Un’atmosfera elettrica, satura di ansia e timore, avvolgeva Tebe dall’alto stritolandola nella sua invisibile morsa. Le case di pietra grezza erano vuote; le strade gremite di tebani terrorizzati che gridavano e piangevano con le mani tra i capelli. Tutti avevano sentito il terremoto; quel tremendo boato che aveva fatto vibrare ogni mattone e che in un attimo li aveva scaraventati fuori dalle loro piccole abitazioni e botteghe, a cercare l’esterno. Era stato terrificante, ma anche rapido e squilibrato, come se tutta la potenza della scossa si fosse concentrata in un unico punto della città: il palazzo reale di Cadmo. Perché malgrado la paura e la violenza del terremoto, nessuna casa di Tebe era crollata; nessun tebano era rimasto ferito. La sciagura si era abbattuta proprio sulla dimora del re ed era là, alle mura del palazzo, che ora convergevano gli sguardi lacrimosi dei cittadini, e tutti si chiedevano cose ne sarebbe stato della città se l’amato fondatore e la sua famiglia fossero rimasti vittime di quella disgrazia. Dopotutto, lo spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi non lasciava presagire nulla di buono: una parte del palazzo, quella più a est, dove si trovavano gli alloggi privati della principessa Semele, era irrecuperabilmente danneggiata e stava per collassare su se stessa; dalle finestre uscivano fumo nero e lingue di fuoco. Pochi minuti e di essa sarebbero rimaste solo macerie.
Giunto
a Tebe, Hermes capì immediatamente dove doveva andare. Saettò sopra la folla e
la frenesia di quella calca gli fu subito addosso: bambini urlanti, cani che
abbaiavano, donne dal viso rosso e lucido che singhiozzavano e imploravano gli
Dei. Il messaggero non li degnò di uno sguardo e si lanciò in direzione del
palazzo; una scheggia dorata nel blu del pomeriggio. In pochi lo videro e lo
riconobbero, tanto fugace fu la sua apparizione, ma quei pochi lo avrebbero in
seguito ricordato, quando quel giorno e quegli eventi sarebbero sfociati nel
mito e così consegnati all’eternità. Ma era ancora presto, la storia ancora in
corso, e come una freccia scoccata dal cielo Hermes perforò la fitta coltre di
fumo e fiamme che usciva dalle finestre della camera di Semele, e vi s’infilò
dentro.
Subito
lo accolsero il calore e il fuoco; nastri roventi, rossi e gialli, gli sfarfallarono
addosso senza scalfirlo. L’aria era fosca e densa, il puzzo di bruciato
pungente.
D’istinto,
il Dio espanse la propria aura celeste; uno scatto di energia intensa, che come
un’enorme bolla d’aria fresca spinse il fumo fuori dalle finestre, dando un po’
di respiro all’ambiente. Con la coda dell’occhio percepì la devastazione che lo
circondava. Le fiamme si erano attaccate ovunque: tavoli, scranni, cassoni,
tende. Gli ampi tappeti che coprivano il pavimento ardevano come paglia; il
soffitto di pietra e legno, da cui piovevano cenere e scaglie di calce, aveva
già ceduto sul fondo e due possenti travi erano crollate davanti alla porta,
bloccandola con un muro di fuoco. Hermes sentiva le grida dall’altra parte
della barriera: qualcuno stava tentando di entrare, ma le travi erano troppo
pesanti.
Non
era un suo problema.
Il
suo unico problema era là, davanti a sé.
Si
passò una mano sulla bocca e si gettò verso il talamo al centro della stanza.
Il fuoco ne cingeva la struttura in bronzo, tentando d’intaccarla; il materasso
era in fiamme; polvere e scintille galleggiavano nell’aria torrida e
crepitante, conferendo a quello scenario di distruzione un’atmosfera
insolitamente bella. E su quel letto di fuoco, così simile alle pire funebri su
cui ardevano i corpi degli eroi, Semele giaceva nuda e immobile, irrorata della
luce dell’incendio.
Facendo
di nuovo ricorso alla propria aura, Hermes scaricò sul talamo una violenta
ventagliata d’aria, che spense buona parte delle fiamme che si stavano
divorando il materasso, e finalmente vide la fanciulla nel cui ventre si celava
il fratello o la sorella che avrebbe tentato di salvare.
Subito
sentì lo stomaco annodarsi; il volto accartocciarsi per il disgusto.
Della
Semele che, con la sua grazia e giovinezza, aveva fatto innamorare Zeus non
rimaneva che un macabro pezzo di carne dai contorni umani. Il cranio era calvo,
sfigurato dal fuoco; la pelle del corpo ruvida, carbonizzata alle estremità e
ustionata nei punti più interni; il viso secco, da vecchia, al quale le fiamme
avevano bruciato sopracciglia e guance.
Hermes
non la guardò più del dovuto né le offrì la propria pena: in fondo era solo una
mortale come tante altre. Alzò una mano e la posò sul suo ventre bollente e
curvo per la gravidanza, cercando di avvertire l’energia divina del piccolo
all’interno di quelle carni fumanti.
Nulla.
Non
un movimento, non un guizzo di vita. Solo la sgradevole, quasi insopportabile
ruvidità di quella pelle morta e bruciacchiata.
Ma,
d’un tratto, ecco un palpito!
Lievissimo,
al limite dell’impercettibile, come la luce di una candela sul punto di
spegnersi.
Serio
e concentrato quanto un segugio da caccia, Hermes distese di più le dita, per
assicurarsi di averlo davvero percepito, ma non sentì null’altro che piattezza.
Attese
uno, due, tre, quattro secondi.
Niente.
Prese
un respiro profondo; il suo sguardo si fece duro di determinazione. Con la mano
scese alla cintola di cuoio e sganciò il coltello che si era portato dietro
dall’Olimpo: un pugnale corto e dritto, di manifattura tracia, recuperato al
volo dal proprio tempio poco prima di discendere nel mondo dei mortali. Ne
fissò la lama, affilatissima, e in essa vide riflessi i propri occhi, risoluti
come quelli del Dio guerriero a cui aveva rubato l’arma parecchi anni addietro.
Poteva
farcela.
Doveva
farcela.
Serrò
il pugno attorno all’elsa e affondò il pugnale nella carne di Semele,
cominciando a tracciare una linea orizzontale al di sotto dell’ombelico. Il
filo della lama aprì pelle e muscoli; liquido trasparente e sangue sgorgarono dal
taglio, scivolando sui fianchi della donna. Fu un’operazione veloce: nulla più
che un solco della lunghezza di una spanna e il Dio ritirò il coltello, inspirò
a fondo e trattenne il fiato, mentre con le dita della mano libera tentava di
penetrare in quella fessura carnea e di allargarla, in modo da poter estrarre
il piccolo.
Avanti… avanti…
Qualcosa
scoppiò alle sue spalle, divorato dall’incendio; le travi del soffitto
scricchiolarono, curvandosi pericolosamente con una pioggia di schegge e
cenere. La distruzione totale era imminente.
Hermes
imprecò e ritrasse la mano, ora sporca di sangue mortale: il taglio era troppo
stretto. Senza perdersi d’animo, posò la punta del pugnale al centro della
linea rossa appena tracciata e incise ancora, stavolta in verticale, verso il
basso: un solco cortissimo e poi un altro, lungo e orizzontale come il primo,
dal quale fluì altro liquido e altro sangue.
Doveva
aprire quel ventre.
Doveva
aprirlo così come si aprono le ante di un armadio, malgrado il rischio di
passare la lama sulla fragile e minuscola creatura al suo interno fosse
elevatissimo. Dopotutto, le circostanze non gli stavano offrendo molta scelta.
Ecco!
Rapido,
il Dio estrasse il pugnale, lo lasciò cadere sul letto e calò entrambe le mani
sull’addome di Semele. Di nuovo avvertì lo stomaco serrarsi, mentre con le dita
scendeva ad allargare quell’apertura nella carne, trovandola finalmente
accessibile. Strinse le labbra e cominciò a esplorare, ad andare a fondo. Sentì
il sangue e il liquido amniotico traboccargli tra le dita; la carne aprirsi al
suo passaggio, facendosi sempre più calda e molle. Deglutì, strizzò gli occhi e
deglutì ancora, col cuore che gli correva in petto come non mai, e finalmente
in quell’umida conca le sue mani sfiorarono qualcosa di consistente.
Qualcosa
di vivo.
Subito
ne sentì l’energia sotto le dita: un’aura flebile, affaticata, morente.
Era
la creatura. Non c’erano dubbi.
Con
decisione, Hermes affondò le mani nel ventre aperto fino ai polsi, tentando di
afferrare il corpicino da sotto. Vide la sua luce d’oro brillare debolmente tra
quelle carni morte, come un lumicino in fondo a un pozzo. Non era facile
stringerlo, umido e scivoloso com’era; inoltre la sua pelle non era affatto
liscia, come se uno strano e ruvido involucro lo avvolgesse dalla testa ai
piedi. E quella sensazione di corpo estrano, di sacca anomala, al messaggero non piaceva per niente.
Andiamo! Vieni fuori…
Afferrandola
un po’ dappertutto, alla fine il Dio riuscì a sollevare ed estrarre la
creaturina. Non ebbe neppure bisogno di recuperare il coltello e tagliarle il
cordone ombelicale, che esso si staccò da solo dal grembo morto di Semele, penzolando
per metà dal corpicino.
«Eccoti!» esclamò Hermes con un sorriso
spontaneo, che traboccava gioia e soddisfazione. Ma nel guardare bene la sua
conquista, alla chiara luce dell’incendio che divampava tutt’intorno, il Dio
perse il sorriso e sobbalzò per lo stupore. Stringeva tra le mani un bimbo di
dimensioni minute; un maschietto con gli occhi chiusi e i pugni stretti, che
irrorava un tenue bagliore divino e che avrebbe necessitato ancora di qualche
mese di gestazione prima di poter essere chiamato neonato. Ma non fu l’esile
corporatura del piccino a impressionare il messaggero, quanto piuttosto il suo
aspetto generale: il bimbo era avvolto da tralci di edera verdissima, che gli
correva sulla pelle e lo fasciava tutto come una bizzarra rete vegetale.
Il
Dio sbatté le palpebre, contemplando con fascinazione quello strano esserino di
fronte a sé, e a poco a poco il suo sorriso riaffiorò, più luminoso di prima.
«Certo
che sei strano forte tu…» disse sfilandosi il mantello dalla spalla e
avvolgendovi dentro il bimbo, a mo’ di fagotto, e subito se lo portò al petto.
Con una mano gli spostò una foglia d’edera dal nasino, cercando di vederlo
meglio in viso. Era così piccolo, così fragile nella sua acerbità al punto da
non riuscire neppure ad aprire la bocca e piangere, ma in un certo senso era
anche estremamente forte, come tutti i figli di Zeus.
«Eh,
sì… sei proprio strano. Ma mi piaci.»
Hermes
sorrise al bimbo un’ultima volta e con delicatezza gli rimboccò il mantello fin
sopra la testolina incoronata d’edera, per proteggerlo dalla furia
dell’incendio. Infine recuperò il pugnale, se lo agganciò alla cintola e
tenendo ben stretto il piccolo a sé si gettò fuori dal palazzo di Cadmo,
sfrecciando verso il Monte Olimpo.
Con
un tamburellio di dita sempre più impaziente, Zeus attendeva il ritorno del
messaggero inviato a Tebe, sistemandosi e risistemandosi sul trono di continuo.
Era in trepidazione: alla fine aveva ceduto all’invogliante richiamo della
speranza e, come Hermes, si era convinto che quell’esserino immaturo, nelle cui
vene scorreva l’icore d’oro degli Dei, potesse davvero essere ancora vivo, nonostante la morte del grembo materno
che lo custodiva. E più passava il tempo, quel fluire di attimi spietatamente
lenti, silenziosi e identici l’uno all’altro, più il bisogno di sapere gli tormentava
il cuore.
Doveva sapere e infine andare avanti.
Finalmente
avanti.
Ma
quanto era arduo resistere a quell’attesa! Quanto era faticoso tenere a freno
la mente che indomita lo riportava indietro, al momento in cui aveva accarezzato
il ventre di Semele e se n’era andato di gran fretta, lasciandosi l’incendio
alle spalle! E poi perché, per quale maledetta ragione Hermes ci stava mettendo
così tanto a ripresentarsi al suo cospetto? Era forse questo il massimo che
sapeva fare il Dio più veloce di tutta la Grecia?
Zeus
serrò le labbra; le sue dita tamburellarono con rabbia sui freddi braccioli,
rapide, sempre più rapide. Non ne poteva più di aspettare, di sentirsi così inutile; lui, il Signore dei Tuoni,
paralizzato sul proprio trono come un miserabile qualsiasi. Ma cosa avrebbe
potuto fare? Precipitarsi a Tebe per godersi un orribile faccia a faccia con il
cadavere semi-carbonizzato di Semele? Non lo aveva fatto prima e di certo non
lo avrebbe fatto ora che Hermes stava eseguendo i suoi ordini.
No.
Che gli piacesse o meno doveva restare là, a crogiolarsi nell’incertezza e a
soffiare fuori dalle narici il puzzo di carne umana bruciata; quel
raccapricciante odore fantasma che chissà quando sarebbe svanito dalla sua
memoria. Non c’era null’altro di sensato da fare e in fondo, molto in fondo, il
Dio lo sapeva.
Finirà. È solo un giorno. Solo un…
All’improvviso,
una raffica di vento dorato penetrò dal colonnato frontale del tempio. Rapidissima
e perforante come un giavellotto, tagliò in due la massa d’aria che riempiva il
naos e si arrestò di fronte al trono,
schiaffandogli addosso tutta la propria energia cinetica.
D’istinto,
Zeus chiuse gli occhi, mentre lo spostamento d’aria gli scompigliava capelli e
veste, e non appena li riaprì si trovò davanti Hermes. Sussultò, come se
qualcuno gli avesse dato un pizzicotto dietro il collo: il giovane Dio
sorrideva e tra le braccia stringeva un fagottino.
«È vivo, Padre!» esclamò lui, con
palpabile entusiasmo, e subito offrì al sovrano il bozzolo di stoffa. «Ho fatto
appena in tempo!»
Zeus
non pensò a nulla. Scattò in piedi, tese le braccia e cinse il fagotto,
stupendosi immediatamente per la sua leggerezza. «È vivo…» ripeté incredulo fra
sé e sé, mentre con una mano alzava un lembo di quell’involto tutto pieghe, per
poter vedere il visino della sua creatura.
Hermes
si sporse a sua volta, fluttuando nell’aria. «È un maschio…» disse con un largo
sorriso. «Ed è molto strano,
credimi…»
Il
sovrano rivolse al Dio un’occhiata perplessa, come se non avesse capito bene, e
incuriosito tornò a guardare giù, nel fagotto ora mezzo sciolto, e finalmente
vide suo figlio. Gli occhietti stretti; le guance tonde e rosse; le manine
minuscole, da bimbo in fasce; e infine la splendida, verdissima edera che lo avviluppava tutto, come un’insolita
protezione naturale.
«Ma
che…?» Sorpreso, Zeus passò la mano sopra quelle foglie e le sentì vive, come
vivo era il piccino che stringeva al petto.
«Era
già così quando l’ho estratto dal grembo materno. Non avevo mai visto nulla di
simile…» Hermes scrutò il bimbo e d’un tratto la sua espressione s’intristì: il
bagliore emanato da quel corpicino minuto si stava affievolendo. «È molto
piccolo, Padre. Non piange, si muove a malapena… la gestazione-»
«Lo
so, lo so. Il suo sviluppo non è completo» lo interruppe Zeus, fermando ogni
altra sua parola con un gesto della mano. Aveva bisogno di pensare, di trovare
una soluzione, e doveva farlo in fretta. E proprio mentre era là a testa china,
a vagliare ogni possibilità di fronte a sé, notò il coltello appeso alla
cintura del figlio: era ancora sporco del sangue di Semele, ma nel vederlo Zeus
non fu colto dalla malinconia, quanto piuttosto da un impeto di entusiasmo. Quella
lama rossa gli aveva offerto l’idea che stava cercando.
«Hermes.»
Il
messaggero alzò il mento.
«Vola
da Efesto e fatti consegnare un ago e del filo d’oro. Digli che è un mio ordine
e che non c’è tempo per le domande.»
Hermes
aggrottò la fronte, confuso da quella richiesta, ma superata la sorpresa
iniziale annuì e sfrecciò fuori dal tempio.
Zeus
sospirò e col fagotto tra le braccia cominciò a passeggiare avanti e indietro,
di fronte al maestoso trono. Sapeva che Efesto, pur essendo un fabbro, utilizzava
anche aghi e fili lucenti per realizzare le sue opere di gioielleria, ragion
per cui Hermes non avrebbe fatto alcuna difficoltà a tornare con quanto gli era
stato ordinato… se solo non fosse
incappato in Era durante il tragitto.
E in quel malaugurato caso,
che cosa le avrebbe raccontato? Come avrebbe giustificato quel pugnale sporco
di sangue, agganciato alla cintola? Non era un guerriero né un cacciatore e
molto probabilmente la Dea si sarebbe insospettita. Eppure lui era Hermes, il
maestro della menzogna! Avrebbe sicuramente schivato il colpo in qualche modo, sconfiggendola
col suo talento di bugiardo professionista. Ma se non fosse andata così? Se Era
fosse riuscita a leggergli dentro, nel profondo degli occhi, e avesse capito
che in realtà stava nascondendo qualcosa? Se si fosse precipitata al tempio,
pazza di gelosia, cosa sarebbe accaduto?
Zeus
strizzò gli occhi, tentando di sgombrare la mente da quei pensieri paranoici. Gli
pulsava ancora la fronte per il mal di testa, ma perlomeno il tanfo di carne
bruciata era svanito e ora nelle narici percepiva solo il profumo del piccolo
avvolto nel fagotto. Lo avvicinò al proprio viso, per guardarlo meglio, e
l’odore di pelle e foglie d’edera gli inebriò l’animo, strappandogli un sorriso
stanco. Era davvero un bimbo delizioso.
«Eccomi!» esclamò il messaggero, di
ritorno al tempio, e con divina precisione arrestò la propria corsa a pochi
passi da Zeus. «Ho recuperato ago e filo d’oro, come avevi ordinato.»
Il
sovrano si voltò verso di lui e gli affidò il fagotto. «Questo mio figlio per
sopravvivere necessita di altri tre mesi di gestazione e poiché la povera madre
è morta sarò io a custodirlo e a condurlo a pieno sviluppo» annunciò con voce
ferma.
Il
giovane Dio sbatté più volte le palpebre, sbigottito. «Tu, Padre?»
Zeus
annuì. «Lo cucirò qua, dentro la coscia, e la mia carne sarà per lui l’utero di
cui ha bisogno.» Alzò un braccio e indicò la cintola del figlio. «Svelto, dammi
quel coltello. Non possiamo perdere altro tempo.»
Hermes
sorresse il fardello con un braccio e con la mano libera sganciò il pugnale
dalla cintura di cuoio. Indugiò un istante e infine lo diede al padre.
Armato,
Zeus andò a sedersi sul trono, si sollevò la tunica fino a scoprire interamente
la gamba destra e affondò con decisione la lama nella carne, di poco sopra il
ginocchio. Si morse un labbro, forte, per reprimere il dolore, mentre col pugno
serrato saliva sulla coscia, aprendone pelle e muscoli. La sofferenza si fece pungente;
gocce d’icore dorato scivolarono dallo squarcio, rotolando sulla superficie
liscia del trono.
Il
messaggero s’irrigidì, impressionato da quell’atto di truce autolesionismo che
solo più tardi, a cuore calmo, avrebbe riconosciuto come manifestazione
d’amore. Accarezzò la testolina del piccino, assopito tra le fasce, e fu sul
punto di domandare al padre se ci fosse qualcosa che potesse fare per lui,
quando il Dio estrasse il coltello dalla coscia e lo lasciò cadere a terra, con
uno schiocco metallico. Ma non era finita, non ancora, e con lo slancio di un
cacciatore pronto a sviscerare la sua preda, Zeus affondò le dita in quello
squarcio, dilatandolo.
«Agghhh!» Il dolore si fece immenso, ma
con la sua potenza il sovrano riuscì a dominarlo, e creata una conca nella
coscia si rivolse al figlio, a pochi passi da sé. «Avvicinati, presto» lo
esortò, tenendo aperta con entrambe le mani la ferita nella carne. «Devi
aiutarmi a spingere dentro il bambino.»
Malgrado
la tensione, Hermes mantenne i nervi saldi e reagì con prontezza: spogliò il
piccolo, s’inginocchiò davanti al padre e cominciò a introdurre quella
creaturina tutta edera nella conca dorata. La testa scivolò dentro per prima,
come un insolito parto all’incontrario, e subito Zeus sperimentò una sensazione
strana, un formicolio mai provato prima: le foglie di edera, sul capo del
piccolo, si stavano infilando tra le fibre della sua carne come nastri di
resina tra i solchi di una corteccia.
Hermes
sentì la pelle delle braccia accapponarsi: chino com’era sulla gamba del padre
vedeva con estrema nitidezza i tralci vegetali fremere nell’umidità dei
muscoli, allungarsi e infine aggrapparsi ad essi con selvaggia aggressività. «Tutta
quest’edera… forse dovevamo togliergliela» mormorò, in un attimo di
vacillamento.
«No.
Si è formata con lui nel ventre materno, non sta a noi rimuoverla» replicò
secco Zeus, mentre con la mani allargava di più la ferita, regalandosi un’altra
scarica di acuto dolore: il piccolo era quasi del tutto dentro.
«Ecco,
ecco, ci siamo» disse Hermes con una punta di eccitazione, mentre la creaturina
scivolava interamente nella robusta coscia. Vide il suo mezzo cordone
ombelicale stringersi alla carne viva di Zeus e divenirne un tutt’uno; l’edera
abbarbicarsi su ogni filamento muscolare, come se volesse succhiarne avidamente
la forza; i pugnetti serrati alzarsi sul visino addormentato e inconsapevole di
tutto.
Vivrai, pensò il messaggero, sfiorando per l’ultima volta la tonda guancia
del piccolo. Poi alzò il capo e guardò il padre.
«Ago
e filo» ansimò Zeus avvicinando ora i lembi di pelle, per chiudere la ferita.
Hermes
si portò una mano alla spalla e dal risvolto interno della tunica estrasse
l’ago, al quale il meticoloso Efesto aveva già infilato il filo d’oro nella
cruna. Lisciò il filo tra pollice e indice, e inginocchiato di fronte alla
gamba del padre esitò per qualche istante, alla ricerca del punto ideale per
cominciare a suturare la ferita. La pelle era lucida di sangue; i contorni
dello squarcio confusi, in un sormontarsi di carne lacerata.
«Lascia,
faccio io!» esclamò Zeus, con
evidente nervosismo. «Tu appoggia le mani qua e premi forte.»
Il
messaggero consegnò l’ago al sovrano e fece quanto gli era stato ordinato,
malgrado le dita continuassero a scivolargli dentro e fuori dall’umida ferita:
non era affatto facile tenere vicini quegli spessi lembi di carne, ma in un
modo o nell’altro doveva riuscirci.
Preso
un ampio respiro, Zeus chinò di più il busto e cominciò a suturare la ferita
con il filo d’oro: punti stretti, serrati, in grado di reggere il peso del
piccolo che in quell’utero improvvisato avrebbe dovuto crescere. E man mano che
il filo trapassava la pelle, chiudendola su se stessa, Hermes vedeva il fioco
bagliore del bimbo farsi sempre più evanescente, difficile da afferrare, fin
quando lo vide svanire del tutto non appena il padre passò l’ago per l’ultima
volta, completando la sutura.
Era
finita: il piccolo era tornato nel suo oscuro mondo prenatale.
Sfiniti
dall’esperienza, i due Dei sospirarono all’unisono, come svuotati d’ogni
energia. Zeus, seduto sul trono, lasciò cadere l’ago, abbandonò le braccia sui lunghi
braccioli e rivolse il capo all’indietro, a fissare il soffitto con occhi
stanchi. Hermes lanciò un ultimo sguardo alla sutura di fronte a sé, poi si
alzò in piedi, recuperò il pugnale, raccolse da terra il mantello in cui aveva
avvolto il bimbo e tra le pieghe passò la lama sporca di sangue, per pulirla.
Per
un po’ nessuno parlò, fin quando il sovrano non calò una mano e cominciò a
massaggiarsi la coscia, con aria provata. Allora il messaggero ruppe il
silenzio.
«Come
ti senti, Padre?» domandò.
Il
Dio rispose con un cenno del capo, ad indicare che stava bene: non aveva molta
voglia di parlare.
«Sai…»
continuò l’altro, agganciando il coltello alla cintola con un mezzo sorriso. «Sono
curioso di sapere che nome gli darai…»
Zeus
non rispose subito, limitandosi a contemplare il soffitto. Era distratto dai
movimenti del figlioletto dentro la coscia; dal modo in cui, attraverso la
fibre della carne, riusciva a percepire tutto
di lui, compresa la sua energia divina e i suoi stati d’animo. Era, e sarebbe
stato, un bambino straordinario; l’unica creatura, sotto la volta celeste di
Urano, a sperimentare la gestazione nel corpo di entrambi i genitori, e a venire
al mondo due volte. E fu proprio quella peculiarità, quella doppia venuta alla luce, a suggerire al
signore dell’Olimpo il nome da dare al figlioletto.
«Dioniso» rispose. «Si chiamerà Dioniso.»
Hermes
annuì, il suo sorriso si distese. «Lo trovo appropriato.»
«Non
potrebbe avere altro nome un bimbo come questo. Ma ora va’, figlio» lo esortò
Zeus, non mancando di scoccargli un’occhiata di riconoscenza. «Torna ai tuoi
doveri.»
Il
messaggero abbassò la testa in segno di saluto, poi si girò e spiccò un balzo,
pronto a volare fuori dal tempio. Il suo lavoro al servizio del padre era
terminato, almeno per il momento.
«Ah,
Hermes.»
Sentendosi
chiamare, il Dio si voltò di nuovo.
«Cambiati
quelle vesti. Sono sporche di sangue.»
Il
giovane guardò il padre con espressione confusa, ma fu solo un momento, e
subito l’istinto gli suggerì per quale ragione non lo voleva in giro per
l’Olimpo così macchiato. «Non preoccuparti» rispose rivolgendogli
un’inconfondibile sguardo d’intesa, e dopo aver replicato il cenno di saluto di
poco prima sfrecciò oltre le colonne d’entrata del tempio, senza più voltarsi.
Rimasto
solo, Zeus continuò a massaggiarsi la coscia ancora per qualche minuto, mentre
i suoi pensieri e le sue preoccupazioni galleggiavano nel silenzio. Sapeva che
sarebbe stato quasi impossibile riuscire a nascondere ad Era quell’ennesimo
figlio illegittimo: com’era già successo in passato, con tutti i bimbi avuti da
altre donne, presto o tardi gli occhi gelosi della Dea lo avrebbero scovato e
la sua sete di vendetta si sarebbe accesa.
Era
sciocco sperare che ciò non accadesse e Zeus non aveva alcuna intenzione di
illudersi.
Ciononostante
avrebbe ugualmente allontanato il piccino dall’Olimpo, non appena questo fosse
venuto alla luce: giunto a quel punto, affidarlo a delle cure esterne, di donne
che nulla avevano a che fare con la Sacra Montagna, era il minimo che potesse
fare per lui, per tentare di proteggerlo da ciò che lo attendeva.
Andasse
come andasse, la sua parte di padre l’avrebbe fatta.
Il
resto lo avrebbe stabilito il Fato.
Eppure,
nell’accarezzarlo piano oltre la pelle, il Dio delle folgori sentì crescere in
sé la netta sensazione che quel bimbo tutto edera, alla fine, ce l’avrebbe
fatta; che sarebbe sopravvissuto a Era e alla sua furia vendicatrice, guadagnando
il proprio posto nel mondo.
Dioniso…
La
grossa mano si fermò sulla gamba; il cuoricino palpitante del piccolo ne colpì
il palmo: battiti regolari, di vita che vuole vivere a tutti i costi. Era un
pulsare leggero e feroce al tempo stesso, come se la creatura custodisse in sé
una prorompente energia caotica, che attendeva solo il giusto momento e le
giuste condizioni per poter esplodere nel mondo.
E
mentre quella sensazione di caos, in cui sembravano mescolarsi tutti gli stati
d’animo capaci di dominare i cuori di Dei e mortali, gli si espandeva nel corpo
attraverso il contatto tra le carni, Zeus sorrideva, custodendo gelosamente in
sé una fulgida intuizione: che la sua vita fosse breve o senza fine come quella
degli Dei celesti, quel bimbo nato due volte si sarebbe fatto strada nel mondo con
la dignità di un vero Dio, e lo avrebbe reso molto orgoglioso.
Qua ci vuole un libro con tutte queste brillanti avventure.
RispondiEliminaSe cerchi la mitologia e la cerchi divina, la scelta migliore è Giulgattina.
RispondiEliminaScusami, dovevo farlo >< adoro il tuo modo di scrivere, riesci a trasmettere delle immagini nitide e ben precise tramite un linguaggio armonico. Narri di miti e sei un mito tu stessa.
Ho amato tutte le storie che hai caricato su questo blog e quest'ultima perla mi ha particolarmente intrigata, devo ammeterlo.
Spero che tornerai a scrivere ancora su questa materia e che, in futuro, potrai dedicare qualche frammento o bozza alla mia amata Era.
Detto questo non mi resta che continuare a complimentarmi con te e aspettare un tuo aggiornamento!
A presto ;)
Grazie, Martina, per questo bellissimo commento! :)
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