lunedì 28 marzo 2016

MIO (Ares ed Eris)

ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di sesso esplicito e violenza.


Il Dio Apollo, alla guida del leggendario carro d'oro trainato da cavalli dalla bionda criniera, accompagnò il sole oltre le mura della città di Anfipoli, irrorando con la soffice luce del tramonto quelle aride terre straziate dagli orrori della guerra. E avvertendo sopra e dentro di sé la fine di quell'ennesima giornata rossa di sangue, con un ruggito che scosse il cielo i due generali nemici ordinarono ai propri soldati di indietreggiare e subito quella mischia di uomini pronti a macellarsi l'un l'altro si diradò; gli eserciti si separarono e si ricompattarono pochi metri più indietro; il furore della battaglia si placò ma non si spense, pronto a riaccendersi qualche ora più tardi, alle prime luci dell'alba.
Anfipoli, da anni sotto il controllo diretto di Atene, era per gli ateniesi una base di rifornimento preziosa dalla quale provenivano l'oro, il grano e soprattutto il legname necessario per la flotta, vero pilastro della potenza militare della città attica. E in quanto base di vitale importanza essa aveva conquistato l'interesse degli spartani, determinati a prenderne il controllo al fine di danneggiare la storica rivale; perché quello tra Atena e Sparta era un odio antico, una fiamma che poteva indebolirsi ma che non si sarebbe spenta mai, neppure al calar del sole e al crollare di tutte le energie fisiche e mentali dei militari che da questo astio si facevano guidare.
Separati nei rispettivi schieramenti, i soldati ateniesi e i guerrieri spartani si scrutarono con diffidenza, con le lance ancora ritte e gli scudi alzati, in attesa che fossero gli avversari i primi a calarli e a mostrarsi pronti ad accettare l'interruzione del conflitto per la pausa notturna.
Nel mezzo, in quello spazio immenso dove fino a pochi istanti prima si erano tutti mescolati in un fracasso metallico di spade, lance e urla di rabbia, i feriti si contorcevano agonizzanti: chi folgorato da un pugnale nel petto, chi lacerato da un fendente di spada che gli aveva squarciato una gamba. Gemevano, pallidi per il terrore della morte e per il sangue che dalle ferite scorreva a bagnare il terreno; alcuni di essi, quelli che avevano avuto la fortuna di farsi unicamente tramortire e spezzare qualche osso e che ancora conservavano tutti gli organi interni integri, strisciavano a fatica in direzione dei compagni che avevano rotto le file, spinti dal feroce desiderio di portare in salvo la pelle.
E tra i feriti, i morti giacevano immobili: corpi d'uomini che parevano quasi addormentati e che, anche quella sera, si presentarono alla vista dei soldati sopravvissuti coi quali avevano combattutto fianco a fianco fino ad allora, e senza muovere un solo muscolo né proferendo parola mostrarono loro il lato più oscuro e tremendo della guerra. Uno spettacolo macabro, che nel suo silenzio suonava come una profezia.
Brasida, valoroso generale dell'esercito spartano, fu il primo a spezzare quella tensione. Scrutò un'ultima volta i soldati ateniesi allineati sulle prime file, volse il capo e con la mano fece cenno ai suoi guerrieri di andare a recuperare i feriti: un gesto privo di aggressività, che conquistò la fiducia degli ateniesi che subito calarono le armi.
Ansimanti e stremati, i due schieramenti tornarono sul campo ad assistere i propri feriti. Gli sguardi non si incrociarono, le lance e gli scudi rimasero bassi: per quanto intenso fosse l'odio che legava ateniesi e spartani, nulla poteva contro quella legge morale che imponeva a chiunque, anche al guerriero più truce, di concedere al nemico il diritto di soccorrere i propri feriti al termine della battaglia e di offrire degna sepoltura a chi in quegli scontri aveva perso la vita.
Nessuno avrebbe osato attaccare, non in un simile frangente, e ogni soldato ne era consapevole.
I primi a ricevere soccorso furono i feriti che non avevano perso l'uso delle gambe e che, tra tutti, erano i più vigili: i compagni li sollevarono di peso e li scortarono fuori dal campo, gli ateniesi in direzione del cancello principale della città, gli spartani dalla parte opposta, verso l'accampamento. I feriti giudicati insalvabili non vennero spostati e là rimasero, ad attendere la morte. Sarebbero stati recuperati più tardi insieme ai morti, dopo che si fosse tentato di salvare il maggior numero possibile di unità che nonostante le ferite potevano essere ancora utili per il conflitto dei giorni seguenti.
E in mezzo a quel lento affaccendarsi di soldati a schiena china, intenti a frugare tra i corpi alla ricerca di un commilitone che non fosse irrecuperabilmente moribondo, Eris, Dea della Discordia, saltellava leggera come una fanciulla in un campo di fiori: le ali spalancate, a sfiorare il soffio della brezza serale; i capelli selvaggi, sciolti sulla schiena; la lunga veste nera, che dondolava ad ogni suo passo scoprendole le caviglie.
Sorrideva, appagata da tutta la sofferenza che come un morbo appestava l'aria.
Non era visibile ai mortali, che in quanto tali avrebbero potuto percepire la sua figura solo se lei lo avesse voluto, e ridendo sfilava tra loro concedendosi qualche piroetta di tanto in tanto.
Amava la guerra, l'astio, il rancore e in essi sguazzava, deliziata e incapace di trattenere tutto il piacere e l'euforia che sentiva nel corpo.
Ad un certo punto si fermò.
Chinò il capo e per qualche istante lo fece dondolare a destra e a sinistra con fare pensieroso. Poi si voltò, lanciando un'occhiata alle proprie spalle.
«Fratello!» gridò tornando subito a guardare giù. «Vieni a vedere questo pezzente!»
Ares, Dio della Guerra, era ritto poco più indietro, anche lui invisibile presenza in mezzo ai soldati. Fiero e possente, incarnava l'ideale del guerriero assetato di sangue al quale gli spartani, da sempre suoi fedeli seguaci, si erano rivolti con preghiere assidue e sacrifici rituali affinché li conducesse alla vittoria. E il Dio, a loro completa insaputa, li aveva accontentati scendendo di persona per guidarli alla conquista di Anfipoli.
Ovviamente non si stava sporcando le mani per far loro un favore: di offrire la gloria eterna agli uomini di Sparta o a quell'arrogante di Brasida, che aveva salvato più di una volta da morte certa ma che lui, pieno di sé, continuava a lodare unicamente se stesso e le proprie capacità, ad Ares non importava nulla.
Era là per fare un torto ad Atena, protettrice degli ateniesi.
La Dea della Saggezza e della Guerra Nobile da sempre riteneva i soldati attici di gran lunga superiori agli spartani e Ares era intenzionato a distruggere le sue convinzioni facendo cadere Anfipoli e, di conseguenza, la flotta ateniese della quale la Dea era molto orgogliosa.
Tra i due non correva buon sangue e ogni volta che un popolo devoto al Dio della Guerra si scontrava con gli ateniesi, le cui mire espansionistiche avevano scatenato più di una guerra negli ultimi anni, quegli antichi contrasti si rinvigorivano portandoli a scontrarsi sul campo di battaglia.
Ma ad Anfipoli Atena non si era ancora fatta vedere.
Ares era certo che dall'Olimpo stesse seguendo con regolarità la guerra e che sarebbe scesa tra i suoi soldati non appena questi fossero stati in drammatica difficoltà: perché per il momento la città stava resistendo e, per quanto gli dolesse ammetterlo, erano gli spartani quelli ad aver subito le perdite più ingenti.
Eppure lui non se ne faceva un problema.
Era là per tentare di infastidire e umiliare Atena ma anche, e soprattutto, per divertirsi.
Amava combattere: affondare la lancia nella corazza del nemico, sentire la carne che si apriva, gli organi e le ossa che opponevano resistenza... e poi estrarla, ammirare le gocce di sangue che come rubini scintillavano nell'azzurro del cielo... e quel grido di dolore... il grido straziato di chi non immaginava che si potesse soffrire così tanto...
La guerra faceva parte di lui e gli donava emozioni forti, alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare e che Eris, con la sua oscura presenza, contribuiva a rendere ancora più sublimi.
La adorava.
Adorava il suo animo nero, la sua sete di discordia, il modo in cui gli volava intorno nella foga della battaglia, leggera ma tetra come un cattivo presagio. E come gli sussurrava all'orecchio parole di fuoco, spingendolo a fare strage di uomini attorno a sé...
Uccidili, Ares!
Affonda la tua lancia in questi miseri cuori mortali e scaraventali tutti nell'ADE!
Uccidili!
UCCIDILI TUTTI!
Ed eccitato da lei, Ares uccideva fino a non capire più niente, fino a trucidare in quella mischia di guerrieri anche qualche soldato spartano, povera vittima della sua euforia, e dal sorgere del sole fino al suo tramontare uccideva, uccideva e uccideva, senza fermarsi un solo istante.
Ed era meraviglioso.
La guerra era meravigliosa.
Eris era meravigliosa.
Ma quando lei lo chiamò, Ares la guardò con poco entusiasmo, quasi si fosse dimenticato quanto bello fosse contemplarla mentre sfilava tra i morti, con quel sorriso perverso disteso sulle labbra.
Era sfinito, soddisfatto da quell'appagante giornata ma desideroso di ritirarsi. Si era già sfilato l'elmo, ora retto sottobraccio; i capelli erano umidi di sudore, la corazza impolverata e schizzata di sangue nemico.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea, un po' infastidita. «Avvicinati! Guarda quanto è patetica la faccia di questo miserabile!»
Il Dio conficcò con un gesto secco la lancia nel terreno; si levò lo scudo e lo lasciò cadere.
Sorridente e a piedi nudi, Eris salì sull'addome di quel soldato morente disteso a terra e vi si accovacciò sopra, come una ninfa inginocchiata ad ammirare un fiore particolarmente bello.
Il soldato apparteneva all'esercito spartano ma alla Dea, che come il fratello stava supportando Sparta, il suo schieramento non importava. Partecipava alle guerre per puro piacere e non si impegnava affinché un esercito, piuttosto che un altro, salisse sul podio della vittoria. Per lei erano tutti uguali e di essi rideva allo stesso modo.
Accucciata e con lo sguardo ora più acceso, spalancò le ali al massimo della loro estensione e rivelò la propria presenza al guerriero.
E quando gli occhi del pover'uomo incontrarono quelli ambrati della Dea, l'orrore che provò fu più pungente del pugnale che gli aveva perforato lo stomaco. Sussultò e la paura gli fece andare di traverso quel grumo di sangue e saliva che gli riempiva la gola e i polmoni. Tossì e un rivolo di sangue gli scivolò dall'angolo della bocca e corse giù.
«O mortale...» sibilò la dea sorridendo crudele. «Non trascorrere in tal modo i tuoi ultimi momenti di esistenza terrena. È forse così che vuoi essere ricordato? Come un poveraccio che poco prima di discendere nell'Ade si mise a tremare e tossire con occhi lucidi di paura?»
Il guerriero gorgogliò, incapace di proferire parola. Pallido in volto continuava a fissare quella tetra figura sopra di sé, terrorizzato ma incapace di staccare gli occhi da essa. Una lacrima gli scivolò dal bordo dell'occhio e sparì tra la pelle del viso e l'elmo.
Eris si morse un labbro, il suo sguardo si fece più affilato. Piegò le ali a guscio, a cingere il soldato, e in quello spazio protetto gli si avvicinò come se volesse confidare un segreto a lui e a lui solamente. «Desideri piangere, misero mortale? Temi a tal punto la venuta del Dio Thanatos da frignare come una fanciulla? Non provi disgusto per la tua persona?»
Il soldato sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Gorgogliò ancora, soffocato dal sangue che risaliva per la gola e tornava giù, in cavità dove non avrebbe dovuto andare.
Eris si allontanò dal suo viso e chinò il capo, a guardare il pugnale che chissà chi gli aveva conficcato nell'addome. Ne ammirò l'elsa intarsiata, la sfiorò con le dita. «Bello questo pugnale... ottima manifattura. Ti dispiace se quando crepi lo prendo?»
Il soldato non rispose, paralizzato dal terrore, ed Eris sorrise di più, con più gusto ancora. «Lascia che ti aiuti. Così facciamo prima...» sussurrò e con violenza spinse il pugnale a fondo.
Il guerriero scattò all'istante come folgorato, un grido gli striscò fuori dalla bocca. Sollevò le braccia nel tentativo di afferrare il pugnale ma le forze lo abbandonarono.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea senza staccare gli occhi dallo spartano. «Sbrigati! Vieni a vedere come piange questo vigliacco, prima che muoia!»
Il Dio rivolse alla sorella un gesto stizzito, di chi non è minimamente interessato. Si voltò, deciso ad andarsene.
Eris, intravedendolo con la coda dell'occhio, estrasse il pugnale facendo di nuovo gemere il guerriero, e ancora lucido di sangue se lo agganciò al cordino che le stringeva la lunga veste sui fianchi. «Te ne vai di già?» domandò alzandosi in piedi.
«Sì.» Il Dio si passò il palmo della mano sulla fronte, ad asciugare il sudore. «Sono stanco.»
«Femminuccia.»
«Taci» replicò secco, voltandosi di nuovo verso di lei. «Sono io che da mattina a sera combatto e uccido sotto il sole senza un attimo di tregua, mentre tu svolazzi allegramente qua e là come un gabbiano molesto senza fare nulla di utile!»
Eris rise sguaiatamente, come se il fratello avesse appena detto la battuta del secolo. «Oh, quanto sei stupido a pensare una cosa simile! Il contributo che do alla causa è evidente. Senza di me al tuo fianco ti saresti già fatto infilzare il didietro da cento ateniesi, quindi ringraziami!»
Ares sputò a terra e si passò il dorso della mano sulle labbra. Con un cenno del capo indicò lo scudo e la lancia abbandonati a terra. «Portameli in tenda» ordinò con tono autoritario. «Dai il tuo contributo alla causa.»
«Scordatelo. Non sono la tua sguattera.»
Il Dio si voltò senza rispondere, privo com'era delle energie e della voglia necessarie per tenere testa alle sciocche provocazioni della sorella, e rapido si incamminò in direzione dell'accampamento degli spartani.
La Dea, come se nulla fosse, riprese a sfilare e danzare di nuovo tra i morti. «Ci vediamo in tenda!» gridò al fratello ormai lontano e lui, con un cenno della mano, le fece capire che l'aveva udita.

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L'accampamento degli spartani sorgeva a qualche centinaio di metri dalle mura di Anfipoli, in linea retta rispetto al cancello principale della città. Le torce che lo avrebbero rischiarato per tutta la durata della notte erano già state accese e tra le tende l'agitazione aumentava man mano che i feriti facevano ritorno bisognosi di cure. Il medico al servizio degli spartani era intento a prestare i primi soccorsi, spargendo unguenti sulle ferite dei soldati e fasciando chi sanguinava copiosamente; gli schiavi e i prigionieri di guerra che i militari avevano portato con sé fino ad Anfipoli si stavano occupando del rancio, sorvegliati a vista, e i guerrieri che quel giorno erano di riposo, e che l'indomani sarebbero andati a dare il cambio ai commilitoni appena rientrati, erano impegnati ad allestire le pire funebri sulle quali, dopo i dovuti cerimoniali, sarebbero stati arsi i corpi dei caduti.
Ares passò in mezzo a quel via vai di soldati e servitori, continuando a mantenersi invisibile ai loro occhi.
La tenda nella quale dormiva con Eris sorgeva oltre l'accampamento, protetta dalla vista dei mortali: una cintura di nubi divine, bianche e vaporose, la cingeva rendendola impenetrabile a qualsiasi creatura che non fosse anch'essa di natura divina o che non fosse stata invitata direttamente dall'altra parte da un Dio. Nulla più che un banale trucco a cui Ares ricorreva spesso in tempo di guerra, per riposare indisturbato poco distante dai soldati mortali.
Fu sul punto di lasciare l'accampamento quando il suo sguardo cadde su una graziosa fanciulla, ritta davanti all'entrata di una tenda, la più spaziosa e regale di tutto il campo: la tenda del generale Brasida.
Rallentò il passo e la guardò: aveva i capelli color grano, raccolti in una folta treccia; il corpo era giovane, coperto da una veste dagli orli logori di terra che per quanto misera fosse non riusciva a nascondere le curve sode, tipiche della gioventù. Tra le mani reggeva una stoffa pregiata color zafferano ed era intenta ad arrotolarla con cura su se stessa, poggiandola sul ventre per agevolarsi il lavoro.
Era sola, quasi fosse stata dimenticata dal mondo, e il suo capo era chino, l'espressione cupa.
Il Dio le fu accanto, ma non fece in tempo ad ammirare più da vicino il suo bel corpo che lei si voltò e rientrò nella tenda del generale.
Con l'elmo ancora sottobraccio, Ares rimase immobile, indeciso sul da farsi. Fece girare con discrezione lo sguardo intorno a sé e quando fu certo che nessuno fosse intenzionato ad entrare nella tenda di Brasida, che ancora non aveva fatto ritorno all'accampamento, seguì la fanciulla e varcata la soglia si rivelò a lei rendendosi visibile.
La giovane fu colta di spalle da quella presenza: passi di uomo sui tappeti pregiati del generale.
Si voltò, certa che fosse Brasida, e nel trovarsi davanti quello sconosciuto fu travolta dallo stupore e si immobilizzò.
Ares le venne incontro, sicuro di sé. Con un calcio rovesciò uno sgabello dalle linee eleganti, infastidito dall'eccessiva opulenza nella quale amava riposare il generale, e gettò l'elmo sul suo letto. Su un piccolo tavolino rotondo a tre gambe era poggiata una bacinella colma d'acqua pulita, per l'igiene personale del condottiero; Ares ci affondò dentro le mani e si rinfrescò il collo e i capelli, lasciando che l'acqua gli scorresse abbondante anche oltre l'armatura.
«N-non potete fare questo!» gridò la fanciulla all'improvviso, come se il nodo che le bloccava la gola si fosse finalmente sciolto. «Questa è la tenda del generale Brasida!»
Ares si strofinò la faccia, bevve qualche sorso d'acqua e subito si sentì meglio. «Brasida mi deve ben più di una misera ciotola d'acqua, donna.» Tirò su la testa, si massaggiò il collo con le mani bagnate. «Quel borioso dovrebbe baciare la terra dove io cammino.»
La fanciulla balbettò qualcosa di incomprensibile: era sconvolta dal comportamento di quell'uomo e temeva che se non l'avesse cacciato il generale se la sarebbe presa con lei.
Ares riprese l'elmo sottobraccio e si avvicinò alla fanciulla. La differenza di statura tra loro era notevole e il Dio pensò che la giovane doveva essere alta più o meno quanto Eris. La scrutò dall'alto in basso, soffermandosi sulle curve del seno. «Sei una schiava?» domandò.
«Sì. Mi chiamo Selina.»
«Una schiava di Brasida?»
«Sì.»
Il Dio la ammirò ancora un po', serio in volto. Infine la afferrò per un polso e si voltò, deciso a uscire dalla tenda insieme a lei.
«No!» esclamò Selina irrigidendosi. «Lasciatemi andare! Sono una delle schiave preferite del generale! Ucciderà me e voi se scoprirà che-»
«Sciocca, mortale! Non l'hai ancora capito?» Il Dio folgorò con lo sguardo gli occhi azzurri della giovane che subito avvertì in tutto il corpo una sensazione violenta: un calore mai provato prima. «Chi ti sta desiderando è Ares, il Signore di tutte le Guerre! Smettila di opporre resistenza e seguilo senza fiatare!»
«Ares...» Selina impallidì. Non riusciva a credere di avere davanti a sé un Dio eppure percepiva che ciò era vero, che quello sconosciuto dai modi arroganti stava dicendo la verità. Lo sentiva nelle ossa.
«Vieni» esclamò secco Ares, che non aveva alcuna voglia di perdersi in inutili conversazioni, e di nuovo fece per uscire dalla tenda. E Selina, incapace di scegliere razionalmente chi fosse per lei più pericoloso tra il generale Brasida e il Dio della Guerra, fece inconsapevolmente la sua scelta e si lasciò trascinare via.
Insieme i due abbandonarono l'accampamento senza che in quella confusione qualcuno li notasse, e proprio quando la giovane iniziò a chiedersi dove fossero diretti, avendo di fronte a sé solo lande desolate, avvertì l'aria cambiare. La sentì farsi più densa, più pesante, e prima che se ne rendesse conto stava attraversando una nube: una nube della quale, fino a poco prima, non vi era stata alcuna traccia. E dall'altra parte della nube, Selina scoprì una larga tenda da campo, grande come quella del generale spartano, e subito capì che era là che il Dio riposava al termine delle battaglie giornaliere per Anfipoli.
Quando entrambi furono davanti alla tenda Ares le mollò il polso, certo che ormai non potesse più fuggire; gettò l'elmo, slacciò le cerniere che tenevano insieme l'armatura e se la sfilò, rimanendo con addosso solamente l'exomis, la corta tunica di lino. Riafferrò la fanciulla, stavolta per la mano, e con lei entrò nella tenda. 
Selina lanciò subito un'occhiata in giro e per un istante le sembrò di essere di nuovo nella tenda del generale tanto erano fini quegli interni tra drappi di seta, cuscini foderati di lana e brocche in ceramica decorata colme di vino: un alloggio da campo degno di un Dio.
Ma quando realizzò di essere là, in quella tenda buia insieme ad Ares, si sentì cogliere dal timore di ciò che le sarebbe accaduto, sebbene sapesse cosa avrebbe suo malgrado dovuto sopportare. Era stata stuprata più volte in passato: esperienze dolorose che l'avevano segnata ma che avevano anche temprato il suo animo, convincendola che in un modo o nell'altro sarebbe sopravvissuta a tutto quell'orrore, e così era stato. Ma farsi stuprare dal Dio della Guerra non sarebbe stata una passeggiata: per quanto Selina ne sapeva, al termine del rapporto Ares avrebbe anche potuto ucciderla, se solo gli fosse venuta voglia di farlo.
In fondo, la vita di un mortale senza gloria né virtù, per gli Dei ha meno valore di un granello di polvere. È risaputo.
Ma in quell'occasione Ares non ricorse alla forza bruta per raggiungere i propri scopi.
Accese una lampada ad olio, la poggiò accanto al letto matrimoniale che tagliava in orizzontale la tenda e si spogliò, rimanendo nudo. Con un cenno della mano fece avvicinare la fanciulla a sé e quando lei lo raggiunse, con l'atteggiamento sottomesso e timoroso tipico delle schiave, la baciò e le infilò le mani dappertutto.
Selina si lasciò toccare e spogliare, e quando fu nuda Ares la rovesciò sul letto e le montò sopra. Accaldato ed eccitato le affondò tra le cosce e subito iniziò a spingersi in lei in cerca di quel veloce appagamento con cui desiderava concludere la giornata.
E da come il Dio la stringeva e possedeva, Selina capì che non le sarebbe stato fatto alcun male, non per il momento, ed eccitata dal suo affascinante viso rosso di voglia e dall'invadenza di quel membro rigido che prepotente la stimolava nei suoi punti più intimi, perse a poco a poco il controllo di sé, quasi senza accorgersene, e scossa dai gemiti si lasciò divorare da quell'amplesso.
Aggrappato ai glutei sodi della fanciulla e stordito da quei delicati sospiri di donna, Ares continuò a svolgere la propria parte in quella sensuale danza fino a quando l'orgasmo lo aggredì quasi a tradimento facendolo gemere. Inarcò il busto affondando fino in fondo il bacino tra le gambe della giovane, e sentì la sua fessura già umida e calda bagnarsi del suo seme. Ringhiò tra i denti, folle di piacere, e in quell'euforia percepì il corpo di Selina fremere sotto di sé, i suoi gemiti farsi più forti. Capì che anche lei stava venendo e assaporando il massimo del piacere fisico e mentale la colpì con spinte aggressive, al solo scopo di eccitare ulteriormente se stesso. La fanciulla rovesciò il capo all'indietro e gemé più forte, deliziata dalla passione del Dio e da quell'orgasmo intenso, che nessun mortale le aveva mai fatto provare e che si augurò potesse durare per sempre.
Poi tutto finì, l'euforia si spense.
Ares crollò stremato: il capo affondato sui seni della giovane, i muscoli rilassati, la testa che girava come quella di un ubriaco. Si sentì appagato, finalmente sazio di emozioni forti e soddisfatto da quel dolce finale che si era concesso quasi senza pensarci e che era stato più dolce del previsto.
Selina, sfinita e col fiato corto, cinse tra le braccia il corpo caldo del Dio, e prima che la mente le si spegnesse del tutto conquistata da quell'intorpidimento si disse che avrebbe dovuto scappare; che ciò che era successo tra lei e Ares avrebbe potuto scatenare la gelosia e le ire di Afrodite, sua storica amante; che restare là, sola con quel Dio dall'indole imprevedibile che ora che l'aveva usata avrebbe potuto sbarazzarsi di lei all'istante, non era sicuro.
Ma non si mosse: il calore di lui era avvolgente, la sua stretta quasi confortante, e tra quelle braccia muscolose Selina si rilassò scivolando nel sonno.
Ares non notò il suo assopimento. Sudato e intontito si sdraiò al suo fianco, certo che la fanciulla non desiderasse altro che tornare al più presto all'accampamento in mezzo agli altri mortali e che per questo di lì a poco sarebbe fuggita, e senza pensare più a nulla chiuse gli occhi e si addormentò.

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Quando Eris fece ritorno alla tenda del fratello la volta celeste si era già tinta d'un blu profondo e splendido, impreziosito dal luccicare delle stelle; la luna era alta; il campo di battaglia fuori dalle mura di Anfipoli, vuoto. La Dea aveva sfilato tra i morti e i moribondi fino a quando l'ultimo corpo era stato recuperato, e solo allora si era decisa a ritirarsi. Con un colpo d'ali si era librata in aria e leggera aveva volato sopra l'accampamento spartano fino a raggiungere l'anello di nubi divine dentro al quale si trovava la tenda del Dio.
E una volta superate le nubi, finalmente giunta a destinazione, Eris fletté le ali e scese, avvicinandosi al lato più lungo della tenda lungo il quale Ares aveva conficcato nel terreno le proprie lance. Nel pugno stringeva la lancia che il fratello aveva lasciato sul campo di battaglia; all'avambraccio aveva allacciato il suo scudo. Nonostante detestasse sentirsi trattare da serva da lui quando insieme andavano a godersi la guerra, non lo avrebbe mai punito per questo abbandonando le sue splendide armi sul campo. Non era una cosa nel suo stile.
Si slacciò lo scudo lasciandolo cadere a terra; conficcò la lancia nel terreno, accanto alle altre. E quando ebbe le braccia di nuovo libere le distese verso il cielo e si stiracchiò.
Aveva voglia di sdraiarsi: era stata una giornata lunga e stimolante.
Svoltò l'angolo della tenda, fece per entrare e... si bloccò.
Quel corpo.
Quella pelle bianca di donna.
Quei capelli biondi, che brillavano come oro alla luce della lampada accanto al letto.
Eris si sentì travolgere da quella visione, come se un masso l'avesse appena colpita in pieno viso.
Vide Ares, nudo e col volto nascosto dietro la spalla di lei; le braccia muscolose che la cingevano inconsapevoli, ammorbidite dal sonno; le gambe distese, intrecciate in quelle pallide dell'amante. Vide i seni di quella donna, il suo ventre piatto, le sue nudità. Vide il suo viso, la sua espressione beata e soddisfatta: la tipica espressione di una fanciulla appagata dal sesso.
No...
Eris avvertì il cuore esploderle in petto; il respiro farsi folle, simile a un rantolo, quasi le mancasse l'aria. Strinse i pugni e li sentì tremanti, come se non le rispondessero più. Le guance avvamparono, le labbra si tesero in un ringhio spaventoso.
NOOOOO!
Gelosa e pazza di collera, la Dea perse la ragione.
«RRRRRAAAAAHHHHHH!»
Spalancò le ali scagliandosi sulla fanciulla, e rapida come un sicario le affondò la mano sulla bocca per impedirle di gridare.
PUTTANA SCHIFOSA! MERETRICE DAL CORPO IMPURO! TE LA STRAPPO QUESTA SPORCA BOCCA CON CUI HAI OSATO BACIARE ARES! TE LA STRAPPO FINO A RIDURLA A UN AMMASSO DI CARNE SFILACCIATA! 
L'aggressione fu violenta: le ali della Dea sfiorarono un vaso che cadde urtando il telaio in legno del letto, frantumandosi con gran fragore; la fiaccola della lampada tremò fin quasi a spegnersi; le ombre dentro alla tenda vacillarono come impazzite.
Selina spalancò gli occhi e cercò di gridare, ma il suo urlo esplose nella gola, incapace di uscire dalla bocca tappata. Eris incrociò il suo sguardo e colpita dalla bellezza di quegli occhi così graziosi si infuriò ancora di più. Affondò le unghie appuntite nella carne della fanciulla, con la brutalità di chi vuole fare del male.
Puttana!
PUTTANA!
Ares si tirò su di scatto; il viso ancora intorpidito dal sonno, l'espressione di chi non capisce cosa sta succedendo. Subito pensò ad un'aggressione nemica, a qualche bastardo che chissà come era riuscito a scovare il suo nascondiglio, ma quando vide gli occhi di fuoco della sorella il suo sgomento, invece di placarsi, si fece più intenso.
«Eris...!» esclamò con voce impastata.
Lei lo sentì in lontananza, tanto folle era il furore che le pulsava tra le tempie e nel petto. Affondò l'altra mano sulla testa della fanciulla, quasi a volerle stringere il cranio fino a spaccarlo, e le sue dita divennero un tutt'uno con quei capelli biondi che la passione aveva spettinato.
«Mmmmhh!» Trafitta dal dolore Selina tentò ancora di gridare, più forte, con più energie, ma non ci riuscì, e la Dea, tirandola per i capelli, la trascinò giù dal letto con ferocia. Cadde facendosi male all'anca e si aggrappò con tutte le sue forze a quelle mani sconosciute e incredibilmente forti che le stritolavano la testa.
Eris percepì la debolezza di quel collo sottile e fragile, che la sua furia stava mettendo a dura prova.
TE LO SPEZZO! GUARDA COME TE LO SPEZZO! TI AMMAZZO COME UNA GALLINA! CHE MIO PADRE ZEUS MI SIA TESTIMONE, GIURO CHE TI AMMAZZO!
La Dea trascinò la giovane fuori dalla tenda e il buio della notte le avvolse entrambe. Anche Ares uscì, nudo e traballante, e là si bloccò senza muovere più un muscolo.
«Puttana...» sibilò Eris con voce di vipera chinandosi sul viso bianco di paura della fanciulla. Le unghie conficcate nelle guance avevano lacerato la pelle e il sangue stava iniziando a scorrere in rivoli sottili.
Fu sul punto di accanirsi a mani nude su quel corpo, decisa ad aprirlo fino a riversarne le viscere sul terreno, quando si ricordò del pugnale agganciato alla cintura: l'arma che aveva sottratto allo spartano morente. Rapida lo estrasse con una mano liberando la bocca della fanciulla, che non ebbe il tempo di gridare tanto era senza fiato, e con un colpo secco lo affondò nel suo fianco fino all'elsa.
«Aaaaahhh!» Il corpo di Selina si contrasse, i suoi occhi si fecero enormi. Gridò ma il suo urlo fu subito spezzato dalla furia di Eris, che incapace di fermarsi la accoltellò a raffica, un colpo dopo l'altro, sempre più veloce.
Eccitata dalla resistenza che opponevano le ossa e i muscoli, la Dea colpì con più forza ancora e ancora, schizzandosi di sangue il viso. L'addome della giovane si squarciò, gli organi si mescolarono tra loro come pezzi di carne in una zuppa.
Selina rovesciò gli occhi all'indietro ma Eris, quasi a volerle infliggere un'ultima violenza prima che la morte le concedesse la grazia di sottrarsi a quel supplizio, le tirò indietro il capo e le tagliò la gola da parte a parte. Il sangue sgorgò a fiotti da quella ferita  e solo allora, quando la giovane era ormai ridotta a un cumulo di carne bucherellata priva di vita, Eris si fermò.
Ansimante per lo sforzo, si alzò in piedi; le braccia rosse di sangue fino ai gomiti, il capo chino, a fissare la sua vittima.
«Eris...» Sconvolto ma in qualche modo anche eccitato da quella truce aggressione, Ares chiamò la sorella. «Cosa...»
La Dea, fulminea come un falco, gli si scagliò addosso con le ali spalancate; il pugnale alzato, gli occhi ancora rossi di fuoco. «NON OSARE MAI PIÙ!» ruggì aggredendolo con una voce così potente da scuotere gli Inferi; la lama poggiata di piatto sul suo collo virile, pronta ad affondare nella pelle. «MAI PIÙ! HAI CAPITO?»
Ares si irrigidì, sgomento. Sapeva che la sorella non lo avrebbe mai sgozzato come un agnello, eppure quella minaccia lo sconvolse. Aprì la bocca per parlare ma lei lo anticipò.
«SONO STANCO, ERIS! SONO STANCO!» urlò la Dea facendogli il verso. «STANCO, MA NON A SUFFICIENZA DA RIFIUTARE LE ATTENZIONI DI QUALCHE PUTTANA!»
«E-Eris... lo sai che occasionalmente mi intrattengo con altre... e ciò non ha mai suscitato la tua gelosia...»
«NON QUI, ARES!» ringhiò la Dea avvicinandosi al viso del fratello e ansimandogli addosso come un toro impazzito. «NON QUI!»
Ares tacque, deciso a lasciare che quello sfogo d'ira si esaurisse da sé. Era consapevole che qualsiasi cosa avesse cercato di dire in propria difesa avrebbe unicamente infiammato ancora di più l'animo già rovente di Eris e allora si limitò a guardarla negli occhi, immobile e con un accenno di senso di colpa nello sguardo: non aveva capito con precisione come, ma sentiva di averla ferita.
Ed Eris, negli occhi ambrati del fratello, ritrovò a poco a poco la calma. Il furore si spense, la sua espressione mutò facendosi cupa, quasi triste. Abbassò lenta il pugnale e infine lo gettò a terra. «La guerra è il nostro regno...» ansimò con voce tiepida e con lo sguardo ora basso. «Il nostro rifugio. Nel calore della battaglia e nel fragore degli eserciti io e te siamo uniti. Felici.» Tornò a guardare il Dio e gli rivolse un'occhiata colma di sofferenza. «Qua tu sei mio e solo mio. Non c'è Afrodite, non c'è nessuna. Ma oggi...» Eris fece una pausa, quasi le mancasse la forza di continuare. «Oggi tu hai preferito l'ennesima puttana a me, inquinando con la tua schifosa lussuria la nostra unione, i nostri momenti...»
Ares avvertì un'ondata di empatia e mortificazione gonfiargli il petto.
Oh, Eris! Come puoi essere così sciocca? Come puoi pensare che una qualsiasi mortale possa mai prendere il tuo posto? Nessuna sarà mai come te... tu, che da sempre mi accompagni in ogni guerra, che sei stata la prima donna con cui abbia condiviso il letto e il piacere, che mi guardi sempre e mi sei fedele come la più devota delle mogli... Non ho agito con l'intenzione di ferirti. Perdonami. Non accadrà più.
Il Dio della Guerra, incapace di sbrogliare quella matassa di emozioni aggrovigliate attorno al cuore e del tutto privo dell'audacia necessaria per esprimerle a parole, si limitò a fare l'unica cosa che sapeva fare bene: ricorrere alla fisicità.
Abbracciò Eris, forte, sperando che quella stretta riuscisse a comunicarle tutto il proprio dispiacere.
Lei inizialmente non si mosse e rimase gelida, ma poi, di nuovo conquistata dal fratello e incapace di resistergli, lo abbracciò ancora più forte. «Idiota...» sussurrò col viso nascosto sul suo petto nudo. Ora era calma, le sue movenze quasi infantili: della Dea dagli occhi di fuoco che appena pochi istanti prima aveva sbudellato una fanciulla a pugnalate non vi era più alcuna traccia. «Hai visto cosa mi hai fatto fare?»
Ares sorrise e la violenta passione che da quando era ragazzo provava per la sorella gli traboccò in corpo facendolo tremare dalla voglia di averla con sé, più vicina ancora. La sollevò e la prese in braccio stringendo le sue cosce ai suoi fianchi, e subito lei gli si agganciò addosso, deliziata da quella posizione. «Sì, ho visto cosa hai combinato» rispose con finto tono di rimprovero, sfiorandole il naso col suo. «E mi è piaciuto...»
Eris rise e senza dire più nulla rimase là, stretta all'amato fratello, fronte contro fronte, e insieme a lei Ares assaporò in silenzio l'intensità di quella ritrovata sincronia, quella passione viscerale che mai prima di allora era stata così forte.
Sapevano entrambi cosa stavano pensando
(ti adoro)
(anch'io ti adoro, idiota)
ma duri e orgogliosi com'erano non se lo sarebbero mai detti, e in fondo non ce n'era bisogno.

14 commenti:

  1. *^* Questi due li adoro! Mi è piaciuta, molto. Complimenti.
    Veleno

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  2. Mi mancava un così ben fatto racconto (inventato ovviamente) sulla mitologia greca e su questi due, che nei vari testi/racconti non si capisce mai in quale diavolo di rapporto siano. Ma tanto siamo in Grecia antica, non mi stupisco più di nulla :"D
    Semplicemente l'ho adorata, anche come è scritta.

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  3. Un'accoppiata fantastica, due personaggi invitanti come poco e un rapporto nient'affatto scontato. Racconto di ottima qualità, mi complimento e ne attenderò di futuri su queste due divinità.

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  4. Ares ed Eris, una delle mie coppie mitologiche preferite, soprattutto per questo loro rapporto intricato ed affascinante che ce li ha fatti vedere un po' in tutte le salse: complici, nemici, fratelli, amanti... insomma, se non si fosse capito, li adoro! E questa tua storia è veramente ben scritta, i miei complimenti!
    Non vorrei risultare sfacciata, è solo un mio pensiero personale e come tale ti chiedo di prenderlo, ma ora mi piacerebbe tanto vedere i ruoli invertirsi: Ares geloso di Eris.
    Perché, suvvia, Eris sarà pure violenta e crudele, ma è pur sempre una donna, e sappiamo tutti che Ares sa essere alquanto possessivo con le proprie amanti...
    Comunque sia, rinnovo i miei complimenti e a presto!

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    1. Di sicuro Ares è geloso di Eris, perché, come hai già detto tu, ha sempre dimostrato di essere un amante molto possessivo... però è altrettanto vero che (stando ai miti originali) Eris gli ha dato ben poche occasioni per essere geloso: non si è mai sposata né ha avuto compagni, e secondo Esiodo i figli che ebbe li fece da sola... Personalmente la vedo molto fedele come personaggio, nel senso che a lei Ares basta in tutti i sensi, mentre lui invece riesce ad apprezzare e amare anche altre donne, motivo per cui è più facile vedere lei gelosa di lui piuttosto che il contrario. Comunque prima o poi scriverò qualcosa per evidenziare la gelosia di lui, che sono certa ci sia eccome!

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  5. Mi permetto di commentare, poiché credo che una storia del genere lo necessiti come non mai.
    Sono molto fan della vostra pagina Facebok, ma solo recentemente mi sono accorta dell'esistenza di questo magnifico blog. E non ho potuto fare a meno di leggere quasi tutte le storie postate, sono una meraviglia; complimenti soprattutto per la fedeltà alle atmosfere dell'Antica Grecia che hai saputo ricreare nei racconti, personalmente poi adoro le descrizione dettagliate, quindi hai fornito pane per i miei denti senz'ombra di dubbio.
    Adoro ogni tipo di mitologia, studio scandinavistica all'Università, quindi ormai sono più ferrata in ambito norreno, ma la mia vecchia passione di matrice classica si è facilmente risvegliata con queste letture mozzafiato.
    Vorrei soffermarmi sul personaggio di Eris: per motivi di studio avevo letto tempo fa un saggio che la ricollegava alla figura di Loki, come divinità "disprezzate" ed escluse dal resto del Pantheon, poiché portatrici di dissidio e chaos, banalmente. Tutto ciò mi ha sempre scaturito una certa compassione nei confronti di queste figure, specialmente perché sono molto più umane e complesse di quanto sembrerebbe rispetto ai colleghi divini, che forse risultano più archetipi. E il modo in cui hai costruito il personaggio di Eris è esemplare, il modo in cui reagisce ed esprime ciò che sente, tutto mi crea un rimescolio emotivo fortissimo per la grande umanità che si porta appresso; e non posso negarti che le dinamiche da coppia vera e propria (ma anche da gemelli) che si creano con Ares sono da far venire i brividi. Personalmente li preferisco molto più alla canonica Afrodite/Ares, nonostante ne riconosca il valore archetipico appunto, ma mai per me avrebbero l'umanità e la carica emotiva che riescono a esprimere questi due, mi ripeto: Eris particolarmente.
    Sei una scrittrice coi fiocchi, spero di poter leggere ancora di tuo e che tu possa trovare sbocchi anche di un certo tipo! ;)

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    1. Ti ringrazio per questo bellissimo commento, forse uno dei più lusinghieri che abbia mai ricevuto! E sì, penso che si noti da come scrivo che Ares ed Eris sono due personaggi che adoro tantissimo, proprio perché hanno dinamiche interessanti... (però è tutto personale, c'è anche molta gente che non li sopporta! O meglio, che non sopporta Eris :D )

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  6. Mi chiedevo come due personaggi violenti e brutali come Eris e Ares potessero in qualche modo capitolare in un dolce idillio;leggere come tu sia riuscita a concludere in maniera così dolce mi ha davvero stupita. Pensavo che il tutto si sarebbe concluso in maniera più lasciva, invece hai creato questo un mondo unico e speciale dove solo Eris é la compagna perfetta per il possente e brutale dio della guerra capace di donargli non solo violenza ma anche dolcezza e gentilezza(a modo loro ovviamente =") ). Bellissima storia grazie <3

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  7. La storia è stata raccontata bene, mi è piaciuta, ma onestamente dopo aver letto il racconto penso che Eris e Ares siano due figli di *******, vorrei tanto vederli in un disegno massacrati da Kratos

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