Attenzione: il racconto contiene scene che potrebbero impressionare.
Ad Alcippe restava poco: tre, forse quattro minuti di
confortevole normalità fatta di passi, profumo di mare e caldi raggi di sole
tra i capelli; un lasso di tempo che una fanciulla di sedici anni non avrebbe
mai potuto apprezzare appieno perché scontato, ovvio, impossibile da
valorizzare nella sua banalità. Ma se anche avesse saputo con quanta efferatezza
il male l’avrebbe aggredita di lì a
una manciata di istanti, Alcippe non si sarebbe fermata a ringraziare gli Dei
per la quiete offertole quella giornata, per il buonumore, per le simpatiche
nuvolette a batuffolo che galleggiavano qua e là come sbuffi di fumo bianco,
nel cielo vasto e blu del primo pomeriggio. La porzione di esistenza tra la
pace e l’inizio dell’orrore sarebbe stata svuotata di ogni significato, perché
la giovane avrebbe pensato a una cosa sola: correre, correre e ancora correre,
fino a porre tra sé e il mare una barriera insuperabile fatta di case, recinti,
alberi e monti. Avrebbe corso fino a sentire il ventre piegarsi per i crampi,
fino a percepire alle proprie spalle una smisurata e rassicurante distanza che
le rendesse impossibile scorgere anche solo una goccia di quelle azzurrissime
acque marine, e solo allora, scoprendosi al sicuro, avrebbe permesso al proprio
fragile corpo di crollare a terra, e il sollievo dello svenimento sarebbe stato
dolce e avvolgente, come un abbraccio a lungo desiderato.
Ma niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto e Alcippe,
inconsapevole e spensierata, proseguì per la sua via.
Stava passeggiando su una piccola spiaggia nascosta tra
le insenature costiere dell’Attica del sud: una mezzaluna bianca, rocciosa e
ruvida, stretta tra il mare e la selvatica e odorosa vegetazione del
Mediterraneo. Non c’era nessuno e l’aria era densa delle sottili voci della
natura: il sussurrio della brezza tra le fronde; lo stridulo richiamo dei
gabbiani in volo sopra le acque; lo sciabordio delle onde che spumose
sommergevano i ciottoli della battigia. Ovunque regnava una placida e pigra
atmosfera nella quale Alcippe si sentiva pienamente a suo agio, nonostante
stesse posando i piedi su quella spiaggia per la prima volta.
Era il calore delle terre attiche a darle sicurezza. In
quanto figlia di Aglauro, principessa ateniese, la fanciulla era cresciuta in
Attica e ogni polis della regione, ogni
monte, baia, campo e persino albero per lei era casa, ragion per cui non poteva sentirsi fuori luogo o smarrita, neppure
su quella spiaggia ancora tutta da esplorare. E poi, Alcippe lo spirito dell’avventuriera
lo aveva sempre avuto; quella prorompente voglia di muoversi, di toccare,
scoprire, saltare e stancarsi che, quand’era piccina, aveva fatto impazzire di
preoccupazione le sue povere balie. Certo, era femminile, sorridente e di modi
garbati come sua madre, ma in certi momenti si percepiva pulsare in lei
un’energia fuori dal comune, una specie di brio atletico assai inconsueto per
una giovinetta che mai si era cimentata nelle discipline sportive. Ma questa innata
voglia di movimento non era frutto del caso, quanto piuttosto un prezioso dono
di sangue, perché Alcippe non era una semplice fanciulla di nobili origini; una
qualsiasi tra le innumerevoli principesse sparse qua e là per l’Ellade.
No.
Lei era figlia di Ares, il sanguinario e crudele Dio
della guerra.
E lo sapeva.
Alzò una mano per proteggersi gli occhi dal sole e si
voltò verso gli arbusti che contornavano la spiaggia. Le piaceva moltissimo il profumo
che sentiva entrare nelle narici ad ogni respiro: odore di sale, rovi e foglie
d’ulivo. Genuina fragranza di luoghi meravigliosi. Fu sul punto di riprendere a
camminare, quando notò una roccia dalla quale sporgeva un groviglio di foglie
verdi e piccoli fiori viola. Si avvicinò, tese il braccio e sfiorò con le dita
il fogliame, avvicinando un fiore al viso per vederlo meglio. Un’ape, sbucata
da chissà dove, prese a svolazzarle intorno alla testa, ronzando. Alcippe non
se ne accorse neppure: stava cercando di ricordare il nome di quella pianta
selvatica. Ma c’era dell’altro, lo sentiva; qualcosa di più profondo, come un
bel ricordo dimenticato.
«Violaciocca»
sussurrò chiudendo gli occhi, mentre immagini e sensazioni sbiadite tornavano
dai meandri dell’infanzia a farle visita. Le frastagliate montagne della Tracia
all’orizzonte; il cielo tuonante e gonfio di pioggia, pronto a scaricarsi; il
mantello sulle spalle di suo padre, che si apre e l’avvolge per proteggerla
dall’acquazzone che sta per arrivare. E quello stesso groviglio di foglie e
fiori viola, ai margini del sentiero ghiaioso sul quale scricchiolano i loro
passi; il suo braccino che improvvisamente si allunga, attratto da quella
bellezza; e quella voce maschile, ferma ma disponibile
(vuoi quello?)
che dall’alto scende su di lei, nascosta nell’ampio
mantello. E infine quel movimento, di corpo divino e possente che si china, e di
braccio che strappa, veloce.
(tieni)
Alcippe aprì gli occhi e si scoprì a sorridere: quel
giorno suo padre le aveva schiaffato in mano un’intera pianta di violaciocca, con
tanto di radici sporche di terra; un gesto brusco e distruttivo, degno del
Signore di tutti i guerrieri. Ma lei, per quanto piccina, era riuscita a
percepire la premura goffa che si celava oltre l’apparente violenza e con cura
aveva cominciato a estrarre da quell’intrico di foglie i fiori più belli,
lasciando cadere a terra tutto il resto. Infine aveva ripreso il sentiero, col
passo lento dei bimbi concentrati, mentre sul pesante mantello che l’avvolgeva
battevano le prime gocce di pioggia.
Stimolata da quel ricordo piacevole, uno dei pochi degli
sporadici incontri avuti con suo padre in tutta la vita, Alcippe staccò dalla
violaciocca un fiore, se lo fissò sopra l’orecchio e tornò a passeggiare lungo
la battigia. Schermandosi di nuovo gli occhi con la mano, lanciò un’occhiata al
mare piatto e blu: la luce bianca del sole sfrigolava sulla liquida superficie,
offrendo all’osservatore uno splendido gioco di riflessi, come se qualcuno
avesse versato sulle acque della fine polvere di diamanti. Stuzzicata da quel vivace
panorama, Alcippe si sfilò i sandali, li posò a terra e, dopo essersi sollevata
la tunica fino a scoprire le ginocchia, mise i piedi in acqua, lentamente.
Subito la schiuma delle onde le avvolse le caviglie. Quanta freschezza! Che
squisita sensazione di refrigerio! Il sole stava cominciando a picchiare e una
rinfrescata veloce a gambe, braccia e collo era quasi d’obbligo per poter
godere appieno di quella passeggiata solitaria all’aria aperta.
Alcippe avanzò di qualche passo, fino ad avere l’acqua a
metà polpacci. I ciottoli sotto ai suoi piedi erano piccoli e lisci; il manto
sottomarino inclinato, tipico delle coste che conducono subito al mare
profondo. Avanzò ancora e con le onde che quasi le lambivano le ginocchia si
fermò, piegò la schiena e con una mano a raccogliere l’acqua, e l’altra a
tenere sollevati gli orli della veste, cominciò a rinfrescarsi. Perle liquide e
brillanti le scivolarono giù per il collo, scomparendo tra i piccoli seni
coperti dalla stoffa; i folti capelli castani, che quella mattina le ancelle le
avevano accuratamente raccolto sulla nuca, s’impregnarono del profumo salino
del mare. Qualcuno l’avrebbe sgridata quella sera, nel vederla tornare con la
bella veste spiegazzata e le gote rosse di sole come quelle di una contadina,
ma ad Alcippe non importava. Su quella spiaggia, con le onde a solleticarle le
gambe, si sentiva felice. Tutto il resto era secondario.
Ad un certo punto, i suoi occhi si posarono su qualcosa
d’insolito che spuntava oltre l’azzurra superficie, là dove l’acqua iniziava a
farsi più profonda; qualcosa dall’aspetto molliccio e scuro, che sospinto dalle
onde si stava avvicinando a lei. La fanciulla pensò a un piccolo agglomerato di
alghe e con tranquillità tornò a rinfrescarsi la pelle: non era tipa da farsi
impressionare da un misero ciuffo di piante marine, neppure se queste le si
fossero appiccicate agli stinchi. Ma, quando con la coda dell’occhio percepì
quella cosa andare innaturalmente contro
la direzione delle onde, ora un po’ inclinata a causa della brezza che soffiava
da sud, Alcippe alzò il viso e notò che l’agglomerato stava puntando proprio
nella sua direzione, come uno squalo lanciato contro la sua preda.
Allora capì di essersi sbagliata.
Quei ciuffi viscidi e neri non erano alghe.
Erano capelli.
…?!
Alcippe non fece in tempo a digerire quell’inquietante
pensiero che dal mare emerse una testa d’uomo. Sussultò. Per lo spavento la
veste le scivolò dalle dita, i suoi orli s’infradiciarono, mentre dalla
superficie acquosa andava ergendosi una figura sconosciuta: spalle larghe,
braccia, torso robusto. In un batter d’occhio, su quella spiaggia Alcippe non
era più sola.
«Buon pomeriggio» la salutò l’uomo, con un sorriso incorniciato
di folta barba nera.
Alcippe rimase ferma per qualche momento con gli occhi
sbarrati, poi si riprese e liberò un lungo sospiro. «M-mi avete spaventata…»
mormorò imbarazzata, scrutando lo sconosciuto a testa bassa.
Era un uomo adulto, con occhi piccoli e penetranti, più
neri del carbone. I capelli erano ricci e piombi d’acqua; la pelle, azzurrina e
lucida, brillava come il dorso argenteo dei pesci del Mediterraneo; il corpo,
all’apparenza nudo, era ritto e ben piazzato come quello di un nuotatore. Le
onde gli lambivano morbidamente l’ombelico e Alcippe, poco più indietro
rispetto a lui, nel considerare la sua struttura fisica pensò che doveva essere
molto più alto di quanto non sembrasse e che, sottacqua, stesse tenendo le gambe
piegate, perché da quella distanza ravvicinata loro due non potevano in alcun
modo essere alti uguali, nonostante il fondale inclinato.
«Spaventata?» ripeté l’uomo, accarezzandosi la barba crespa
e umida. Gli piaceva l’aria intimidita che emanava quel giovane corpo di donna.
Gli piaceva molto. «E perché mai? Non sei una semplice mortale, perciò perché
ti sorprende tanto vedere una creatura del mare emergere dalle acque?»
Alcippe rivolse allo sconosciuto un’occhiata interdetta. «Chi
siete? Ci siamo per caso già conosciuti?» domandò, visibilmente sorpresa.
Lui allargò il suo sorriso; un sorriso sgradevole e
losco, di quelli che nascondono cattive intenzioni. «Mi chiamo Alirrozio e sono
figlio del potente Poseidone, Dio di tutti i mari e Signore dei terremoti. Non
conosco il tuo nome, fanciulla, ma so che sei una mezzosangue. Lo percepisco
nettamente.»
Alcippe strinse gli occhi, incapace di cogliere il
significato di quelle parole. «N-non capisco…» balbettò.
«Probabilmente sei troppo giovane per riuscire a
riconoscere i tuoi simili dal calore divino che essi emanano. O magari non ci
hai mai provato.» Come in contemplazione, Alirrozio continuava ad accarezzarsi
la barba, torcendone i riccioli. «Come ti chiami?»
«Alcippe.»
«Sei carina, Alcippe. Molto ben fatta.»
La fanciulla abbassò istintivamente gli occhi; le sue
labbra si tesero in un sorriso di circostanza. Non sapeva cosa dire.
Alirrozio respirò il suo disagio e sentì l’eccitazione
crescere. «Chi sono i tuoi genitori?» domandò.
«Mia madre è Aglauro, principessa di Atene della dinastia
di Cecrope.» Alcippe fece una pausa, domandandosi per un istante come avesse
fatto il suo tranquillo pomeriggio in solitudine a trasformarsi in
quell’insolita situazione. Poi continuò: «Mio padre invece è Ares, Dio della
guerra e Signore dei Traci.»
«Ares il barbaro!» Il semidio inclinò il capo crespo e
ridacchiò. «Non l’avrei mai detto. Non hai nulla del suo volto incarognito… e
questo è un bene.»
Alcippe trovò quel commento molto sgradevole,
ciononostante continuò a sorridere per educazione. «In realtà, mio padre
qualcosa mi ha donato. I miei occhi, per esempio, pur essendo verdi come quelli
dei discendenti di Cecrope, sono screziati d’ambra, perché lui ha gli occhi
ambrati e…»
«Mi piace molto come muovi le labbra quando parli…»
Alcippe si sentì pervadere da un pungente senso di
malessere; un misto di imbarazzo e fastidio. Il suo sorriso vacillò, lo sguardo
sprofondò ai bordi della candida veste, trascinati avanti e indietro dalle schiumose
onde del mare. Non era abituata a ricevere simili apprezzamenti e non sapeva
come gestirli.
«Dico davvero, Alcippe. Hai una bellissima bocca… così
femminile e innocente.» Il semidio si
avvicinò alla sua preda alzandosi improvvisamente di statura. «Mi domando che
sapore abbia…»
Alcippe sobbalzò, colta di sorpresa da quell’avvicinamento
repentino e dalla visione che le si parò davanti. Al di sotto dell’ombelico di
Alirrozio non c’erano due gambe atletiche bensì due grosse pinne grigie,
ricoperte di scaglie: due estremità muscolose e lunghe, che ora permettevano al
semidio di godere della posizione eretta al pari di un bipede. E sull’intima
linea di mezzo, tra la pelle azzurrina del basso addome e l’inizio delle
scaglie caudali, il suo fallo svettava fiero e virile, e Alcippe non poté fare
a meno di notarlo. Bluastro e gonfio, a metà strada tra un organo umano e
marino, puntava contro di lei con fare minaccioso, come un’arma pronta a
colpire. Uno spettacolo insopportabile.
Alcippe indietreggiò. Il corpo rigido, stretto nelle
spalle; il cuore che, battito dopo battito, sembrava salirle in gola. Da
bizzarra che era, quella situazione si era fatta soffocante e adrenalinica,
come l’aria pesante ed elettrica che aleggia sopra i campi prima della
tempesta. «Si è fatto m-molto tardi…» balbettò, indicando col pollice alle
proprie spalle. «Le mie ancelle mi stanno aspettando per la visita pomeridiana
al tempio e temo siano in pensiero. Sarà meglio che vada…»
Alirrozio, ora altissimo, avanzò verso di lei,
obbligandola a indietreggiare. Gli occhi piccoli e scintillanti di cattiveria;
il sorriso volgare, da bestia eccitata. Tutto di quella piccola femmina lo
faceva impazzire, persino il modo discreto con cui tentava di sfuggirgli. «Perché
menti, Alcippe? Ti metto forse a disagio?»
«N-non sto mentendo!» Alcippe uscì finalmente dal mare, ma
si trovò costretta a indietreggiare ancora, schiacciata dall’imponente figura
del semidio che, ritto sulle pinne caudali, continuava a starle addosso
coprendola d’ombra. «È la verità, mi aspettano…» aggiunse, sperando di suonare
abbastanza convincente.
Alirrozio le posò una mano sul fianco, cercando di
avvicinarla morbidamente al proprio corpo nudo. «Scommetto che sei vergine. È per questo che fai la ritrosa.»
sussurrò lascivo. «Ma non devi aver paura…»
Alcippe, al culmine della sopportazione, sgusciò via da
quell’abbraccio non gradito e indietreggiò di un altro passo. Il suo viso era
bianco e umido di sudore freddo; gli occhi gonfi di lacrime. Scagliò al semidio
un’occhiata diretta, la più dura e perentoria che riuscì a lanciargli. «Devo
andare. Addio.»
Alirrozio la afferrò per il mento, bloccandola e
fissandole voglioso la bocca. «Sei proprio carina…» Le posò l’altra mano sul
seno, palpandolo oltre la stoffa. «Carina e vergine…»
«Non toccarmi!»
Alcippe si liberò ancora, stavolta più bruscamente, e rapida incrociò le
braccia sul seno, a mo’ di protezione. Era furiosa e terrorizzata, come mai le
era capitato di sentirsi in tutta la sua giovane vita: quel mostro voleva farle
del male. «Lasciami in pace e non
azzardarti a seguirmi!» esclamò con voce rabbiosa, poi gonfiò i polmoni
d’aria e si voltò di scatto, pronta a fuggire. Poteva farcela: a differenza del
semidio, lei aveva un fisico progettato per la corsa.
Ma lui, con uno scatto inaspettato, l’afferrò per un
braccio e da quel momento la situazione degenerò.
«Lasciami!» gridò
di nuovo Alcippe, improvvisamente stretta in un abbraccio saldissimo. Sentiva
il caldo respiro del semidio sul collo; il fallo duro ed eretto che le premeva
addosso, tra le cosce coperte dalla tunica. «Lasciami subito! Lasciami!» Isterica, tempestò di pugni quel torace
nudo e azzurrino, cercando di allontanarlo da sé, e quei colpi, incredibilmente
energici per una fanciulla, mozzarono per qualche secondo il fiato al figlio di
Poseidone.
«Piccola puttanella! Ora sì che si vede che sei figlia di
Ares!» Alirrozio le bloccò entrambi i polsi in una sola mano. Sorrideva,
nonostante la sua preda continuasse a divincolarsi come impazzita. «Smettila di
fare la scema… vedrai tra un po’ quanto ti piacerà…»
Tentando di liberarsi da quella morsa, Alcippe riuscì
chissà come a graffiare la guancia al suo assalitore, a fondo. Infastidito da
quel gesto, lui la spinse brutalmente a terra e subito la coprì. Alcippe fu
folgorata dal dolore dei sassi sulla schiena; il corpo del semidio, così imponente
e pesante, la fece sentire minuscola, inerme, senza speranza. Non aveva scampo
e, quando Alirrozio le strappò la veste all’altezza dei seni, la disperazione
ebbe la meglio e la giovane scoppiò in lacrime. Quell’orribile rumore di stoffa
lacerata, il suono della violenza, sarebbe rimasto impresso nella sua mente per
sempre.
«Lasciami, maledetto! Lasciami!» Per quanto scossa, Alcippe
continuò a lottare e con le ginocchia tentò di colpire il suo stupratore sui
fianchi. «Lasciami andare!»
«Avanti, sta’ buona…» Alirrozio le cinse una gamba con
una delle sue grosse code, forzandola a divaricare le cosce. Alcippe tentò di
richiuderle, ma non poté fare nulla: il semidio era troppo forte. «Così ti
voglio… bella aperta…»
«Noooo! Ti prego!»
Alcippe, col viso che grondava lacrime e sudore, si contorceva a più non posso,
folle dei più intensi stati d’animo che cuore di donna potesse sopportare:
terrore, ira, umiliazione, disgusto; un flusso di sofferenza nera e accecante,
che come sangue bollente le pulsava in tutto il corpo. Quel mostro la stava consumando.
«Lasciami! Lasc-»
Alirrozio la baciò sulle labbra a forza, mentre con la
mano le sollevava la veste. Alcippe si dimenò, cercando di sfuggire a quella
bocca calda che, appiccicosa come una sanguisuga, le succhiava le labbra, ma il
semidio riuscì di nuovo a paralizzarla, afferrandola per i capelli e
rovesciandole indietro la testa. Lei sussultò per il dolore, mentre lui le
strappava di nuovo la tunica, stavolta più in basso. Quel mostro aveva solo due
mani ma sembrava averne cento. E nella foga dell’aggressione, Alcippe sentì
l’acconciatura sciogliersi sui sassi tiepidi e duri; la violaciocca sopra
l’orecchio sgualcirsi e spargere i suoi piccoli petali viola dappertutto. Innocenza
perduta per sempre, al pari della sua verginità, sul punto di essere colta.
E non appena le dita di Alirrozio le strapparono la
fascia di cotone che le avvolgeva i fianchi e l’intimità, Alcippe ebbe un
fremito violento; uno scatto di muscoli che le permise di ruotare il collo e
sfuggire alla lingua di lui. Allora, con la testa ancora rovesciata
all’indietro, implorò a gran voce l’intervento dell’unico Dio che, forse,
avrebbe potuto alzare un dito per salvarla.
«O potente Ares, Signore di tutti i trucidatori! ACCORRI
A SALVARMI, TI PREGO!»
Alirrozio accolse quel grido d’aiuto con una risata
sprezzante. «Urla quanto vuoi, fanciulla, ma sappi che quel barbaro di tuo
padre non verrà. Nessuno verrà per te.»
«Aiutami, Padre mio! Aiutami!» Col sapore salato delle
lacrime sulle labbra, Alcippe continuò a urlare. «Liberami da questo mostro, tu
che puoi! Ti scongiuro!»
Alirrozio, ora serio in volto, pensò che non fosse il
caso di correre rischi. Mollò i capelli di lei e le schiaffò la grossa mano
sulla bocca, per soffocare quel grido. Alcippe scattò di nuovo, con meno
energia: le forze la stavano abbandonando. Si sforzò, lottò e infine riuscì a
liberarsi la bocca; una frazione di istante prima che Alirrozio gliela chiudesse
di nuovo, ma tanto le bastò a supplicare aiuto un’ultima volta.
«Salvami, Padre mio! SALVAMI,
TI PREGO!»
Ares sollevò il capo. Gli occhi tondi e accesi; la bocca
schiusa per lo stupore. Lanciò uno sguardo tutt’intorno, istintivamente, e vide
quanto già conosceva: cavalli, stallieri, scuderie, alberi verdi e altissimi.
Si trovava sulla cima del Monte Emo, in Tracia, dove
erano custoditi alcuni dei suoi stalloni migliori: bestie veloci e robuste, che
spesso trainavano sui campi di battaglia il suo scintillante cocchio d’oro. E anche
quel giorno il Dio aveva una battaglia ad attenderlo, una guerra tra Spartani e
Argivi ormai giunta all’ultimo atto. Avrebbe combattuto poco o niente e lo
sapeva. Gli Argivi erano stati sterminati dagli opliti guidati da re Cleomene e
i pochi sopravvissuti si erano rifugiati in un fitto bosco, poco distante dal
campo di battaglia; un bosco che l’ambizioso re spartano contava di dare alle
fiamme prima di sera. Certo, qualche orgoglioso sarebbe uscito e avrebbe sferrato
colpi fino alla morte; qualcun altro avrebbe scagliato frecce su frecce,
tentando di respingere il nemico, ma la maggior parte dei soldati avrebbe
tentato la fuga tra gli alberi, trovandosi intrappolata nel bosco incendiato.
Allora tutto sarebbe finito, con la scontata e meritata vittoria di Sparta, e
Ares, dopo aver infervorato per giorni i cuori dei soldati di Cleomene a lui
tanto devoti, non poteva mancare al momento del trionfo, a prescindere dalla durata
dello scontro.
Ma quando udì quella voce salire dalla terra e spargersi
nel cielo, il Dio sanguinario dimenticò gli impegni che lo attendevano. Fu come
se il mondo, il suo mondo, si fosse
improvvisamente fermato affinché lui potesse cogliere quella preghiera. Si
portò una mano all’elmo, in bilico sulla fronte, e lo spostò indietro scoprendo
di più le orecchie. Il minaccioso cimiero nero, in crine di cavallo, ondeggiava
ad ogni soffio di vento; il mantello rosso sangue, dalle orlature in oro,
sfarfallava morbidamente sulla virile armatura di bronzo. Il Dio aveva bisogno
di capire, di sentire meglio, ma il suo sguardo, dapprima smarrito, si era già
spostato verso sud, dove a un centinaio di cubiti di distanza gli alberi
lasciavano il posto ai dirupi e alla nuda roccia. Avanzò di qualche passo. Alle
sue spalle servitori e stallieri andavano avanti e indietro uno più indaffarato
dell’altro, chi affilando le lame delle armi, chi preparando la maestosa quadriga.
E d’un tratto, Ares sentì di nuovo quella voce piangente.
Quella straziante implorazione di donna.
Padre mio, AIUTAMI!
TI PREGO!
Il suo cuore sobbalzò, il dubbio iniziale si fece solida
certezza: era Alcippe.
Questo mostro mi
stupra! Padre!
Ed era in pericolo.
Ares non ragionò. Sfilò una spada dalle mani di un servo,
si calò l’elmo sul volto e si lanciò in una folle corsa in direzione sud. Alberi,
cespugli, grovigli di rami: la foresta si squarciò al suo passaggio, l’aria si
riempì d’un caos vegetale e polveroso, tutto foglie e frammenti di legno. Con
un colpo secco dell’avambraccio, il Dio spaccò in due l’ennesimo tronco che gli
si parò davanti, mentre sotto ai sandali il terreno erboso lasciava il posto
alla roccia. E finalmente vide l’azzurro del cielo di fronte a sé e il verde
dei colli che stringevano il monte Emo tutt’intorno.
Era sul precipizio.
Fletté i muscoli delle possenti cosce e saltò. Come
preziosi cimeli di bronzo, elmo e armatura scintillarono alla luce diretta del
sole; il vento della montagna, che sulla vetta imperava tormentando fronde e
nuvole, cessò di soffiare, quasi volesse intralciare il meno possibile il salto
del Dio vendicatore. E sotto quel corpo massiccio, che col suo divino splendore
stava ora tracciando uno sfavillante arco dorato nel blu del pomeriggio, le
terre dell’Ellade scorrevano rapide come ruscelli: Tracia, Calcidica, Magnesia,
Eubea… Come gli Dei celesti suoi pari, che all’occorrenza saltavano giù dal
monte Olimpo discendendo nel regno dei mortali, anche Ares era capace di
coprire con un solo balzo distanze immense e, ogni volta che saltava,
raggiungeva la sua destinazione senza ostacolo alcuno.
Nessuno avrebbe potuto fermarlo, tantomeno in
quell’occasione.
Oltrepassò le verdi pianure della Beozia e tra un velo di
impalpabili nubi basse vide apparire la sagoma sporgente dell’Attica. Discese,
veloce come un masso in caduta libera; la terra sotto ai suoi piedi si fece
grande, sempre più grande; tra il verde della vegetazione e l’azzurro liquido
del mare comparve la bianca mezzaluna della costa. E finalmente, in quel mondo
che andava ingrandendosi a velocità supersonica, Ares scorse la minuscola
spiaggia dove si trovava Alcippe. Era esattamente sotto di sé.
Si preparò all’impatto, con l’aria che gli premeva contro
ostile e fredda come un’imponente cascata di fiume, quand’ecco che tra il
bianco dei sassi notò due figure con la coda dell’occhio: due corpi sdraiati uno
sopra l’altro come creature intente ad accoppiarsi selvaggiamente o a lottare
con furia.
Il tempo si ghiacciò e si sciolse con inaudita velocità,
e in un batter di palpebre Ares si trovò a fissare la spiaggia ciottolosa. Nel
corso degli eventi c’era spazio solo per l’azione.
Tese i muscoli di tutto il corpo e, come una cometa piovuta dal cielo, si
schiantò contro il suolo. L’impatto fu violentissimo. La terra vibrò,
incassando il pesante e inaspettato colpo; un’esplosione di sassi schizzò verso
il cielo, sollevando sbuffi di polvere fine.
Alirrozio si voltò di scatto. Le sue pupille si
dilatarono, incollate su quella guerresca figura. Alcippe, con gli occhi traboccanti
di lacrime, si girò a sua volta, ricevendo all’istante una scarica di dolore
alla testa: parte dei suoi capelli erano stretti tra le dita del semidio. Eppure
quella fitta la sentì appena, tanto intenso fu il sollievo che le donò la vista
di quel soldato vestito di bronzo, piovuto dal cielo come una stella.
«Padre…» Cercò di gridare ma la voce le uscì rotta dal
pianto. Ormai era allo stremo delle forze, annientata dall’invadenza di quel
membro grosso e aggressivo che, alla fine, era riuscito a profanare la sua
intimità.
Inginocchiato a terra, in un cerchio affossato simile a
un cratere, Ares sollevò il capo e vide sua figlia, coperta da quel corpo
azzurrino e maschile dalle intenzioni inequivocabili. I suoi occhi d’ambra,
contornati dalle fenditure oblunghe dell’elmo, si fecero di fuoco; una smorfia
mostruosa e dentata, di rabbia primordiale e incontrollabile, gli storse la
bocca. Scattò in piedi, coi muscoli gonfi di vigore omicida come un mastino pronto
ad attaccare, e rizzò la spada, una splendida arma dalla lama doppia e lunga.
Alirrozio avvertì un fremito di gelido terrore scuotergli
la spina dorsale, ma fu solo un istante e subito recuperò il controllo di sé, tendendo
le labbra in un sorriso spocchioso. Non doveva avere paura: lui era figlio di
Poseidone, il temutissimo e rancoroso Dio di tutti i mari, al quale assai pochi
ardimentosi avevano osato fare un torto. E forte di questa consapevolezza, il
semidio aprì la bocca, già sentendo nelle orecchie le parole che avrebbe
pronunciato per ricordare al barbaro di starsene al suo posto.
Ma Ares, con un ruggito da far raggelare il sangue, si
lanciò nella sua direzione.
«RRRRRRAAAAAAAAAAAHHH!!!»
Sgomento, Alirrozio si tirò su con la schiena, spingendo
via Alcippe nel tentativo di fuggire, ma ormai era troppo tardi: con l’energia
di un esercito intero, Ares lo travolse, strappandolo a forza dalla sua preda. Si
schiantarono sui sassi, le due code del semidio guizzarono nell’aria come banderuole.
Finalmente libera, Alcippe strisciò all’indietro, facendo leva sui gomiti
sbucciati durante la colluttazione. Le girava la testa, ciononostante riuscì a
vedere suo padre scaricare un pugno ben assestato sulla guancia di Alirrozio.
Il semidio vide tutto nero. Un paio di denti gli
saltarono via, lo zigomo schioccò sotto la carne come legno secco e duro. Il
dolore di quel colpo fu atroce e Alirrozio sentì il fiato morirgli in
gola.
«IO TI AMMAZZO!» Ares ruotò la spada,
rivolgendone la punta contro il petto del suo nemico. Aveva dovuto trattenersi
dall’utilizzarla subito, per timore di ferire Alcippe con la lama al momento
dell’assalto, ma ormai il pericolo era scongiurato. Tirò indietro il braccio,
pronto ad accoltellare, ed Alirrozio, pazzo di terrore, ebbe una reazione
inaspettata, frutto del suo istinto di sopravvivenza: alzò una delle muscolose
code e la scaricò con forza sul fianco del Dio, all’altezza del fegato.
«Aghh!» Ares
sussultò, colto alla sprovvista, e Alirrozio con un altro scatto riuscì a
scaricarselo di dosso, strisciando a fatica in direzione del mare.
Alcippe si sentì morire: quel mostro non poteva essere
più forte di suo padre. Era impossibile.
«CREDI DI CAVARTELA
COSÌ?!» Ares si alzò di
scatto, afferrò una delle code di Alirrozio e lo fece roteare, girandolo sulla
schiena. Alzò di nuovo la spada. Gli occhi grandi e folli; il cimiero nero da
sterminatore, che svettava sulla sommità dell’elmo.
Terrorizzato e incredulo di fronte a ciò che stava
accadendo, il semidio tentò di difendersi a parole, non potendo competere
fisicamente col Signore della guerra truce. «Ab-bassa subito quell’arma, Ares!»
gridò, cercando di mostrarsi calmo malgrado il cuore fosse sul punto di
esplodergli. «R-ricorda che io sono figlio di Poseidon-»
«NON ME NE FREGA UN
CAZZOOOO!!!» Ares calò il braccio e tagliò di netto una delle code del
semidio.
«AAAAAHHHGGG!!!» Alirrozio urlò,
trafitto da un dolore lancinante, mille volte più acuto di quello allo zigomo.
Sangue color cobalto sgorgò a fiotti dalle arterie recise; il pezzo di coda
monca saltellò su e giù sui sassi, scosso dagli spasmi muscolari, e infine si
fermò. Ares lo calciò via, facendolo rotolare su se stesso, poi alzò il braccio
e calò la spada sull’altra coda, tagliandola a metà. Il figlio di Poseidone
gridò di nuovo, fino a sentire le corde vocali grattare in gola. La sofferenza
di quella mutilazione era accecante. «T-tu sei pazzo! PAZZO!» Con occhi
sgranati e pulsanti fissò il fiume blu che scorreva dai suoi arti troncati. «G-g-guarda
c-cos’hai fatto…»
Serissimo in volto, Ares scaricò un calcio sulle costole
del semidio, spezzandogliene un paio. «Bastardo maledetto! STAVI STUPRANDO MIA FIGLIA! MIA FIGLIA, PEZZO DI MERDA!»
Alirrozio cercò di parlare, ma non ci riuscì: una delle costole
fratturate gli aveva perforato un polmone e ogni respiro, ora, gli costava
grande sofferenza.
«Io ti ammazzo! Ti sbudello e poi ti faccio a pezzi come il maiale
che sei! Ma prima…» Ares
s’inginocchiò accanto al suo avversario, gli afferrò il membro e alzò di nuovo
il braccio che stringeva la spada. Lo guardò negli occhi: un’occhiata accesa e spietata.
Alirrozio sbiancò; le sue mani si alzarono tremanti, in
segno di supplica. «N-n-n-no, ti prego! NO! NON FARLO! NON-»
Ares calò il braccio e tagliò in un sol colpo il fallo
bluastro del semidio: un affondo dritto e preciso. Alirrozio gridò, pazzo di
dolore e adrenalina. Il fiume blu tra i sassi si fece più corposo, rifornito di
nuovo sangue fresco. Con aria schifata, il guerriero guardò il membro reciso
che stringeva nel pugno e lo lanciò in faccia al semidio accasciato a terra.
Alirrozio lo sentì appena, tiepido e molle, urtargli contro il naso: la sua
sensibilità corporea, la paura, l’istinto di sopravvivenza… tutto stava
svanendo, risucchiato all’esterno da quelle gravi emorragie, e a colmare quel
vuoto ora restava solamente un freddo penetrante: il freddo della morte
imminente.
Ares si accorse che il semidio stava scivolando verso l’oblio
e si affrettò. Non voleva lasciarlo andare via così facilmente. Voleva vederlo
soffrire. Affondò la spada nel suo torace più e più volte, squarciandolo con la
foga di un macellaio impazzito. Alirrozio gorgogliò: gli occhi rivoltati
all’indietro; la bocca piena di sangue; il corpo preda degli spasimi. Ares gli
affondò un braccio nell’addome e ne estrasse parte dei visceri in un traboccare
di sangue blu e caldo, poi si tirò su e con la spada proseguì nella sua opera
di mutilazione, incapace di fermarsi: tranciò le code in pezzi, sfigurò il
volto, recise le braccia e la gola. E in punto indefinito di quella tortura, Alirrozio
morì emanando un ultimo, macabro rantolo.
Il Dio, finalmente sazio di vendetta, lasciò cadere la
spada sui sassi e rimase fermo per qualche secondo. Il respiro ansante per il
furore dell’uccisione gli rimbombava dentro l’elmo, feroce come quello di un
cinghiale.
Era finita.
Raccolse i resti del nemico, si voltò verso il mare e li
scagliò tra le onde, che non appena accolsero quel corpo morto si fecero più
bianche e spumose, come coinvolte in una bizzarra reazione chimica. Ares non ci
prestò attenzione. Si voltò e si precipitò da Alcippe.
Terrorizzata, la fanciulla si rannicchiò su se stessa:
gli occhi strizzati; le braccia strette sul petto; il corpo che tremava tutto,
come quello di un gattino inzuppato. Vedere cos’era capace di fare suo padre,
respirare la sua furia omicida nell’aria, l’aveva scioccata.
Ares si sfilò l’elmo, lo gettò a terra e a volto scoperto
s’inginocchiò accanto a sua figlia, rivolgendole un’espressione addolorata. La
tunica le pendeva a brandelli dal corpo, scoprendo i seni nudi e l’intimità; la
pelle era coperta di graffi e lividi rossi; sul collo, bianco e sottile, era
ancora presente il calco della mano di Alirrozio. Era straziata, come una
poveretta sfuggita alle fauci aguzze di un leone. «Alcippe…» Ares le posò una
mano sulla spalla, cercando il suo sguardo.
Alcippe sussultò di nuovo, turbata da quel contatto, e
con istintivo timore scrutò gli occhi ambrati del padre attraverso i ciuffi
spettinati che le coprivano per metà il viso. E improvvisamente ogni paura
l’abbandonò, portandola a sciogliersi in un pianto liberatore. «Padre…!» Gli si gettò tra le braccia e
aggrappata a lui tentò di alzarsi in piedi, barcollando sulle gambe prive di
forze. Ares l’aiutò. «Padre mio…»
Il Dio si sfilò il pesante mantello e vi avvolse la
figlia per coprirne le nudità, e di nuovo la strinse a sé, forte.
«Q-q-quell’orribile m-mostro… m-mi ha… mi ha…» Alcippe
s’interruppe, vinta dai singulti. Si portò una mano all’inguine, con evidente
vergogna: la parti intime le dolevano per la violenza subita, più di tutte le
escoriazioni e i lividi sparsi sul corpo. «Ho c-cercato di difendermi… m-ma lui
era così forte e io…»
«Sssshh.» Ares le
rimboccò il mantello sopra la testa. Non era mai stato bravo con le parole, men
che meno in situazioni simili, e anche in quell’occasione si trovò a credere
che un lungo e caloroso abbraccio fosse assai meglio di qualsiasi frase fatta.
Alcippe chiuse gli occhi, attaccata al corpo robusto di suo padre
come se temesse di vederlo svanire da un momento all’altro. Le tremavano le labbra,
le mani, le ginocchia, tanto era traumatizzata e debole, eppure il suo pianto
si stava affievolendo, singhiozzo dopo singhiozzo: quelle possenti braccia, ancora
sporche di sangue nemico, la facevano sentire incredibilmente al sicuro.
Nessuno ti
farà più del male. Il Dio posò la mano dietro la testa della
figlia. Sta’ tranquilla…
Confortata, Alcippe aprì la bocca, ma non fece in tempo a
pronunciare quella dolce parola
(grazie)
che la terra sotto ai suoi piedi fu scossa da un tremendo
terremoto. I sassi della spiaggia presero a battere l’uno sull’altro, come
denti mostruosi; i verdi arbusti che contornavano la costa dondolarono le
chiome a destra e a sinistra spargendo foglie dappertutto, mentre il sottosuolo
ruggiva imbestialito. Alcippe gridò, terrorizzata fin dentro le ossa. Ares
rizzò il capo, colto di sorpresa, e subito affondò i piedi tra i sassi, per
meglio sopportare quegli scossoni. Strinse di più la figlia a sé, aiutandola a
stare in piedi, e si voltò a guardare il mare dal quale sembrava avere origine
quella scarica di energia. Aggrottò le sopracciglia, contemplando il totale
mutamento di quello scenario: la tavola blu che con pigrizia srotolava le
proprie onde sul bagnasciuga era scomparsa e ora, a stagliarsi contro la terra,
vi era un ammasso d’acqua grigia e torbida, che sbuffava e ribolliva sollevando
in aria alte creste di spuma bianca; un mare tempestoso e violento, che avrebbe
potuto divorare l’intera spiaggia con una sola ondata.
Il Dio pensò che fosse meglio condurre la figlia in un luogo più
sicuro, quand’ecco che una voce rabbiosa e profonda si alzò dai flutti, aggressiva
quanto le scosse che stavano tormentando la terra.
«AAAREEEES!!!»
Il guerriero si bloccò. Alcippe sollevò il capo, fissando il mare
con occhi lucidi e smarriti. E improvvisamente, un’onda gigantesca corse
velocissima contro di loro e li sovrastò, precipitandoli nell’ombra. Alcippe
gridò e chiuse gli occhi; Ares tese i muscoli delle gambe, pronto a saltar via
con la figlia tra le braccia. Accadde tutto in un istante. Una raffica umida e
travolgente come vento bagnato li investì, scuotendo loro le vesti e i capelli,
e poco prima che il Dio spiccasse il balzo tutto si fermò. La terra smise di
tremare; l’aria si fece immobile ma carica di forza, come se l’Ellade intera
fosse stata catapultata nell’occhio di un enorme ciclone.
L’onda si era fermata.
Ritta come le mura di una città inespugnabile, svettava di fronte ai
due rovesciando su se stessa le proprie onde, in un continuo ricambio d’acqua.
E sulla cima, in un trionfo di spuma e spruzzi, si ergeva il Signore di tutti i
mari: il Dio Poseidone.
Alcippe gli lanciò un’occhiata, poi tornò a serrare le palpebre:
la vista di quel blocco d’acqua imponente e di quella figura truce sulla
sommità le era insostenibile. Ares invece fissò il Dio dritto negli occhi,
serissimo.
«BARBARO MALEDETTO! BESTIA
SCELLERATA!» Poseidone puntò il tridente dorato contro Ares. I capelli
azzurri gli ondeggiarono sulle spalle; gli occhi, accesi d’odio, brillarono
alla luce del giorno come pepite di ghiaccio. «Come hai osato uccidere MIO figlio?!”
Ares rispose immediatamente, con voce fiera e sicura: «Tuo figlio
era uno stronzo violentatore. Se l’è cercata!»
Rosso in volto, Poseidone affondò la punta inferiore del tridente
nell’acqua, e da dritta che era l’onda s’incurvò e si allungò verso il basso,
simile a un’enorme lingua. «Non ti azzardare a usare questo tono con me!» gridò
il sovrano, ora faccia a faccia col nipote. Il corpo unito al mare
dall’ombelico in giù; gli occhi sempre più grandi. «Tracio arrogante! Animale
senza onore! Hai fatto a pezzi mio figlio come fosse un vitello da squartare!
Perché?! RISPONDI!!!»
«Ha violentato mia figlia!»
Ares si staccò di poco da Alcippe, quanto bastava a mostrare al Dio il suo
corpo ferito. «Se l’è presa con la forza neanche fosse roba sua!»
«Tutta qua?!» La bocca di Poseidone si piegò in una smorfia tra lo
sdegno e l’incredulità. «Le femmine sono fatte per essere possedute, anche con
la forza, se occorre! E tu lo sai bene, vero, Ares? Un barbaro come te chissà
quante ne ha stuprate!»
«Puoi dirmi quel cazzo che ti pare, non m’importa!» Ares si fece
più minaccioso. Allungò un braccio su Alcippe, per tenerla indietro e
proteggerla. «Quel pezzo di merda di tuo figlio meritava di morire! E piantala
di recitare la parte del padre affezionato, ché a malapena ricordi il suo
nome!»
«STRONZO BORIOSO! MA CHI
TI CREDI DI ESSERE?!» Poseidone sbatté il manico del tridente tra i sassi,
facendo tremare la terra: una scossa breve ma intensissima, che fece cadere
Alcippe, ma non Ares. E rapido, il Dio del mare puntò l’arma al collo del
guerriero. «Sei figlio di Zeus e ciò ti infonde coraggio, ma sappi che questo
non significa nulla per me! NULLA, HAI
CAPITO?!»
«Che vuoi fare?
Ammazzarmi?» Ares sorrise, sprezzante più che mai.
Poseidone si avvicinò a lui, fin quasi a sfiorargli il naso
col suo. Voleva guardarlo bene negli occhi, trasmettergli tutto l’odio e la
rabbia che provava. «Non ne uscirai indenne, Ares. Non ci pensare neppure. Mi
appellerò alla saggezza di tutti gli Dei Olimpici affinché tu venga punito
severamente.»
Ares alzò una mano e allontanò il tridente dal proprio
collo. «Buona fortuna, allora» replicò. «Sai quanto gliene frega a loro di quel
mezzo pesce di tuo figlio.»
«Parli come se sull’Olimpo stessi a cuore a qualcuno, a
parte Afrodite.» Poseidone ritirò il tridente. «Persino i tuoi genitori ti
detestano e sono certo che saranno ben felici di scaricarti da qualche parte, a
scontare la tua condanna.»
«Mpf.» Ares cercò
di sorridere, ma non ci riuscì. Quel commento aveva toccato un tasto dolente. «Comunque
fa’ quello che vuoi, chiama chi ti pare. Io non mi tiro indietro di fronte a
nulla.»
«Preparati, ci rivedremo molto presto. E non sarà bello.»
Detto questo, Poseidone sprofondò nell’acqua, scomparendo alla vista come un
delfino tra i flutti; l’onda curva e sospesa a mezz’aria si ritirò tra mille
schizzi, tornando al livello del mare.
Ares scrutò le acque, controllando che il Dio se ne fosse
davvero andato, poi si voltò e aiutò Alcippe ad alzarsi. La fanciulla non disse
una parola e, fragile e tremante, si limitò ad abbracciare suo padre. Di nuovo,
Ares le rimboccò il mantello sopra la testa e stretto a lei, in silenzio, tornò
a guardare il mare tempestoso. Quelle acque non si sarebbero calmate per un bel
pezzo, tanto intensa era la furia che scuoteva il cuore del loro Signore, e nel
contemplare quell’inesauribile forza, in grado di erodere le rocce senza mai
cedere al richiamo della rassegnazione, Ares realizzò di essersi fatto un nemico
molto potente.
Poseidone, il figlio di Crono.
Poseidone, il fratello di Zeus.
Poseidone, il Dio suscettibile e rancoroso, che avrebbe
fatto tutto ciò che era in suo potere per fargli pagare a caro prezzo il torto
subito, a cominciare dalla scelta dei giudici. Perché se ad occuparsi di quella
questione fossero stati per davvero gli Dei Olimpici, com’era ovvio pensare
trattandosi di un caso di assassinio in famiglia, per Ares non sarebbe stato
affatto facile sfuggire a una condanna. Sarebbe stata un’impresa al limite
dell’impossibile, persino per un Dio.
Ma abbracciato alla giovane figlia, che ancora faticava a
trattenere le lacrime, il Signore dei Traci ricacciò indietro quel pensiero
sgradevole.
Aveva fatto la cosa giusta, ne era sicuro.
E, al momento opportuno, lo avrebbe fatto capire a tutti, in
un modo o nell'altro.
Complimenti. Io amo molto la mitologia greca... Leggerò con interesse i tuoi racconti
RispondiEliminaScritto benissimo, davvero meraviglioso nonostante l'argomento toccato sia parecchio delicato. Complimenti davvero alla scrittrice!!
RispondiEliminagrazie :)
EliminaAppena ho iniziato a leggerlo mi sono isolato dal mondo attorno a me per entrare in quello del racconto, cosa che mi succede solo con i migliori scritti: è scritto davvero benissimo! La scena che mi ha colpito più di tutte è il flashback, con la goffa dimostrazione di affetto di Ares verso la figlia bambina.
RispondiEliminaMa poi ad Ares cosa succede? Si sa se subirà un qualche castigo o il mito non dice niente?
Complimenti ancora, hai una prosa sublime
Grazie mille dei complimenti <3 sei troppo gentile!
RispondiEliminaRiguardo al seguito della storia non mi sento di spoilerarti tutto... (il mito racconta come andò a finire, ma se t'interessa leggere la seconda e la terza parte scritte da me, ti conviene aspettare che pubblichi la mia raccolta di miti... ormai è questione di poco! :) )
Quando la pubblicherai la comprerò subito, non ho dubbi!
EliminaHo pubblicato la raccolta di cui ti parlavo qualche mese fa :) (quella in cui trovi il seguito del racconto dello stupro di Alcippe)
EliminaS'intitola "Storie di Dei", la trovi su Amazon e i più importanti store online (IBS, Mondadori, Feltrinelli, ecc.) https://www.amazon.it/Storie-dei-Giulia-Marino/dp/8831603590