che sia mi va bene, purché sia forte. Un figlio che possa condividere con me il furore della battaglia.»
«Mmh…» La Dea storse la bocca: l’idea di un figlio assetato di sangue, simile in tutto a suo padre, non le piaceva affatto. «Mi auguro, invece, che goda di un temperamento dolce e pacifico come il nostro Eros.»
«Hah!» Ares emise una risata sprezzante e si piegò di nuovo per legarsi gli schinieri. «Il tuo amore di madre ti rende cieca e ingenua. Eros è uno stronzetto tutt’altro che pacifico!»
«Sì che è pacifico!» sbuffò Afrodite, offesa. «E non parlare così del mio bambino!»
«So che lo adori.» Il guerriero la prese tra le braccia, divertito dal suo visino imbronciato. «Lo adoro anch’io, quel moccioso svolazzante, anche se in certi momenti gli spaccherei le ossa…»
«Sei cattivo!» Afrodite lo respinse per gioco e Ares, che una simile mossa se l’aspettava, l’afferrò per la mano, l’attirò a sé e la cinse di nuovo. «Eros è così buono con te e tu lo maltratti sempre! Meriteresti un figlio cattivo come te, che ti rompa la faccia! Ecco!»
«Un figlio in grado di rompermi la faccia è proprio quello che desidero.» Il tracio posò di nuovo la mano sul morbido ventre della Dea. «Chissà che questa non sia la volta buona…»
«Il Fato ti punirà per la tua crudeltà.» Afrodite affondò le dita tra i capelli di lui, offrendogli un gradevole massaggio al capo. «Sarà una femmina» aggiunse sorridendo. «Una bimba splendida e delicata come la sua mamma. La bimba più dolce di tutto l’Olimpo e di tutta l’Ellade.»
«Ugh…» Ares mimò una faccia disgustata. «Una creatura del genere non può nascere da me.»
«Io credo di sì.»
«Vedremo.» Il guerriero sciolse l’abbraccio, si legò il mantello alla spalla e afferrò l’elmo e la lancia. Era pronto ad andare. «Dammi ancora un bacio...»
Afrodite non se lo fece ripetere e unì le labbra a quelle del Signore dei Soldati. «Torna vincitore…» gli sussurrò sulla bocca.
«Così sarà.» Ares rubò alla Dea un ultimo e velocissimo bacio, poi indossò l’elmo e se ne andò.
Rimasta sola, Afrodite tornò a letto e si rotolò ancora per qualche minuto tra le lenzuola. Poi chiamò a sé le ancelle, ordinò loro di prepararle un bagno caldo e, non appena la vasca fu colma, vi s’immerse fino al collo. Intorno a lei, le serve si affaccendavano saltellando aggraziate per il bagno, come tortore nei pressi di una fontana: c’era chi spargeva sul pelo dell’acqua petali di mandorlo, chi versava olii profumati, chi reggeva asciugamani ancora tiepidi di sole, tuniche più azzurre del mare, sandali ingemmati e lucenti; e poi collane di conchiglie e coralli, orecchini di perle e smeraldi, cinture di cuoio dalle fibbie d’argento, brocche d’acqua fredda e acqua calda, anfore d’olio di nardo, lacci di seta marina per capelli, pettini d’oro, corone di fiori di gelsomino…
Preparare la Dea della Bellezza per il nuovo giorno era un compito lungo e minuzioso che le ancelle corinzie – fanciulle graziose e un po’ civettuole – svolgevano sempre con gran piacere.
Afrodite chiuse gli occhi, rilassata dai mille profumi che ora riempivano il bagno. Dondolò pigramente le braccia sott’acqua, increspandone la superficie, quindi si accarezzò la pancia con entrambe le mani. Gli impercettibili movimenti dell’acqua comunicavano col suo ventre fecondato, infondendole in corpo un’indescrivibile sensazione di benessere, di pace esistenziale. Sorrise e poggiò la testa all’indietro, sul bordo della vasca, mentre le sue aspettative sul futuro crescevano, supportate da quelli che erano i suoi ricordi passati.
Portare in grembo Eros era stata, per lei, un’esperienza meravigliosa. Di giorno in giorno aveva sentito crescere dentro di sé ogni genere di emozione positiva: amore, gioia, serenità, compassione. Il suo cuore, già dolce come il nettare che deliziava le gole degli Dei a ogni banchetto, durante la gravidanza si era intenerito e colmato di una strana forma di riconoscenza, perché il mondo era bello, gli Dei erano belli, persino i mortali erano belli, e per tutto ciò che la circondava si era sentita follemente grata. E ai suoi sorrisi stupendi, ai sospiri incantati, ai saluti entusiasti il mondo aveva sempre risposto, dilatando la propria bellezza. Al suo passaggio sulla battigia, il mare di Cipro si era tinto d’un blu brillante, come una sconfinata distesa di zaffiri che dalla spiaggia correva fino all’orizzonte. Le farfalle e le colombe – che al suo cospetto erano solite disegnare sinuose curve in aria – avevano cominciato a volteggiarle intorno alla vita, quasi desiderassero salutare la creatura che riposava nel suo ventre, e le loro ali le avevano più volte fatto il solletico. E i fiori erano sbocciati una seconda volta, malgrado avessero perso i petali e fossero prossimi alla morte, e chi si stava prendendo a male parole per le vie – uomini o donne che fossero – al suo passaggio aveva immediatamente perduto la voglia di litigare, e lei si era sentita felice e fortunata e orgogliosa, perché sapeva che stava per dare alla luce un bambino che avrebbe cambiato in meglio il mondo intero. Un bambino speciale, che avrebbe portato amore e passione e desiderio nei cuori di Dei e Uomini, più amore di quanto lei potesse donare loro nel corso della propria vita immortale. E tutto ciò che aveva pensato e sentito, riguardo a quel figlioletto di Ares, era accaduto, senza l’ombra di una delusione.
Sospirò, continuando ad accarezzarsi la pancia. Era certa che quella nuova gravidanza le avrebbe offerto le medesime gioie della gestazione precedente; che la creatura che si stava formando nel suo grembo le avrebbe donato la stessa ubriacatura d’amore, la stessa sensazione di pace cosmica, lo stesso irrealizzabile desiderio di poter fermare il tempo in modo da restare incinta per sempre, per godere giorno e notte di quella squisita ebbrezza esistenziale che Eros, raggomitolato nel suo utero, le aveva infuso nel corpo e nella mente.
Sarebbe stato tutto magnifico. Dopo ciò che aveva vissuto, per la Dea non poteva che essere così.
Ma mentre si godeva il calore dell’acqua e le delicate carezze delle ancelle – che ora le stavano lavando i capelli – nel suo ventre germogliava qualcosa che non avrebbe appagato affatto le sue enormi aspettative di madre. Qualcosa di spaventoso che, di lì a poco, l’avrebbe condotta sul baratro della pazzia.


L’orrore crebbe lentamente, ma in un certo modo anche rapidamente, come un cancro che non lascia alcuna speranza di sopravvivenza. Rispetto alle donne mortali, che dovevano attendere nove mesi prima di poter stringere tra le braccia la loro creatura, le Dee dell’Olimpo godevano di una gravidanza assai più breve, che di rado superava la settimana, e già dal secondo giorno Afrodite capì che le cose non stavano procedendo per il verso giusto; che nel suo grembo palpitava una strana e sgradevole energia, che nulla aveva a che vedere con la deliziosa aura divina di Eros. Un’energia malevola e nera che ci mise poco, molto poco ad ammazzare il suo sorriso.
Cominciò tutto con una sotterranea e inaspettata malinconia: la gioia della gestazione tardava ad arrivare, delle belle sensazioni, del calore e dell’entusiasmo non c’era ancora alcuna traccia, come se tutti quei sentimenti fossero rimasti incastrati chissà dove negli abissi del suo cuore, e malgrado la delusione lei li attese, affamata di felicità. Li attese contando i minuti e le ore, ignorando ogni presentimento, ogni brutto pensiero, mentre con le mani sul ventre passeggiava per i sentieri della Sacra Montagna cercando nella loro bellezza un po’ di sollievo.
Ma all’alba del terzo giorno, la malinconia che le schiacciava il petto si trasformò in inquietudine.
Il mondo degli Dei e dei mortali cominciò a sembrarle inospitale e caotico, come un territorio in cui non si era mai addentrata prima. Nonostante sopra la sua testa il cielo fosse blu e privo di nuvole, Afrodite avvertì un persistente presagio di tempesta, di catastrofe imminente e inevitabile che la spinse a cercare riparo nell’intimità dei templi olimpici, ma neppure tra le quattro mura, circondata dall’aroma d’incenso e fiori freschi, riuscì a liberarsi di quella sensazione. Anzi. La malsana inquietudine che le corrodeva l’animo crebbe e crebbe spingendola di nuovo fuori, lontano dall’Olimpo, fino alle bianche spiagge dell’Attica.
Era nata dalla spuma del mare e nel mare andò a cercare conforto, come una figlia impaurita che brama l’abbraccio materno.
Si sdraiò nuda sulla battigia e alzò lo sguardo al cielo, ora rosa per il tramonto. Il cuore le batteva forte, come avesse corso per migliaia e migliaia di cubiti. Attese il sonno e infine si addormentò, sprofondando in un oblio popolato d’incubi mostruosi e spietatamente nitidi; immagini di torture, creature deformi, spaccature senza fondo nella terra dalle quali salivano fumi nauseabondi e grida terrificanti di Dei spellati vivi, di Dee violentate e ustionate e sbranate, di bambini fatti a pezzi, di animali mutilati vivi. E quelle folli grida di dolore a un tratto esplosero nella sua bocca, squarciando la rete di sonno che la teneva prigioniera.
Si rizzò bruscamente, come se qualcuno l’avesse afferrata per il collo e tirata a sé, e si trovò seduta. Era senza fiato. Gemiti stremati le cadevano di bocca, simili ai rantoli di un moribondo. Non aveva mai avuto un incubo prima d’allora: i suoi sogni erano sempre stati luminosi come l’alba.
Si sfiorò la pancia e la scoprì velata di sudore freddo. Deglutì, pur non avendo saliva. Era stata la cosa nel suo ventre a inquinarle il sonno. Sapeva che era così, lo sentiva, era una verità tanto inconfutabile quanto insostenibile. Una verità mostruosa come l’incubo che si era lasciata alle spalle.
Attese che l’agitazione passasse e che il suo umore tornasse quello di prima, ma ciò non accadde e, nelle ore seguenti, l’inquietudine che albergava nel suo cuore crebbe a dismisura fino a marcire, come un frutto dimenticato in fondo a una cassa buia. E quel sentimento rancido, quell’irrequietezza della quale aveva ormai perduto il controllo, si trasformò in paura. Una paura mai provata prima, che dall’utero si fece strada in ogni fibra del suo corpo divino fino ad annebbiarle la mente. Allora il mondo che la circondava cambiò di nuovo aspetto, facendosi ai suoi occhi più minaccioso, come un’enorme arena popolata di belve fameliche pronte a sbranarla. I campi di fiori che un tempo l’allietavano, ora le incutevano timore perché sotto le corolle multicolore potevano celare serpenti velenosi, rocce acuminate, topi gonfi e putrefatti; e quel timore non aveva senso, non per la Dea dell’Amore che per sua natura chiamava a sé solo quanto di meglio Gea avesse da offrire, eppure ora Afrodite aveva paura. E i fiori stessi sembravano avere paura di lei, perché al suo cospetto si chiudevano e si accartocciavano a terra, quasi non volessero farsi sfiorare dal suo sguardo, e anche gli usignoli si nascondevano, le farfalle scomparivano tra le fronde, le colombe spiccavano il volo appena la vedevano arrivare, così rapide che sembrava fossero in pericolo di morte…
La sua vita, un tempo ricca di gioie, era sempre più simile a un incubo e da quell’incubo Afrodite tentò di fuggire e di trovare una spiegazione che non coinvolgesse la creatura che cresceva nel suo grembo.
Dopotutto era la madre di Eros: come poteva concepire un essere che emanasse tanta energia negativa?
Doveva esserci un’altra spiegazione, doveva esserci per forza!
Ma quando Afrodite vagava sopra le scogliere e guardava giù, al mare schiumoso, l’assaliva un senso di vuoto terrificante, una paura viscerale che la portava a stringersi nelle spalle e a voltarsi di scatto, per accertarsi che nessuno stesse per spingerla giù. E allora si sentiva stupida, perché una Dea dell’Olimpo non può morire né ha motivo di temere il trapasso, eppure questo era esattamente ciò che provava: la paura che tutta la sua esistenza stesse per concludersi per sempre, e che ciò potesse avvenire in qualsiasi momento e con indicibile dolore. 
Al tramontare del quarto giorno fece ritorno sull’Olimpo. Ormai quasi tutti sapevano della sua gravidanza e chi non lo sapeva se ne accorse appena la vide: il suo ventre si era fatto più tondo, i seni più voluminosi. Afrodite rispose a chi le rivolse gentilmente la parola, ignorò i commenti scherzosi che tiravano in ballo Efesto – che il padre del bimbo fosse Ares e non il fabbro era anch’essa cosa ben nota – e si diresse verso i giardini di Dioniso.
«Afrodite! Che bella sorpresa…» Stravaccato sopra mantelli di lana e pellicce di leopardo, il Dio del Vino l’accolse con un sorriso, e lo stesso fecero le baccanti e i satiri, sdraiati tutt’intorno sul prato. «Vuoi unirti alla festa?» domandò alzando la coppa d’oro che reggeva in mano.
«Voglio bere.» Afrodite si sollevò il peplo e si sedette sull’erba, fianco a fianco col Dio. «Ti prego, offrimi il tuo vino migliore.»
Dioniso la guardò e, nonostante fosse parecchio ubriaco, capì immediatamente che la cipriota non si sentiva bene. Il suo sguardo era fuggevole e triste, il respiro affannato, come stesse tentando di evitare una crisi di pianto. «Che succede, bellezza? Fuggi da tuo marito?» Le accarezzò la guancia con le nocche. «Non è così arrabbiato come credi. Anzi, a dire il vero penso non sia affatto arrabbiato…»
Afrodite si accovacciò tra le braccia del Dio, che subito l’accolse. «Per favore, tesoro, non mi va di parlarne…» singhiozzò, sempre più turbata. La notte era vicina e, al solo pensiero di dover affrontare un incubo orribile quanto quello della notte precedente, la povera Dea tremava dalla testa ai piedi. «Voglio solo ubriacarmi e non pensare più a nulla…»
Improvvisamente serio, Dioniso le accarezzò la testa. Avrebbe potuto approfittare della sua debolezza emotiva, ma il pensiero non lo sfiorò neppure per un istante. Pensò, invece, che per tutta la notte avrebbe fatto del suo meglio per rallegrarla, ordinando alle menadi di danzare e intonare canti briosi, mentre i satiri suonavano i cembali e i tamburi. «Se vuoi l’ebrezza, avrai l’ebrezza» le disse, offrendole la coppa che reggeva in mano. «E vedrai che presto ogni dolore sarà dimenticato.»
Afrodite non rispose e bevve fino all’ultima goccia, e subito una baccante le rimboccò la coppa. La Dea bevve ancora e ancora e presto le girò la testa, e la cosa nel suo grembo cominciò a protestare, e l’ubriachezza che innumerevoli volte le aveva acceso il desiderio iniziò a sembrarle pericolosa, uno stato d’animo che la rendeva debole e la lasciava senza alcuna difesa, a disposizione di qualsiasi malintenzionato s’annidasse nell’ombra; e i satiri le apparvero grotteschi e spaventosi, le menadi simili a terrificanti creature ibride, un po’ donne e un po’ piante, col sorriso inciso sulla faccia, e il rullo dei tamburi era assordante, le risate squillanti e cavernose e gracchianti, il puzzo di vino insostenibile come il puzzo che saliva dalle ferite della terra nel suo incubo; e a un certo punto Afrodite si alzò e il mondo intero le roteò attorno, e sentì che il cuore le si sarebbe spaccato in due perché batteva troppo, troppo forte, e chissà come era di nuovo stesa tra le braccia di Dioniso e il suo volto dall’espressione affettuosa era l’unica cosa bella in quel delirio rintronante, ed ecco che notò che le labbra di lui si stavano muovendo, che stavano sussurrando qualcosa,
(Va tutto bene)
ma le parole non riuscirono a raggiungerla, il suo corpo e la sua mente non le rispondevano più. E poi tutto si allontanò da lei e si spense come una fiammella priva di ossigeno, e il sonno le cadde addosso e la schiacciò, nero come una coltre di catrame. Ma nonostante l’ubriachezza e la stanchezza, la Dea sognò per tutta la notte scenari d’orrore, che la fecero tremare e ansimare e sudare. Sognò d’invecchiare e di morire, sognò di annaspare e di annegare nelle acque dell’Acheronte, sentì l’acqua nei polmoni e nel naso, la schiuma del fiume gorgogliarle in fondo alla gola. Sognò di avere il grembo occupato dal male, che tutt’uno con la sua carne e il suo sangue stava acquisendo forza, ma non era un solo essere, no.
Erano due.
Li sentì nel sogno, li vide nel sogno. Due piccoli feti raggomitolati in loro stessi, che non aspettavano altro che devastarle l’utero e uscire fuori, in quel mondo dove mai, due esseri così malevoli, sarebbero dovuti uscire. E Afrodite sognò di essere in travaglio e di non volerli espellere, sentì le fitte di dolore, vide la pancia muoversi e muoversi e muoversi, perché quelle creature stavano combattendo per vivere, tanto quanto lei stava combattendo per sopravvivere a loro, perché farli nascere significava morire di dolore e dissanguamento, e lei sarebbe morta, sarebbe stata la prima Dea a morire benché ciò fosse impossibile, e uno di quegli esseri cominciò a scivolarle fuori e una preghiera isterica s’inceppò nella sua bocca, no, no, no, e poi un grido di dolore e terrore e voglia di morire e…
Si svegliò.
Non sobbalzò né si tirò su di scatto. Semplicemente aprì gli occhi e prese un’ampia boccata d’aria, come se avesse trattenuto il fiato per tutta la notte. Si asciugò la fronte, madida di sudore, e gettò un’occhiata intorno. Non era più nei giardini di Dioniso, bensì nel proprio talamo nuziale. Una graziosa ancella, seduta accanto al letto, le diede il buongiorno e le offrì un bicchiere d’acqua, insistendo affinché lo bevesse. Afrodite obbedì e la giovane, soddisfatta, uscì dalla stanza. La Dea udì un lontano parlottio – al quale prestò poca attenzione – e qualche momento dopo vide Efesto zoppicare dentro la camera, stretto alla sua stampella.
«Ti prego…» sussurrò con voce sfinita, mentre un rigurgito amaro le risaliva per la gola, ricordandole le innumerevoli coppe di vino che aveva tracannato. «Lasciami sola. Non mi sento bene...»
Il fabbro si sedette sul bordo del letto. Aveva la testa bassa e un’espressione ambigua sul volto, l’espressione di chi vorrebbe apparire duro, ma fatica a celare il proprio affetto. «So che non ti senti bene. E so che sei incinta…»
Afrodite inspirò a fondo. Le faceva male la testa e il suo grembo, sempre più prominente, le mandava segnali inequivocabili: laggiù c’erano due bimbi. Ormai ne era sicura. «Che vuoi?» domandò, palpandosi la pancia nel tentativo di fermarne i movimenti ed evitando di proposito lo sguardo del marito. «Ti aspetti forse che mi scusi?»
«So che non lo farai. Non sono così stupido.» Efesto la fissò severamente, come volesse rimproverarla per il tono provocatorio che aveva usato. Poi il suo volto si ammorbidì. «Ricordi cos’è accaduto ieri notte?»
«Ho bevuto con Dioniso.» Afrodite sentì che avrebbe potuto ricordare di più, che avrebbe potuto riportare alla mente ogni dettaglio della festa e dell’incubo dal quale era appena sfuggita, ma prima di cedere alla tentazione di farlo scosse il capo. «Il resto non lo ricordo.»
«Dioniso ti ha portata qui. Ha detto che piangevi nel sonno, che sudavi e mormoravi cose senza senso.»
Afrodite rivolse al marito un’occhiata incredula.
«Ovviamente voleva portarti da Ares.» Efesto schioccò la lingua e roteò gli occhi, seccato. «Ma poi ha scoperto che il suo tempio era vuoto e così ti ha portata da me.»
«Non mi sono accorta di nulla.»
Efesto posò timidamente la mano sulla gamba della moglie, come temesse di vederla scappare se solo avesse osato toccarla troppo forte. «Cosa succede?» domandò. «Non ti ho mai vista così. Stai male per via del bambino?»
«Sì. E non è un solo bambino. Sono due.»
«Ah…» Il fabbro tacque per una manciata di secondi, stupito e contrariato da quella rivelazione. Poi si riprese. «E… quale sarebbe il problema? Credi forse che io possa non accettarli in casa mia o che-»
«Oh no, no. Non è questo.» Afrodite percepì una lontana tenerezza, che per qualche secondo alleggerì la sua pena. «Hai sempre trattato Eros con rispetto e so che faresti lo stesso con tutti i miei figli. Il problema non sei tu.» Si sfiorò la pancia con la punta delle dita: toccarla stava cominciando a farle ribrezzo. «Sono loro.»
Efesto la guardò confuso. «Cos’hanno che non va?»
«Non lo so.» Afrodite abbassò la testa. «So solo che vorrei non averli mai concepiti.»
Di fronte a quel commento, il fabbro rimase a bocca aperta. «Ciò che dici non ha senso» mormorò. «Sono figli tuoi, Afrodite. Saranno splendidi come Eros e forse anche di più.»
La Dea prese la tozza mano del marito e se la posò sulla pancia, facendolo quasi sussultare per lo stupore. «Non senti nulla?» domandò, guardandolo negli occhi. «Nessuna sensazione sgradevole?»
Efesto aggrottò le ispide sopracciglia e fece per rispondere che non avvertiva nulla, se non i delicati calcetti dei bambini, quando lo colse un brivido freddo che gli fece rizzare tutti i peli del corpo, e poi una sensazione di vuoto, di vento gelido sulla pelle, di roccia che si schiantava contro di lui ancora e ancora e ancora, e quel flusso di emozioni e visioni lo sommerse in pochi istanti, e allora capì che stava vivendo un ricordo antico, che fino a quel momento aveva ignorato di custodire nella memoria; e ora il suo presente era il suo passato, e lui era di nuovo un neonato innocente che la madre aveva scaraventato giù da una montagna, e la paura nel suo cuore crebbe e crebbe fino a fargli tremare le labbra, e benché fosse adulto si sentì fragile come non mai e per un istante, nella quiete della camera da letto, sentì le gambe fratturarsi una seconda volta, sbriciolarsi senza alcuna possibilità di recupero, e allora si vide a strisciare sui gomiti per i viottoli dell’Olimpo, deriso da tutti, schifato da tutti, e si sentì inutile e disgustoso e spaventato, perché la sua vita intera ora dipendeva dalle sue braccia e presto si sarebbero fratturate anche quelle, perché il suo corpo era destinato a essere storpio, la sua esistenza intera era segnata dalla miserabilità, era stato così fin dal primo giorno di vita, e lui non poteva lamentarsi, non poteva piangere né gridare, ma solo strisciare come lo storpio che era e attendere il momento in cui anche le sue braccia sarebbero collassate, ed Efesto lo vide, vide quel momento, vide il proprio crollo definitivo, la fine di tutto e…
Ritirò la mano di scatto.
Il volto pallido, gli occhi sgranati e fissi in quelli di Afrodite, come se lei gli avesse appena tirato uno schiaffo. Le aveva sfiorato la pancia per meno di tre secondi, ma tanto era bastato a riempirgli il petto di terrore, e nel vederlo così turbato la Dea sentì l’icore ghiacciarsi nelle vene. Era tutto reale, non se lo stava immaginando: quei bambini custodivano un potere demoniaco in grado di spezzare i nervi di qualsiasi creatura. 
Scoppiò a piangere, tremante come un pulcino.
«Afrodite…»
«Morirò!» singhiozzò la Dea, mentre il panico le esplodeva dentro come una nausea inarrestabile. «Morirò! Lo sento!»
«Non dire sciocchezze…» Efesto tentò di consolarla prendendola tra le braccia, ma lei si alzò dal letto e, barcollando, uscì dalla stanza. «Afrodite, aspetta…»
La Dea non si voltò e lasciò la casa del marito. Avvertiva il bisogno di andare via, di fuggire il più lontano possibile da tutto e tutti, benché sapesse di non poter scappare dai mostri che portava in grembo. Ormai il parto era vicino, questione di un paio di giorni. Sentiva quegli esseri calciare e pulsarle dentro, sempre più grossi, sempre più pericolosi. Lasciò l’Olimpo e vagò per l’Ellade, e ovunque andò vide la vita ritirarsi al suo passaggio, quasi avesse sviluppato verso di lei un’insostenibile allergia. Vide i caprioli rizzare il capo e fuggire tra i cespugli, le chiome degli alberi tendersi all’indietro, le ninfe dei fiumi e dei boschi avvicinarsi sorridenti a lei, e poi sbiancare, scuotere la testa, balbettare. E ovunque ebbe paura, ovunque si sentì in pericolo, perché il mondo era ora un luogo ostile, e al tramontare del quarto giorno avvertì il desiderio di correre in Messenia e tuffarsi tra le braccia di Ares, ma il Dio era impegnato in guerra – una guerra che, da quel poco che aveva udito Afrodite per bocca degli altri Olimpi, era sul punto di vincere – e al solo pensiero di mettere piede su quel campo zuppo di sangue, sul quale i due eserciti si stavano massacrando a vicenda, la Dea si sentiva svenire.
Aveva sempre detestato la guerra: il fracasso delle spade, le grida dei generali, gli spruzzi rossi che coloravano gli scudi e le corazze, i gemiti e le suppliche dei feriti, gli occhi spalancati dei cadaveri abbandonati a terra… Odiava la guerra tanto quanto amava il suo Signore, eppure a tenerla lontana dalla Messenia non fu il solito rigetto che provava per la violenza del conflitto fisico, bensì la paura; paura dei soldati, paura del sangue, paura della morte. E quel timore senza precedenti, che la faceva sentire smarrita e spaventosamente umana, era tutto suo, perché gli esseri nel suo grembo erano tutt’altro che intimiditi dalla guerra e, ogni volta che i suoi pensieri andavano allo scontro che stava tenendo impegnato Ares, questi scalciavano e saltavano e graffiavano l’interno dell’utero, come volessero squarciarlo e correre dal padre.
Stremata, Afrodite si ritirò in una grande grotta sulla costa della Laconia, sommersa per metà dall’acqua smeraldo del mare, e pianse fino a non avere più lacrime, fino a cedere, suo malgrado, al solito sonno malato e sporco di incubi che la notte le riempiva la testa. E in quel rifugio di roccia e mare – dal quale i pesci ora si tenevano alla larga, terrorizzati dalla sua presenza – Afrodite rimase per due giorni e due notti, sola e rannicchiata su se stessa, e per tutto il tempo pianse e pianse, mentre i figli le si contorcevano nella pancia come serpenti velenosi, e all’alba del settimo giorno si graffiò le guance e si strappò i capelli perché quegli esseri la stavano facendo impazzire, e allora maledisse Ares per averle contaminato il grembo col suo seme e imprecò contro se stessa, contro il Fato, contro chiunque, e più odiava, spinta dalla paura, più quelle creature la infondevano di nuovo terrore, e sarebbe rimasta in quel vortice perverso fino a perdere completamente la ragione, se solo non fosse accaduto ciò che sapeva sarebbe accaduto.
Il suo ventre cominciò a contrarsi.
Fitte di dolore le colpirono l’utero, facendosi via via più intense e colorandole il volto d’un pallore funereo. Si alzò in piedi, ansimando per il terrore, e uscì dalla grotta riaffacciandosi nella luce. Le girava la testa e le gambe le tremavano così tanto da far tintinnare le belle cavigliere di conchiglie. Fino a quel momento aveva pensato di partorire da sola, lontana da qualunque creatura vivente, perché si vergognava degli esseri che avrebbero lasciato il suo grembo e non voleva mostrarli al mondo. Ma la paura di soffrire e morire rovesciò ogni sua convinzione a riguardo, spingendola a ricercare l’affetto, la cura, la sicurezza.
Non poteva restare da sola, non ora.
Gridare e dissanguarsi in solitudine, in una grotta dimenticata da tutti, era un supplizio che non meritava, non lei, non la dolce Dea dell’Amore. Così lasciò la Laconia di gran fretta, stringendo tra le braccia la prominente pancia, e andò in cerca di Artemide.

 

La trovò presto. Le ninfe delle foreste e dei ruscelli – per quanto spaventate dall’aura che emanava – le dissero che la Dea della Caccia si trovava ad Amarynthos, nel santuario a lei consacrato e, quando Afrodite si precipitò nel tempio la notizia dell’imminente parto si era ormai diffusa in tutta l’Ellade. La venuta alla luce di un Dio Olimpico suscitava sempre la curiosità di Dei e mortali, ma se ad affacciarsi alla vita era un essere potenzialmente pericoloso il mondo tremava e tratteneva il fiato fino al momento di comprendere la reale portata dei suoi poteri. E che nel ventre della cipriota si celasse qualcosa di feroce era ormai una verità evidente agli occhi di chiunque, soprattutto a quelli di Artemide, che in quanto Protettrice delle Partorienti capì immediatamente, dall’espressione sconvolta di lei, che nulla di buono stava per uscire dal suo grembo.
«Afrodite!» La cacciatrice scattò in piedi e lo stesso fecero le sue seguaci, riempiendo la cella del tempio di gemiti di sorpresa e fruscii di tuniche. «Cosa…?»
«Artemide, ti prego!» Afrodite barcollò verso la Dea, che subito la sorresse, e all’improvviso sentì un fiume d’acqua scorrerle tra le gambe. S’irrigidì. «Aiutami! Sto male! Sto molto male!»
«Va tutto bene!» Artemide la fece sdraiare sul pavimento con decisione, le posò le mani sulla pancia e le ritirò bruscamente, come se il suo ventre l’avesse ustionata. Balbettò a vuoto, colta alla sprovvista dalle immagini orrifiche e le sensazioni d’incubo che l’erano appena esplose nella testa e nel cuore, quindi recuperò il controllo. Ordinò alle seguaci di portarle acqua e mantelle di lino, posò di nuovo le mani sul ventre della cipriota e stavolta fu più forte dei piccoli Dei che si agitavano al suo interno. «Va tutto bene» ripeté, allargandole le gambe. «Tra poco sarà tutto finito.»
«Loro non sono come Eros! Non sono come lui!» Afrodite gridò per il dolore e il suo urlo si sparse sotto la volta di Urano come un temporale di sole folgori, facendo girare e rabbrividire ogni Dio, ogni uomo e donna e bambino. Non conosceva quella sofferenza e non riusciva a sopportarla: il Dio dell’Amore era scivolato dal suo corpo con delicatezza, senza strapparle un solo ansimo di fastidio. Nulla a che vedere con l’orrore che stava vivendo in quel momento. «Sto morendo! Oh, Artemide! Ti prego! Non farmi soffrire!»
Col suo potere la Protettrice delle Partorienti s’impose sui due bimbi con severità, smorzando in parte l’energia malevola che tanto dolore stava causando alla Dea. Quindi afferrò le mantelle di lino, ordinò ad Afrodite di spingere forte e si preparò ad accogliere i neonati, sforzandosi d’ignorare i fiotti di sangue dorato che dal ventre della Dea si stavano riversando sul pavimento. E Afrodite spinse e gridò e pianse e gridò ancora, col corpo che ora le bruciava come una torcia, e a ogni spinta sentì il dolore crescere e la morte farsi più vicina, e tra i singulti urlò ad Artemide che stava soffrendo e che non ce la faceva più, ma Artemide sembrava non sentirla, nessuno sembrava curarsi della sua agonia – nonostante le cacciatrici le stessero sussurrando parole di conforto e le stringessero forte le mani – e Afrodite pensò che quella non poteva essere la realtà, la sua realtà, e gridò e ansimò e spinse con tutta la disperazione che aveva in corpo ed ecco che il pianto di un neonato echeggiò nel santuario.
La cipriota avvertì un leggero sollievo che subito venne schiacciato dal bisogno fisico di spingere ancora: il suo corpo non era ancora libero. Risucchiò aria con la bocca e contrasse tutti i muscoli del corpo, senza più la forza di gridare né di affondare i denti nel labbro, finché finalmente udì il secondo pianto. Allora la colse un piacere nuovo, un meraviglioso senso di liberazione: il suo corpo era di nuovo suo. Solamente suo.
Chiuse gli occhi e si abbandonò al rilassamento, mentre le seguaci di Artemide le passavano pezze umide sulla fronte sudata. Udiva le sue creature piangere chissà dove oltre ai suoi piedi – la figlia di Leto li stava sciacquando con l’acqua, aiutata dalle seguaci – ma non furono i loro strilli a riaprirle gli occhi, quanto un rumore di passi rapidi scanditi da schiocchi metallici: la camminata frettolosa e pesante di un soldato con indosso un’armatura.
Afrodite ruotò il capo e, nella nebbia dei suoi occhi stanchi, vide Ares inginocchiarsi al suo fianco. La sua corazza era spaccata e schizzata di sangue nemico, i capelli velati di fine terriccio, le guance accese per la fatica del combattimento. Il Dio aveva abbandonato il campo di battaglia in tutta fretta, appena aveva udito le sue grida di dolore salire al cielo, e ora la fissava con occhi terrorizzati: non l’aveva mai vista così malridotta ed esausta. E quella gigantesca pozza di sangue tra le sue gambe… Ares la fissò e si sentì sbiancare: le Dee non sanguinano mai così tanto durante il parto.
«A…res…» La cipriota gli prese la mano e gli sorrise sfinita. Lui ricambiò il sorriso e le baciò la mano, poi entrambi si voltarono verso Artemide, che tra le braccia reggeva due fagottini di lino dai quali salivano strilli spaccatimpani.
«Sono due maschi.» La cacciatrice s’inginocchiò accanto ad Afrodite, dalla parte opposta rispetto al tracio, e fece per posarle i piccoli sul seno. «Ecco, prendili.»
«No.» Afrodite s’irrigidì e si girò dalla parte opposta. «Non voglio vederli. S-sono malvagi.»
Artemide si bloccò e fissò i neonati. Emanavano ancora un’energia sgradevole, che andava a sradicare paure profonde e sconosciute in chiunque stesse loro vicino, ma più passava il tempo, più quell’aura le sembrava sopportabile. Alzò gli occhi su Ares, indecisa sul da farsi, e subito il guerriero si fece avanti e prese i figli tra le braccia, e in quell’esatto momento il loro pianto disperato cessò, come se sul petto corazzato del padre avessero trovato qualcosa a loro affine.
«Non sono belli né amabili.» La cacciatrice offrì ad Afrodite una coppa colma d’ambrosia fresca e la invitò a berla. «Non sono ciò che desideravi ma, che ti piaccia o meno, sono figli tuoi e in qualche modo imparerai ad amarli. Vedrai.» Artemide accarezzò la guancia della Dea, si rialzò e insieme alle sue cacciatrici si fece da parte, lasciando ai due amanti lo spazio e l’intimità necessari per parlare.
Afrodite si mise seduta, bevve tutta l’ambrosia e si sentì un po’ meglio. Guardò Ares. Tra i fagottini di lino che stringeva al petto vide agitarsi piedini e manine d’infante, e notò che non erano rosei, ma grigiastri. Un colorito malsano, come malsana era l’aura che emanavano. Eppure Ares sorrideva, mentre guardava dentro quelle stoffe, come celassero i bimbi più graziosi del mondo. La Dea si sentì rassicurare dalla sua espressione e improvvisamente avvertì un senso di vuoto interiore che le fece desiderare di stringere a sé quei piccini e di attaccarli al seno per allattarli. E come se le avessero letto nella mente, quelli incominciarono ad agitarsi, mugolare, stringere i pugnetti.
La Dea allungò le braccia e si fece consegnare entrambi i figlioletti. Ignorò la paura, il batticuore, l’ansia che le stringeva lo stomaco, e li guardò. Loro la guardarono di rimando e, occhi negli occhi col sangue del suo sangue, Afrodite sentì un’inaspettata commozione scaldarle le guance.
I gemellini erano orrifici nell’aspetto, ma non quanto aveva immaginato.
La loro pelle era grigia, le bocche già dotate di minuscoli denti aguzzi. Quello alla sua sinistra aveva i capelli rossi come la ruggine, l’altro d’un biondo quasi accecante. Le loro iridi splendevano come oboli d’oro, i loro sguardi erano inchiodati su di lei e ardevano come quelli dei leoni pronti ad attaccare. Il piccolo coi capelli biondi, in particolare, aveva occhi così lucenti e penetranti che la Dea quasi non riusciva a sostenerne il peso. Ma per quanto inquietanti fossero d’aspetto, Afrodite li accettò e posò la guancia ora su una testolina, ora sull’altra, respirando il profumo di neonato che saliva dai fagotti. I piccoli sembrarono interdetti da quei gesti d’affetto, come non riuscissero a coglierne il significato, ma poco dopo allungarono le manine verso il suo viso.
«Phobos e Deimos.» Inginocchiato accanto all’amata, Ares indicò con un cenno del capo prima il bimbo rosso, poi quello biondo. «Voglio chiamarli così.»
Afrodite non rispose. Raccolse tutto il suo coraggio e avvicinò i figli al seno, pronta a ricevere i loro dentini aguzzi nella carne. Ma i piccoli, per quanto famelici, si attaccarono ai suoi capezzoli senza farle male e, con le dita affondate nella morbidezza del suo seno, cominciarono a succhiarle il latte. La Dea li lasciò fare e, per la prima volta nella sua vita, si sentì usata. Quei piccoli si stavano nutrendo con insana fretta, come se da un momento all’altro dovessero staccarsi da lei e correre via, a compiere chissà quali atrocità in chissà quale parte dell’Ellade. A dirla tutta, un simile scenario non sarebbe stato affatto improbabile: appena nata, Artemide aveva aiutato sua madre a partorire Apollo, e che dire di Hermes, che in meno d’un giorno di vita aveva inventato la lira e rubato al Dio del Sole il suo prezioso bestiame? Se spinti dalla necessità o dal mero desiderio, gli Dei non perdono mai tempo, e così fecero Phobos e Deimos.
Sazi di latte rifiutarono il seno della madre, tesero le braccine verso il padre e cominciarono a emanare ringhi di frustrazione. A loro, ormai, quel caldo corpo di Dea non serviva più e volevano allontanarsene.
«Portali con te.» Afrodite allungò i figli ad Ares, che li riprese in braccio. «Io non ho nulla da offrire loro.»
Il guerriero aggrottò la fronte, stupito. «Non vuoi crescerli con Eros?» domandò.
«Guardali. Non è di me che hanno bisogno.»
Ares notò che i figli si erano aggrappati al suo mantello e che, agitati com’erano, stavano tentando di arrampicarsi sopra le sue spalle. Per un momento, Deimos riuscì addirittura a stringergli il pennacchio di crine nero e, per poco, non gli strappò l’elmo dal capo. Ares li ricacciò giù, li strinse più forte tra le braccia e sorrise. «Saranno il mio orgoglio più grande» disse.
Afrodite fece per rialzarsi e Artemide e le cacciatrici l’aiutarono, sincerandosi delle sue condizioni. «Sto bene» disse più volte, tranquillizzando le vergini. I dolori del parto erano ormai svaniti, la fiacchezza quasi del tutto scomparsa. Accarezzò e baciò le testoline dei figlioletti un’ultima volta, ma questi non si girarono neppure a guardarla. «Portali con te» ripeté ad Ares con un sospiro malinconico. «Io li amerò da lontano.»
Il guerriero la baciò sulla bocca, si voltò e s’incamminò verso l’uscita del tempio. Afrodite lo seguì con lo sguardo ed era ormai giunto sulla soglia, quando Phobos e Deimos si voltarono a guardarla. Un’occhiata veloce e un po’ smarrita lanciata oltre le larghe spalle del padre, che alla Dea donò un minuscolo sorriso. Infine i piccoli ripresero ciò che stavano facendo – tentare di sfilare l’elmo dalla testa del guerriero – e tutti e tre uscirono dal tempio, scomparendo nella luce del mattino.
Sì, pensò Afrodite, mentre il suo fragile sorriso si faceva un po’ più sicuro. Io li amerò da lontano.


12 commenti:

  1. Che angoscia... Ma é molto bello. Fatto veramente bene!

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  2. Sei davvero in grado di fare entrare il lettore all'interno dei tuoi racconti, le dettagliatissime descrizioni delle sensazioni e delle emotività dei personaggi rendono davvero semplice l'immedesimazione! Complimenti davvero per le tue capacità, credo di essere diventata una tua avida lettrice 🙋

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  3. Ma avrei una domanda. Ho comprato il tuo libro e non lo ho ancora finito. Potresti dirmi se questo racconto ne è all'interno?

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    1. Ciao Giada, se ti riferisci a "Storie di Dei" no, non contiene racconti già pubblicati qua sul blog, ma solo racconti inediti.

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  4. estuve a punto de llorar, que hermosa historia.

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  5. Questo è stato un po 'deprimente. Spero di poter vedere un po 'di arte su di lei associata ai suoi figli, dichiarati a Theoi, anche loro vivevano sull'Olimpo. Odio che li vedesse come mostri. Mi sento così male per tutti gli dei oscuri. Non possono fare a meno di come stanno ...

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  6. Isso foi um pouco doloroso! Eu senti a deusa quase enfraquecer e a dor do parto dela! 😔

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