Afrodite capì subito di essere
rimasta incinta, non appena aprì gli occhi e la luce del nuovo giorno le si
distese sul viso. Ancora nuda per la notte d’amore trascorsa, si rigirò nel
letto, allungò le braccia intorno al corpo di Ares e lo baciò sulla guancia. Il
guerriero si svegliò, emise un mugolio e le rivolse la solita occhiata
annebbiata, da bimbo morto di sonno, che le faceva puntualmente sciogliere il
cuore. Afrodite lo baciò di nuovo, stavolta sull’angolo della bocca, e
l’espressione buffa di lui si addolcì, trasformandosi in un tenero sorriso.
Amavano svegliarsi insieme quasi quanto amavano abbandonarsi alle gioie del
sesso, e quella luminosa mattina – mentre si scambiavano lunghi sguardi d’amore
nell’intimità della dimora di lei, a Corinto – entrambi sentirono sbocciare
nell’animo una gradevole certezza, una sensazione che ben conoscevano e che
accoglievano sempre con piacere: quella che avevano di fronte sarebbe stata una
bellissima giornata.
Si crogiolarono per un po’ tra
le lenzuola, baciandosi e accarezzandosi, poi Ares si alzò controvoglia e si
rivestì. Aveva una guerra in Messenia ad attenderlo e circa quattromila opliti,
suoi seguaci, da condurre alla vittoria. S’infilò la corazza di bronzo, si piegò
e si allacciò i sandali. Nuda e coi capelli sciolti, Afrodite si alzò a sua
volta, gli prese la mano spingendolo a rialzarsi e se la posò sul ventre. Ares
la guardò negli occhi e, benché fosse il meno perspicace tra i figli di Zeus,
capì all’istante ciò che l’amata gli stava comunicando: a differenza delle
mortali, che necessitavano di mesi prima di poter confermare una gravidanza, le
Dee sentivano immediatamente se il loro grembo era stato seminato e, a
riguardo, non sbagliavano mai.
Sorrise e le accarezzò la
pancia con impacciata delicatezza.
«So a cosa stai pensando.»
Afrodite sorrise a sua volta. «Ricorda che potrebbe anche essere una femmina.»
«Maschio o femmina che sia mi
va bene, purché sia forte. Un figlio che possa condividere con me il furore
della battaglia.»
«Mmh…» La Dea storse la bocca: l’idea di un figlio assetato di
sangue, simile in tutto a suo padre, non le piaceva affatto. «Mi auguro,
invece, che goda di un temperamento dolce e pacifico come il nostro Eros.»
«Hah!» Ares emise una risata sprezzante e si piegò di nuovo per
legarsi gli schinieri. «Il tuo amore di madre ti rende cieca e ingenua. Eros è
uno stronzetto tutt’altro che pacifico!»
«Sì che è pacifico!» sbuffò
Afrodite, offesa. «E non parlare così del mio bambino!»
«So che lo adori.» Il guerriero
la prese tra le braccia, divertito dal suo visino imbronciato. «Lo adoro
anch’io, quel moccioso svolazzante, anche se in certi momenti gli spaccherei le
ossa…»
«Sei cattivo!» Afrodite lo
respinse per gioco e Ares, che una simile mossa se l’aspettava, l’afferrò per la
mano, l’attirò a sé e la cinse di nuovo. «Eros è così buono con te e tu lo
maltratti sempre! Meriteresti un figlio cattivo come te, che ti rompa la
faccia! Ecco!»
«Un figlio in grado di rompermi
la faccia è proprio quello che desidero.» Il tracio posò di nuovo la mano sul
morbido ventre della Dea. «Chissà che questa non sia la volta buona…»
«Il Fato ti punirà per la tua crudeltà.»
Afrodite affondò le dita tra i capelli di lui, offrendogli un gradevole
massaggio al capo. «Sarà una femmina» aggiunse sorridendo. «Una bimba splendida
e delicata come la sua mamma. La bimba più dolce di tutto l’Olimpo e di tutta
l’Ellade.»
«Ugh…» Ares mimò una faccia disgustata. «Una creatura del genere non
può nascere da me.»
«Io credo di sì.»
«Vedremo.» Il guerriero sciolse
l’abbraccio, si legò il mantello alla spalla e afferrò l’elmo e la lancia. Era
pronto ad andare. «Dammi ancora un bacio...»
Afrodite non se lo fece
ripetere e unì le labbra a quelle del Signore dei Soldati. «Torna vincitore…»
gli sussurrò sulla bocca.
«Così sarà.» Ares rubò alla Dea
un ultimo e velocissimo bacio, poi indossò l’elmo e se ne andò.
Rimasta sola, Afrodite tornò a
letto e si rotolò ancora per qualche minuto tra le lenzuola. Poi chiamò a sé le
ancelle, ordinò loro di prepararle un bagno caldo e, non appena la vasca fu colma,
vi s’immerse fino al collo. Intorno a lei, le serve si affaccendavano
saltellando aggraziate per il bagno, come tortore nei pressi di una fontana:
c’era chi spargeva sul pelo dell’acqua petali di mandorlo, chi versava olii
profumati, chi reggeva asciugamani ancora tiepidi di sole, tuniche più azzurre
del mare, sandali ingemmati e lucenti; e poi collane di conchiglie e coralli,
orecchini di perle e smeraldi, cinture di cuoio dalle fibbie d’argento, brocche
d’acqua fredda e acqua calda, anfore d’olio di nardo, lacci di seta marina per
capelli, pettini d’oro, corone di fiori di gelsomino…
Preparare la Dea della Bellezza
per il nuovo giorno era un compito lungo e minuzioso che le ancelle corinzie –
fanciulle graziose e un po’ civettuole – svolgevano sempre con gran piacere.
Afrodite chiuse gli occhi,
rilassata dai mille profumi che ora riempivano il bagno. Dondolò pigramente le
braccia sott’acqua, increspandone la superficie, quindi si accarezzò la pancia
con entrambe le mani. Gli impercettibili movimenti dell’acqua comunicavano col
suo ventre fecondato, infondendole in corpo un’indescrivibile sensazione di
benessere, di pace esistenziale. Sorrise e poggiò la testa all’indietro, sul
bordo della vasca, mentre le sue aspettative sul futuro crescevano, supportate
da quelli che erano i suoi ricordi passati.
Portare in grembo Eros era
stata, per lei, un’esperienza meravigliosa. Di giorno in giorno aveva sentito
crescere dentro di sé ogni genere di emozione positiva: amore, gioia, serenità,
compassione. Il suo cuore, già dolce come il nettare che deliziava le gole
degli Dei a ogni banchetto, durante la gravidanza si era intenerito e colmato
di una strana forma di riconoscenza, perché il mondo era bello, gli Dei erano
belli, persino i mortali erano belli, e per tutto ciò che la circondava si era
sentita follemente grata. E ai suoi sorrisi stupendi, ai sospiri incantati, ai
saluti entusiasti il mondo aveva sempre risposto, dilatando la propria
bellezza. Al suo passaggio sulla battigia, il mare di Cipro si era tinto d’un
blu brillante, come una sconfinata distesa di zaffiri che dalla spiaggia
correva fino all’orizzonte. Le farfalle e le colombe – che al suo cospetto
erano solite disegnare sinuose curve in aria – avevano cominciato a
volteggiarle intorno alla vita, quasi desiderassero salutare la creatura che
riposava nel suo ventre, e le loro ali le avevano più volte fatto il solletico.
E i fiori erano sbocciati una seconda volta, malgrado avessero perso i petali e
fossero prossimi alla morte, e chi si stava prendendo a male parole per le vie
– uomini o donne che fossero – al suo passaggio aveva immediatamente perduto la
voglia di litigare, e lei si era sentita felice e fortunata e orgogliosa,
perché sapeva che stava per dare alla luce un bambino che avrebbe cambiato in
meglio il mondo intero. Un bambino speciale, che avrebbe portato amore e
passione e desiderio nei cuori di Dei e Uomini, più amore di quanto lei potesse
donare loro nel corso della propria vita immortale. E tutto ciò che aveva
pensato e sentito, riguardo a quel figlioletto di Ares, era accaduto, senza
l’ombra di una delusione.
Sospirò, continuando ad
accarezzarsi la pancia. Era certa che quella nuova gravidanza le avrebbe offerto
le medesime gioie della gestazione precedente; che la creatura che si stava
formando nel suo grembo le avrebbe donato la stessa ubriacatura d’amore, la
stessa sensazione di pace cosmica, lo stesso irrealizzabile desiderio di poter fermare
il tempo in modo da restare incinta per sempre, per godere giorno e notte di
quella squisita ebbrezza esistenziale che Eros, raggomitolato nel suo utero, le
aveva infuso nel corpo e nella mente.
Sarebbe stato tutto magnifico.
Dopo ciò che aveva vissuto, per la Dea non poteva che essere così.
Ma mentre si godeva il calore
dell’acqua e le delicate carezze delle ancelle – che ora le stavano lavando i
capelli – nel suo ventre germogliava qualcosa
che non avrebbe appagato affatto le sue enormi aspettative di madre. Qualcosa di spaventoso che, di lì a poco,
l’avrebbe condotta sul baratro della pazzia.
L’orrore crebbe lentamente, ma
in un certo modo anche rapidamente, come un cancro che non lascia alcuna
speranza di sopravvivenza. Rispetto alle donne mortali, che dovevano attendere nove
mesi prima di poter stringere tra le braccia la loro creatura, le Dee
dell’Olimpo godevano di una gravidanza assai più breve, che di rado superava la
settimana, e già dal secondo giorno Afrodite capì che le cose non stavano
procedendo per il verso giusto; che nel suo grembo palpitava una strana e
sgradevole energia, che nulla aveva a che vedere con la deliziosa aura divina
di Eros. Un’energia malevola e nera che ci mise poco, molto poco ad ammazzare
il suo sorriso.
Cominciò tutto con una
sotterranea e inaspettata malinconia: la gioia della gestazione tardava ad
arrivare, delle belle sensazioni, del calore e dell’entusiasmo non c’era ancora
alcuna traccia, come se tutti quei sentimenti fossero rimasti incastrati chissà
dove negli abissi del suo cuore, e malgrado la delusione lei li attese,
affamata di felicità. Li attese contando i minuti e le ore, ignorando ogni
presentimento, ogni brutto pensiero, mentre con le mani sul ventre passeggiava
per i sentieri della Sacra Montagna cercando nella loro bellezza un po’ di
sollievo.
Ma all’alba del terzo giorno,
la malinconia che le schiacciava il petto si trasformò in inquietudine.
Il mondo degli Dei e dei
mortali cominciò a sembrarle inospitale e caotico, come un territorio in cui
non si era mai addentrata prima. Nonostante sopra la sua testa il cielo fosse
blu e privo di nuvole, Afrodite avvertì un persistente presagio di tempesta, di
catastrofe imminente e inevitabile che la spinse a cercare riparo nell’intimità
dei templi olimpici, ma neppure tra le quattro mura, circondata dall’aroma
d’incenso e fiori freschi, riuscì a liberarsi di quella sensazione. Anzi. La
malsana inquietudine che le corrodeva l’animo crebbe e crebbe spingendola di nuovo
fuori, lontano dall’Olimpo, fino alle bianche spiagge dell’Attica.
Era nata dalla spuma del mare e
nel mare andò a cercare conforto, come una figlia impaurita che brama l’abbraccio
materno.
Si sdraiò nuda sulla battigia e
alzò lo sguardo al cielo, ora rosa per il tramonto. Il cuore le batteva forte,
come avesse corso per migliaia e migliaia di cubiti. Attese il sonno e infine
si addormentò, sprofondando in un oblio popolato d’incubi mostruosi e spietatamente
nitidi; immagini di torture, creature deformi, spaccature senza fondo nella
terra dalle quali salivano fumi nauseabondi e grida terrificanti di Dei spellati
vivi, di Dee violentate e ustionate e sbranate, di bambini fatti a pezzi, di
animali mutilati vivi. E quelle folli grida di dolore a un tratto esplosero
nella sua bocca, squarciando la rete di sonno che la teneva prigioniera.
Si rizzò bruscamente, come se
qualcuno l’avesse afferrata per il collo e tirata a sé, e si trovò seduta. Era
senza fiato. Gemiti stremati le cadevano di bocca, simili ai rantoli di un
moribondo. Non aveva mai avuto un incubo prima d’allora: i suoi sogni erano
sempre stati luminosi come l’alba.
Si sfiorò la pancia e la scoprì
velata di sudore freddo. Deglutì, pur non avendo saliva. Era stata la cosa nel suo ventre a inquinarle il
sonno. Sapeva che era così, lo sentiva, era una verità tanto inconfutabile
quanto insostenibile. Una verità mostruosa come l’incubo che si era lasciata
alle spalle.
Attese che l’agitazione
passasse e che il suo umore tornasse quello di prima, ma ciò non accadde e,
nelle ore seguenti, l’inquietudine che albergava nel suo cuore crebbe a
dismisura fino a marcire, come un frutto dimenticato in fondo a una cassa buia.
E quel sentimento rancido, quell’irrequietezza della quale aveva ormai perduto
il controllo, si trasformò in paura. Una
paura mai provata prima, che dall’utero si fece strada in ogni fibra del suo
corpo divino fino ad annebbiarle la mente. Allora il mondo che la circondava
cambiò di nuovo aspetto, facendosi ai suoi occhi più minaccioso, come un’enorme
arena popolata di belve fameliche pronte a sbranarla. I campi di fiori che un
tempo l’allietavano, ora le incutevano timore perché sotto le corolle
multicolore potevano celare serpenti velenosi, rocce acuminate, topi gonfi e
putrefatti; e quel timore non aveva senso, non per la Dea dell’Amore che per
sua natura chiamava a sé solo quanto di meglio Gea avesse da offrire, eppure ora
Afrodite aveva paura. E i fiori stessi sembravano avere paura di lei, perché al
suo cospetto si chiudevano e si accartocciavano a terra, quasi non volessero
farsi sfiorare dal suo sguardo, e anche gli usignoli si nascondevano, le
farfalle scomparivano tra le fronde, le colombe spiccavano il volo appena la
vedevano arrivare, così rapide che sembrava fossero in pericolo di morte…
La sua vita, un tempo ricca di
gioie, era sempre più simile a un incubo e da quell’incubo Afrodite tentò di
fuggire e di trovare una spiegazione che non coinvolgesse la creatura che
cresceva nel suo grembo.
Dopotutto era la madre di Eros:
come poteva concepire un essere che emanasse tanta energia negativa?
Doveva esserci un’altra
spiegazione, doveva esserci per forza!
Ma quando Afrodite vagava sopra
le scogliere e guardava giù, al mare schiumoso, l’assaliva un senso di vuoto
terrificante, una paura viscerale che la portava a stringersi nelle spalle e a
voltarsi di scatto, per accertarsi che nessuno stesse per spingerla giù. E
allora si sentiva stupida, perché una Dea dell’Olimpo non può morire né ha motivo
di temere il trapasso, eppure questo era esattamente ciò che provava: la paura
che tutta la sua esistenza stesse per concludersi per sempre, e che ciò potesse
avvenire in qualsiasi momento e con indicibile dolore.
Al tramontare del quarto giorno
fece ritorno sull’Olimpo. Ormai quasi tutti sapevano della sua gravidanza e chi
non lo sapeva se ne accorse appena la vide: il suo ventre si era fatto più
tondo, i seni più voluminosi. Afrodite rispose a chi le rivolse gentilmente la
parola, ignorò i commenti scherzosi che tiravano in ballo Efesto – che il padre
del bimbo fosse Ares e non il fabbro era anch’essa cosa ben nota – e si diresse
verso i giardini di Dioniso.
«Afrodite! Che bella sorpresa…»
Stravaccato sopra mantelli di lana e pellicce di leopardo, il Dio del Vino
l’accolse con un sorriso, e lo stesso fecero le baccanti e i satiri, sdraiati
tutt’intorno sul prato. «Vuoi unirti alla festa?» domandò alzando la coppa
d’oro che reggeva in mano.
«Voglio bere.» Afrodite si
sollevò il peplo e si sedette sull’erba, fianco a fianco col Dio. «Ti prego,
offrimi il tuo vino migliore.»
Dioniso la guardò e, nonostante
fosse parecchio ubriaco, capì immediatamente che la cipriota non si sentiva
bene. Il suo sguardo era fuggevole e triste, il respiro affannato, come stesse
tentando di evitare una crisi di pianto. «Che succede, bellezza? Fuggi da tuo
marito?» Le accarezzò la guancia con le nocche. «Non è così arrabbiato come
credi. Anzi, a dire il vero penso non sia affatto arrabbiato…»
Afrodite si accovacciò tra le
braccia del Dio, che subito l’accolse. «Per favore, tesoro, non mi va di
parlarne…» singhiozzò, sempre più turbata. La notte era vicina e, al solo
pensiero di dover affrontare un incubo orribile quanto quello della notte
precedente, la povera Dea tremava dalla testa ai piedi. «Voglio solo ubriacarmi
e non pensare più a nulla…»
Improvvisamente serio, Dioniso
le accarezzò la testa. Avrebbe potuto approfittare della sua debolezza emotiva,
ma il pensiero non lo sfiorò neppure per un istante. Pensò, invece, che per tutta
la notte avrebbe fatto del suo meglio per rallegrarla, ordinando alle menadi di
danzare e intonare canti briosi, mentre i satiri suonavano i cembali e i
tamburi. «Se vuoi l’ebrezza, avrai l’ebrezza» le disse, offrendole la coppa che
reggeva in mano. «E vedrai che presto ogni dolore sarà dimenticato.»
Afrodite non rispose e bevve
fino all’ultima goccia, e subito una baccante le rimboccò la coppa. La Dea bevve
ancora e ancora e presto le girò la testa, e la cosa nel suo grembo cominciò a protestare, e l’ubriachezza che
innumerevoli volte le aveva acceso il desiderio iniziò a sembrarle pericolosa,
uno stato d’animo che la rendeva debole e la lasciava senza alcuna difesa, a
disposizione di qualsiasi malintenzionato s’annidasse nell’ombra; e i satiri le
apparvero grotteschi e spaventosi, le menadi simili a terrificanti creature
ibride, un po’ donne e un po’ piante, col sorriso inciso sulla faccia, e il
rullo dei tamburi era assordante, le risate squillanti e cavernose e
gracchianti, il puzzo di vino insostenibile come il puzzo che saliva dalle
ferite della terra nel suo incubo; e a un certo punto Afrodite si alzò e il
mondo intero le roteò attorno, e sentì che il cuore le si sarebbe spaccato in
due perché batteva troppo, troppo forte, e chissà come era di nuovo stesa tra
le braccia di Dioniso e il suo volto dall’espressione affettuosa era l’unica
cosa bella in quel delirio rintronante, ed ecco che notò che le labbra di lui si
stavano muovendo, che stavano sussurrando qualcosa,
(Va tutto bene)
ma le parole non riuscirono a
raggiungerla, il suo corpo e la sua mente non le rispondevano più. E poi tutto
si allontanò da lei e si spense come una fiammella priva di ossigeno, e il
sonno le cadde addosso e la schiacciò, nero come una coltre di catrame. Ma
nonostante l’ubriachezza e la stanchezza, la Dea sognò per tutta la notte
scenari d’orrore, che la fecero tremare e ansimare e sudare. Sognò
d’invecchiare e di morire, sognò di annaspare e di annegare nelle acque
dell’Acheronte, sentì l’acqua nei polmoni e nel naso, la schiuma del fiume
gorgogliarle in fondo alla gola. Sognò di avere il grembo occupato dal male, che tutt’uno con la sua carne e il
suo sangue stava acquisendo forza, ma non era un solo essere, no.
Erano due.
Li sentì nel sogno, li vide nel
sogno. Due piccoli feti raggomitolati in loro stessi, che non aspettavano altro
che devastarle l’utero e uscire fuori, in quel mondo dove mai, due esseri così
malevoli, sarebbero dovuti uscire. E Afrodite sognò di essere in travaglio e di
non volerli espellere, sentì le fitte di dolore, vide la pancia muoversi e
muoversi e muoversi, perché quelle creature stavano combattendo per vivere,
tanto quanto lei stava combattendo per sopravvivere a loro, perché farli
nascere significava morire di dolore e dissanguamento, e lei sarebbe morta,
sarebbe stata la prima Dea a morire benché ciò fosse impossibile, e uno di
quegli esseri cominciò a scivolarle fuori e una preghiera isterica s’inceppò
nella sua bocca, no, no, no, e poi un
grido di dolore e terrore e voglia di morire e…
Si svegliò.
Non sobbalzò né si tirò su di
scatto. Semplicemente aprì gli occhi e prese un’ampia boccata d’aria, come se
avesse trattenuto il fiato per tutta la notte. Si asciugò la fronte, madida di
sudore, e gettò un’occhiata intorno. Non era più nei giardini di Dioniso, bensì
nel proprio talamo nuziale. Una graziosa ancella, seduta accanto al letto, le
diede il buongiorno e le offrì un bicchiere d’acqua, insistendo affinché lo
bevesse. Afrodite obbedì e la giovane, soddisfatta, uscì dalla stanza. La Dea udì
un lontano parlottio – al quale prestò poca attenzione – e qualche momento dopo
vide Efesto zoppicare dentro la camera, stretto alla sua stampella.
«Ti prego…» sussurrò con voce
sfinita, mentre un rigurgito amaro le risaliva per la gola, ricordandole le
innumerevoli coppe di vino che aveva tracannato. «Lasciami sola. Non mi sento
bene...»
Il fabbro si sedette sul bordo
del letto. Aveva la testa bassa e un’espressione ambigua sul volto,
l’espressione di chi vorrebbe apparire duro, ma fatica a celare il proprio
affetto. «So che non ti senti bene. E so che sei incinta…»
Afrodite inspirò a fondo. Le
faceva male la testa e il suo grembo, sempre più prominente, le mandava segnali
inequivocabili: laggiù c’erano due bimbi. Ormai ne era sicura. «Che vuoi?»
domandò, palpandosi la pancia nel tentativo di fermarne i movimenti ed evitando
di proposito lo sguardo del marito. «Ti aspetti forse che mi scusi?»
«So che non lo farai. Non sono
così stupido.» Efesto la fissò severamente, come volesse rimproverarla per il
tono provocatorio che aveva usato. Poi il suo volto si ammorbidì. «Ricordi
cos’è accaduto ieri notte?»
«Ho bevuto con Dioniso.»
Afrodite sentì che avrebbe potuto ricordare di più, che avrebbe potuto
riportare alla mente ogni dettaglio della festa e dell’incubo dal quale era
appena sfuggita, ma prima di cedere alla tentazione di farlo scosse il capo.
«Il resto non lo ricordo.»
«Dioniso ti ha portata qui. Ha
detto che piangevi nel sonno, che sudavi e mormoravi cose senza senso.»
Afrodite rivolse al marito un’occhiata
incredula.
«Ovviamente voleva portarti da
Ares.» Efesto schioccò la lingua e roteò gli occhi, seccato. «Ma poi ha
scoperto che il suo tempio era vuoto e così ti ha portata da me.»
«Non mi sono accorta di nulla.»
Efesto posò timidamente la mano
sulla gamba della moglie, come temesse di vederla scappare se solo avesse osato
toccarla troppo forte. «Cosa succede?» domandò. «Non ti ho mai vista così. Stai
male per via del bambino?»
«Sì. E non è un solo bambino.
Sono due.»
«Ah…» Il fabbro tacque per una
manciata di secondi, stupito e contrariato da quella rivelazione. Poi si riprese.
«E… quale sarebbe il problema? Credi forse che io possa non accettarli in casa
mia o che-»
«Oh no, no. Non è questo.»
Afrodite percepì una lontana tenerezza, che per qualche secondo alleggerì la
sua pena. «Hai sempre trattato Eros con rispetto e so che faresti lo stesso con
tutti i miei figli. Il problema non sei tu.» Si sfiorò la pancia con la punta
delle dita: toccarla stava cominciando a farle ribrezzo. «Sono loro.»
Efesto la guardò confuso. «Cos’hanno
che non va?»
«Non lo so.» Afrodite abbassò
la testa. «So solo che vorrei non averli mai concepiti.»
Di fronte a quel commento, il
fabbro rimase a bocca aperta. «Ciò che dici non ha senso» mormorò. «Sono figli
tuoi, Afrodite. Saranno splendidi come Eros e forse anche di più.»
La Dea prese la tozza mano del
marito e se la posò sulla pancia, facendolo quasi sussultare per lo stupore.
«Non senti nulla?» domandò, guardandolo negli occhi. «Nessuna sensazione
sgradevole?»
Efesto aggrottò le ispide sopracciglia
e fece per rispondere che non avvertiva nulla, se non i delicati calcetti dei
bambini, quando lo colse un brivido freddo che gli fece rizzare tutti i peli
del corpo, e poi una sensazione di vuoto, di vento gelido sulla pelle, di
roccia che si schiantava contro di lui ancora e ancora e ancora, e quel flusso
di emozioni e visioni lo sommerse in pochi istanti, e allora capì che stava
vivendo un ricordo antico, che fino a quel momento aveva ignorato di custodire
nella memoria; e ora il suo presente era il suo passato, e lui era di nuovo un
neonato innocente che la madre aveva scaraventato giù da una montagna, e la
paura nel suo cuore crebbe e crebbe fino a fargli tremare le labbra, e benché
fosse adulto si sentì fragile come non mai e per un istante, nella quiete della
camera da letto, sentì le gambe fratturarsi una seconda volta, sbriciolarsi
senza alcuna possibilità di recupero, e allora si vide a strisciare sui gomiti
per i viottoli dell’Olimpo, deriso da tutti, schifato da tutti, e si sentì inutile
e disgustoso e spaventato, perché la sua vita intera ora dipendeva dalle sue
braccia e presto si sarebbero fratturate anche quelle, perché il suo corpo era
destinato a essere storpio, la sua esistenza intera era segnata dalla
miserabilità, era stato così fin dal primo giorno di vita, e lui non poteva
lamentarsi, non poteva piangere né gridare, ma solo strisciare come lo storpio
che era e attendere il momento in cui anche le sue braccia sarebbero collassate,
ed Efesto lo vide, vide quel momento, vide il proprio crollo definitivo, la
fine di tutto e…
Ritirò la mano di scatto.
Il volto pallido, gli occhi sgranati
e fissi in quelli di Afrodite, come se lei gli avesse appena tirato uno
schiaffo. Le aveva sfiorato la pancia per meno di tre secondi, ma tanto era
bastato a riempirgli il petto di terrore, e nel vederlo così turbato la Dea
sentì l’icore ghiacciarsi nelle vene. Era tutto reale, non se lo stava
immaginando: quei bambini custodivano un potere demoniaco in grado di spezzare
i nervi di qualsiasi creatura.
Scoppiò a piangere, tremante
come un pulcino.
«Afrodite…»
«Morirò!» singhiozzò la Dea,
mentre il panico le esplodeva dentro come una nausea inarrestabile. «Morirò! Lo
sento!»
«Non dire sciocchezze…» Efesto
tentò di consolarla prendendola tra le braccia, ma lei si alzò dal letto e,
barcollando, uscì dalla stanza. «Afrodite, aspetta…»
La Dea non si voltò e lasciò la
casa del marito. Avvertiva il bisogno di andare via, di fuggire il più lontano
possibile da tutto e tutti, benché sapesse di non poter scappare dai mostri che
portava in grembo. Ormai il parto era vicino, questione di un paio di giorni.
Sentiva quegli esseri calciare e pulsarle dentro, sempre più grossi, sempre più
pericolosi. Lasciò l’Olimpo e vagò per l’Ellade, e ovunque andò vide la vita
ritirarsi al suo passaggio, quasi avesse sviluppato verso di lei
un’insostenibile allergia. Vide i caprioli rizzare il capo e fuggire tra i
cespugli, le chiome degli alberi tendersi all’indietro, le ninfe dei fiumi e
dei boschi avvicinarsi sorridenti a lei, e poi sbiancare, scuotere la testa,
balbettare. E ovunque ebbe paura, ovunque si sentì in pericolo, perché il mondo
era ora un luogo ostile, e al tramontare del quarto giorno avvertì il desiderio
di correre in Messenia e tuffarsi tra le braccia di Ares, ma il Dio era
impegnato in guerra – una guerra che, da quel poco che aveva udito Afrodite per
bocca degli altri Olimpi, era sul punto di vincere – e al solo pensiero di
mettere piede su quel campo zuppo di sangue, sul quale i due eserciti si stavano
massacrando a vicenda, la Dea si sentiva svenire.
Aveva sempre detestato la
guerra: il fracasso delle spade, le grida dei generali, gli spruzzi rossi che
coloravano gli scudi e le corazze, i gemiti e le suppliche dei feriti, gli
occhi spalancati dei cadaveri abbandonati a terra… Odiava la guerra tanto
quanto amava il suo Signore, eppure a tenerla lontana dalla Messenia non fu il
solito rigetto che provava per la violenza del conflitto fisico, bensì la
paura; paura dei soldati, paura del sangue, paura della morte. E quel timore
senza precedenti, che la faceva sentire smarrita e spaventosamente umana, era
tutto suo, perché gli esseri nel suo grembo erano tutt’altro che intimiditi
dalla guerra e, ogni volta che i suoi pensieri andavano allo scontro che stava
tenendo impegnato Ares, questi scalciavano e saltavano e graffiavano l’interno
dell’utero, come volessero squarciarlo e correre dal padre.
Stremata, Afrodite si ritirò in
una grande grotta sulla costa della Laconia, sommersa per metà dall’acqua
smeraldo del mare, e pianse fino a non avere più lacrime, fino a cedere, suo
malgrado, al solito sonno malato e sporco di incubi che la notte le riempiva la
testa. E in quel rifugio di roccia e mare – dal quale i pesci ora si tenevano
alla larga, terrorizzati dalla sua presenza – Afrodite rimase per due giorni e
due notti, sola e rannicchiata su se stessa, e per tutto il tempo pianse e
pianse, mentre i figli le si contorcevano nella pancia come serpenti velenosi,
e all’alba del settimo giorno si graffiò le guance e si strappò i capelli
perché quegli esseri la stavano facendo impazzire, e allora maledisse Ares per
averle contaminato il grembo col suo seme e imprecò contro se stessa, contro il
Fato, contro chiunque, e più odiava, spinta dalla paura, più quelle creature la
infondevano di nuovo terrore, e sarebbe rimasta in quel vortice perverso fino a
perdere completamente la ragione, se solo non fosse accaduto ciò che sapeva
sarebbe accaduto.
Il suo ventre cominciò a
contrarsi.
Fitte di dolore le colpirono
l’utero, facendosi via via più intense e colorandole il volto d’un pallore
funereo. Si alzò in piedi, ansimando per il terrore, e uscì dalla grotta
riaffacciandosi nella luce. Le girava la testa e le gambe le tremavano così
tanto da far tintinnare le belle cavigliere di conchiglie. Fino a quel momento
aveva pensato di partorire da sola, lontana da qualunque creatura vivente, perché
si vergognava degli esseri che avrebbero lasciato il suo grembo e non voleva
mostrarli al mondo. Ma la paura di soffrire e morire rovesciò ogni sua
convinzione a riguardo, spingendola a ricercare l’affetto, la cura, la
sicurezza.
Non poteva restare da sola, non
ora.
Gridare e dissanguarsi in
solitudine, in una grotta dimenticata da tutti, era un supplizio che non
meritava, non lei, non la dolce Dea dell’Amore. Così lasciò la Laconia di gran
fretta, stringendo tra le braccia la prominente pancia, e andò in cerca di
Artemide.
La trovò presto. Le ninfe delle
foreste e dei ruscelli – per quanto spaventate dall’aura che emanava – le
dissero che la Dea della Caccia si trovava ad Amarynthos, nel santuario a lei
consacrato e, quando Afrodite si precipitò nel tempio la notizia dell’imminente
parto si era ormai diffusa in tutta l’Ellade. La venuta alla luce di un Dio
Olimpico suscitava sempre la curiosità di Dei e mortali, ma se ad affacciarsi
alla vita era un essere potenzialmente pericoloso il mondo tremava e tratteneva
il fiato fino al momento di comprendere la reale portata dei suoi poteri. E che
nel ventre della cipriota si celasse qualcosa di feroce era ormai una verità evidente
agli occhi di chiunque, soprattutto a quelli di Artemide, che in quanto Protettrice
delle Partorienti capì immediatamente, dall’espressione sconvolta di lei, che nulla
di buono stava per uscire dal suo grembo.
«Afrodite!» La cacciatrice
scattò in piedi e lo stesso fecero le sue seguaci, riempiendo la cella del
tempio di gemiti di sorpresa e fruscii di tuniche. «Cosa…?»
«Artemide, ti prego!» Afrodite
barcollò verso la Dea, che subito la sorresse, e all’improvviso sentì un fiume
d’acqua scorrerle tra le gambe. S’irrigidì. «Aiutami! Sto male! Sto molto male!»
«Va tutto bene!» Artemide la
fece sdraiare sul pavimento con decisione, le posò le mani sulla pancia e le
ritirò bruscamente, come se il suo ventre l’avesse ustionata. Balbettò a vuoto,
colta alla sprovvista dalle immagini orrifiche e le sensazioni d’incubo che
l’erano appena esplose nella testa e nel cuore, quindi recuperò il controllo.
Ordinò alle seguaci di portarle acqua e mantelle di lino, posò di nuovo le mani
sul ventre della cipriota e stavolta fu più forte dei piccoli Dei che si
agitavano al suo interno. «Va tutto bene» ripeté, allargandole le gambe. «Tra
poco sarà tutto finito.»
«Loro non sono come Eros! Non sono come lui!» Afrodite gridò per il
dolore e il suo urlo si sparse sotto la volta di Urano come un temporale di
sole folgori, facendo girare e rabbrividire ogni Dio, ogni uomo e donna e
bambino. Non conosceva quella sofferenza e non riusciva a sopportarla: il Dio
dell’Amore era scivolato dal suo corpo con delicatezza, senza strapparle un
solo ansimo di fastidio. Nulla a che vedere con l’orrore che stava vivendo in
quel momento. «Sto morendo! Oh, Artemide!
Ti prego! Non farmi soffrire!»
Col suo potere la Protettrice
delle Partorienti s’impose sui due bimbi con severità, smorzando in parte l’energia
malevola che tanto dolore stava causando alla Dea. Quindi afferrò le mantelle
di lino, ordinò ad Afrodite di spingere forte e si preparò ad accogliere i
neonati, sforzandosi d’ignorare i fiotti di sangue dorato che dal ventre della
Dea si stavano riversando sul pavimento. E Afrodite spinse e gridò e pianse e
gridò ancora, col corpo che ora le bruciava come una torcia, e a ogni spinta
sentì il dolore crescere e la morte farsi più vicina, e tra i singulti urlò ad
Artemide che stava soffrendo e che non ce la faceva più, ma Artemide sembrava
non sentirla, nessuno sembrava curarsi della sua agonia – nonostante le
cacciatrici le stessero sussurrando parole di conforto e le stringessero forte
le mani – e Afrodite pensò che quella non poteva essere la realtà, la sua
realtà, e gridò e ansimò e spinse con tutta la disperazione che aveva in corpo ed
ecco che il pianto di un neonato echeggiò nel santuario.
La cipriota avvertì un leggero
sollievo che subito venne schiacciato dal bisogno fisico di spingere ancora: il
suo corpo non era ancora libero. Risucchiò aria con la bocca e contrasse tutti
i muscoli del corpo, senza più la forza di gridare né di affondare i denti nel
labbro, finché finalmente udì il secondo pianto. Allora la colse un piacere
nuovo, un meraviglioso senso di liberazione: il suo corpo era di nuovo suo. Solamente
suo.
Chiuse gli occhi e si abbandonò
al rilassamento, mentre le seguaci di Artemide le passavano pezze umide sulla
fronte sudata. Udiva le sue creature piangere chissà dove oltre ai suoi piedi –
la figlia di Leto li stava sciacquando con l’acqua, aiutata dalle seguaci – ma
non furono i loro strilli a riaprirle gli occhi, quanto un rumore di passi
rapidi scanditi da schiocchi metallici: la camminata frettolosa e pesante di un
soldato con indosso un’armatura.
Afrodite ruotò il capo e, nella
nebbia dei suoi occhi stanchi, vide Ares inginocchiarsi al suo fianco. La sua
corazza era spaccata e schizzata di sangue nemico, i capelli velati di fine
terriccio, le guance accese per la fatica del combattimento. Il Dio aveva
abbandonato il campo di battaglia in tutta fretta, appena aveva udito le sue
grida di dolore salire al cielo, e ora la fissava con occhi terrorizzati: non
l’aveva mai vista così malridotta ed esausta. E quella gigantesca pozza di
sangue tra le sue gambe… Ares la fissò e si sentì sbiancare: le Dee non
sanguinano mai così tanto durante il parto.
«A…res…» La cipriota gli prese
la mano e gli sorrise sfinita. Lui ricambiò il sorriso e le baciò la mano, poi
entrambi si voltarono verso Artemide, che tra le braccia reggeva due fagottini
di lino dai quali salivano strilli spaccatimpani.
«Sono due maschi.» La
cacciatrice s’inginocchiò accanto ad Afrodite, dalla parte opposta rispetto al tracio,
e fece per posarle i piccoli sul seno. «Ecco, prendili.»
«No.» Afrodite s’irrigidì e si
girò dalla parte opposta. «Non voglio vederli. S-sono malvagi.»
Artemide si bloccò e fissò i neonati.
Emanavano ancora un’energia sgradevole, che andava a sradicare paure profonde e
sconosciute in chiunque stesse loro vicino, ma più passava il tempo, più
quell’aura le sembrava sopportabile. Alzò gli occhi su Ares, indecisa sul da
farsi, e subito il guerriero si fece avanti e prese i figli tra le braccia, e in
quell’esatto momento il loro pianto disperato cessò, come se sul petto
corazzato del padre avessero trovato qualcosa a loro affine.
«Non sono belli né amabili.» La
cacciatrice offrì ad Afrodite una coppa colma d’ambrosia fresca e la invitò a
berla. «Non sono ciò che desideravi ma, che ti piaccia o meno, sono figli tuoi
e in qualche modo imparerai ad amarli. Vedrai.» Artemide accarezzò la guancia
della Dea, si rialzò e insieme alle sue cacciatrici si fece da parte, lasciando
ai due amanti lo spazio e l’intimità necessari per parlare.
Afrodite si mise seduta, bevve
tutta l’ambrosia e si sentì un po’ meglio. Guardò Ares. Tra i fagottini di lino
che stringeva al petto vide agitarsi piedini e manine d’infante, e notò che non
erano rosei, ma grigiastri. Un colorito malsano, come malsana era l’aura che
emanavano. Eppure Ares sorrideva, mentre guardava dentro quelle stoffe, come
celassero i bimbi più graziosi del mondo. La Dea si sentì rassicurare dalla sua
espressione e improvvisamente avvertì un senso di vuoto interiore che le fece
desiderare di stringere a sé quei piccini e di attaccarli al seno per
allattarli. E come se le avessero letto nella mente, quelli incominciarono ad
agitarsi, mugolare, stringere i pugnetti.
La Dea allungò le braccia e si
fece consegnare entrambi i figlioletti. Ignorò la paura, il batticuore, l’ansia
che le stringeva lo stomaco, e li guardò. Loro la guardarono di rimando e,
occhi negli occhi col sangue del suo sangue, Afrodite sentì un’inaspettata
commozione scaldarle le guance.
I gemellini erano orrifici
nell’aspetto, ma non quanto aveva immaginato.
La loro pelle era grigia, le
bocche già dotate di minuscoli denti aguzzi. Quello alla sua sinistra aveva i
capelli rossi come la ruggine, l’altro d’un biondo quasi accecante. Le loro iridi
splendevano come oboli d’oro, i loro sguardi erano inchiodati su di lei e
ardevano come quelli dei leoni pronti ad attaccare. Il piccolo coi capelli
biondi, in particolare, aveva occhi così lucenti e penetranti che la Dea quasi
non riusciva a sostenerne il peso. Ma per quanto inquietanti fossero d’aspetto,
Afrodite li accettò e posò la guancia ora su una testolina, ora sull’altra,
respirando il profumo di neonato che saliva dai fagotti. I piccoli sembrarono
interdetti da quei gesti d’affetto, come non riuscissero a coglierne il
significato, ma poco dopo allungarono le manine verso il suo viso.
«Phobos e Deimos.» Inginocchiato accanto all’amata, Ares indicò con
un cenno del capo prima il bimbo rosso, poi quello biondo. «Voglio chiamarli
così.»
Afrodite non rispose. Raccolse
tutto il suo coraggio e avvicinò i figli al seno, pronta a ricevere i loro
dentini aguzzi nella carne. Ma i piccoli, per quanto famelici, si attaccarono ai
suoi capezzoli senza farle male e, con le dita affondate nella morbidezza del
suo seno, cominciarono a succhiarle il latte. La Dea li lasciò fare e, per la
prima volta nella sua vita, si sentì usata. Quei piccoli si stavano nutrendo
con insana fretta, come se da un momento all’altro dovessero staccarsi da lei e
correre via, a compiere chissà quali atrocità in chissà quale parte
dell’Ellade. A dirla tutta, un simile scenario non sarebbe stato affatto
improbabile: appena nata, Artemide aveva aiutato sua madre a partorire Apollo,
e che dire di Hermes, che in meno d’un giorno di vita aveva inventato la lira e
rubato al Dio del Sole il suo prezioso bestiame? Se spinti dalla necessità o
dal mero desiderio, gli Dei non perdono mai tempo, e così fecero Phobos e
Deimos.
Sazi di latte rifiutarono il
seno della madre, tesero le braccine verso il padre e cominciarono a emanare
ringhi di frustrazione. A loro, ormai, quel caldo corpo di Dea non serviva più
e volevano allontanarsene.
«Portali con te.» Afrodite
allungò i figli ad Ares, che li riprese in braccio. «Io non ho nulla da offrire
loro.»
Il guerriero aggrottò la fronte,
stupito. «Non vuoi crescerli con Eros?» domandò.
«Guardali. Non è di me che
hanno bisogno.»
Ares notò che i figli si erano
aggrappati al suo mantello e che, agitati com’erano, stavano tentando di
arrampicarsi sopra le sue spalle. Per un momento, Deimos riuscì addirittura a
stringergli il pennacchio di crine nero e, per poco, non gli strappò l’elmo dal
capo. Ares li ricacciò giù, li strinse più forte tra le braccia e sorrise. «Saranno
il mio orgoglio più grande» disse.
Afrodite fece per rialzarsi e
Artemide e le cacciatrici l’aiutarono, sincerandosi delle sue condizioni. «Sto
bene» disse più volte, tranquillizzando le vergini. I dolori del parto erano
ormai svaniti, la fiacchezza quasi del tutto scomparsa. Accarezzò e baciò le
testoline dei figlioletti un’ultima volta, ma questi non si girarono neppure a
guardarla. «Portali con te» ripeté ad Ares con un sospiro malinconico. «Io li
amerò da lontano.»
Il guerriero la baciò sulla
bocca, si voltò e s’incamminò verso l’uscita del tempio. Afrodite lo seguì con
lo sguardo ed era ormai giunto sulla soglia, quando Phobos e Deimos si voltarono
a guardarla. Un’occhiata veloce e un po’ smarrita lanciata oltre le larghe spalle
del padre, che alla Dea donò un minuscolo sorriso. Infine i piccoli ripresero
ciò che stavano facendo – tentare di sfilare l’elmo dalla testa del guerriero –
e tutti e tre uscirono dal tempio, scomparendo nella luce del mattino.
Sì, pensò Afrodite, mentre il suo fragile sorriso si faceva un po’
più sicuro. Io li amerò da lontano.
Che angoscia... Ma é molto bello. Fatto veramente bene!
RispondiEliminaTi ringrazio molto! :)
EliminaMeraviglioso, credo di aver pianto
RispondiEliminaSono felice ti sia piaciuto!
Elimina❤️
RispondiEliminaSei davvero in grado di fare entrare il lettore all'interno dei tuoi racconti, le dettagliatissime descrizioni delle sensazioni e delle emotività dei personaggi rendono davvero semplice l'immedesimazione! Complimenti davvero per le tue capacità, credo di essere diventata una tua avida lettrice 🙋
RispondiEliminaTi ringrazio moltissimo, Raffaella!
EliminaMa avrei una domanda. Ho comprato il tuo libro e non lo ho ancora finito. Potresti dirmi se questo racconto ne è all'interno?
RispondiEliminaCiao Giada, se ti riferisci a "Storie di Dei" no, non contiene racconti già pubblicati qua sul blog, ma solo racconti inediti.
Eliminaestuve a punto de llorar, que hermosa historia.
RispondiEliminaQuesto è stato un po 'deprimente. Spero di poter vedere un po 'di arte su di lei associata ai suoi figli, dichiarati a Theoi, anche loro vivevano sull'Olimpo. Odio che li vedesse come mostri. Mi sento così male per tutti gli dei oscuri. Non possono fare a meno di come stanno ...
RispondiEliminaIsso foi um pouco doloroso! Eu senti a deusa quase enfraquecer e a dor do parto dela! 😔
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