Il segugio trotterellò fuori dalla
selva, si fermò di fronte ai due cacciatori e, aperte le fauci, lasciò cadere
ai loro piedi la preda recuperata: un piccolo volatile dal piumaggio bruno, col
becco lungo e robusto, e la freccia fatale ancora conficcata nel petto. Infine,
si fermò a fissarli entrambi, con la lingua che penzolava fuori dalla bocca
come un lungo nastro di morbida carne.
«Ci avevo visto giusto! È una
beccaccia. Ben fatto!» Artemide sorrise al compagno di caccia che con un solo,
precisissimo colpo aveva appena abbattuto il volatile. «Non è facile riuscire a
individuarle e colpirle, tanto meno a quest’ora del giorno.»
«Ti ringrazio, mia Dea.» Lui le
sorrise di rimando col petto gonfio di autocompiacimento: ricevere elogi dalla
Signora della caccia non era cosa in grado di lasciare indifferenti.
«Permettimi, però, di rammentarti che io non sono un cacciatore come gli altri
e che il mio desiderio di predazione è molto più acceso di quanto tu possa mai
immaginare. Un desiderio che non può assolutamente
essere saziato da questo misero pennuto che ora giace ai tuoi candidi piedi.»
«Ahhh…
sei sempre il solito!» Artemide colpì scherzosamente il compagno alla spalla
con la punta dell’arco: un gesto che lo invitava a dare un freno alla propria
boria e a raccogliere il suo trofeo. «Su, datti una mossa, grande cacciatore!»
Lui rise e dondolò la testa.
«Brutale come un uomo, ma bella come la più desiderabile delle vergini. Non è
facile starti vicino né innamorarsi di te, o sterminatrice di cervi. Ma ti
prego, non cambiare mai, perché sei incredibile così come sei.»
Artemide inclinò il capo, confusa da
quelle parole di ambigua interpretazione, e quando il compagno s’inginocchiò e
schiaffò nel sacco della selvaggina la piccola preda lo osservò per qualche
istante, con la fronte aggrottata e gli occhi ridotti a due fessure, come se lo
stesse incontrando per la prima volta.
Si chiamava Orione ed era un
gigante. Figlio del Dio Poseidone e della principessa Euriale di Creta,
sfoggiava per natura un corpo altissimo, tutto muscoli ed energia, in cui
vibrava una forza d’animo straordinaria che gli aveva permesso di sopravvivere
a un passato burrascoso; un passato dai ricordi ancora troppo vividi in cui
Orione frugava raramente, tanto doloroso e inquietante era riportare alla
memoria la notte in cui quell’infame d’un re gli aveva fatto strappare gli
occhi dalle orbite, precipitandolo nell’oblio della cecità. E quanto aveva
sofferto allora! Quanto a lungo aveva camminato a piedi scalzi, inciampando e
inciampando ancora su quegli interminabili viali ciottolosi che per un cieco
sono sempre troppo duri! Non si era mai rassegnato all’oscurità e quando la Dea
Eos, intenerita e innamorata, gli aveva restituito la vista sfiorandogli le
orbite vuote con la tenue luce rosa dell’aurora, Orione aveva pianto per ore e
ore, commosso dalla bellezza dei colori e delle forme, fin quando la sete di
vendetta non gli aveva fatto recuperare il controllo. Allora era partito,
deciso ad ammazzare il re infame che lo aveva accecato, e portando con sé
null’altro che arco, frecce e un lungo coltello affilato aveva attraversato
villaggi, campi coltivati e foreste impervie, seguito a ruota dal suo
inseparabile segugio col quale aveva dato la caccia a ogni genere di bestia,
riscoprendo il proprio animo cacciatore e una convinzione personale troppo a
lungo dimenticata: nessun animale
nato sotto la volta celeste di Urano, neppure il più feroce e terrificante,
poteva sperare di salvarsi da lui.
Era un predatore nato, un abile e
freddo sterminatore di selvaggina, ed era così, nelle vesti di cacciatore
perfetto e selvaggio, che Artemide lo aveva incrociato tra gli alti alberi,
mentre accucciato nel verde folgorava con una delle sue frecce un ignaro
capriolo. E, colpita dal suo innegabile talento, la Dea non ci aveva messo
molto a convincerlo a lasciar perdere quei folli propositi di vendetta per
godersi, invece, qualche battuta di caccia in sua compagnia.
«Non ti tratterrò a lungo. Desidero
solo divertirmi un po’ con qualcuno che sia degno d’essere chiamato cacciatore. E tu mi sembri il tipo
giusto.»
Poche parole e, prima di rendersene
conto, Orione stava correndo tra le querce insieme alla pallida Dea, alla
ricerca di lepri e cinghiali da abbattere: l’inizio di un’inaspettata amicizia
che, appena ora, stava mettendo in risalto i caratteri dei due, permettendo
loro di andare oltre la superficie e conoscersi meglio. E Artemide, che era
molto più sveglia e sensibile del gigante, aveva già cominciato a intuire quali
fossero i suoi difetti e quali i suoi pregi, anche se certi punti della sua
personalità ancora le sfuggivano, come le sfuggiva il significato di quelle
ambigue parole appena udite che un po’ le sapevano di offesa e un po’ di
lusinga. Ma non le analizzò più di tanto. Due, forse tre secondi; il tempo di
vedere Orione rialzarsi e caricarsi in spalla il sacco colmo di selvaggina, e
di nuovo si sentì serena. Il gigante era un tipo semplice e schietto, si
vedeva. Celare chissà quale verità dietro giri di parole non era proprio nel
suo stile e la Dea apprezzava la sua compagnia anche per questo.
«Non stai dimenticando qualcosa?»
gli domandò con aria di rimprovero, notando che era già pronto a riprendere la
battuta di caccia.
Orione aggrottò entrambe le
sopracciglia, senza capire, quindi Artemide sgranò gli occhi e gli indicò il
segugio con un impercettibile cenno del capo, come se non volesse farsi notare
dall’animale. Allora il gigante afferrò. «Bravo, Sirio. Bravo.» Strofinò un
orecchio al cane, che per reazione scodinzolò facendo frusciare i ciuffi d’erba
incolta. Poi ritirò la mano e lanciò ad Artemide un’occhiata paziente, quasi
paterna; uno sguardo che sembrava sussurrare: l’ho fatto per te, ma in realtà credo sia un’inutile idiozia.
«Sirio è un bravo segugio» disse
lei, sorridendo. «E, come me, ha fin troppa pazienza con te.»
Orione rise e scosse la testa, senza
rispondere. Non voleva inciampare di nuovo in quella stupida conversazione.
Ricordava troppo bene com’era finita l’ultima volta.
(Le
lodi rafforzano il legame e stimolano il cane a migliorare)
(Il
cane svolge solo il suo dovere e non deve ricevere smancerie di alcun genere.
Un cacciatore lo sa bene… ma una cacciatrice forse no.)
Com’era stato imprudente e stupido
quel giorno! Aveva capito di aver esagerato nello stesso momento in cui la sua
bocca si era chiusa a formare l’ultima sillaba di quella frase arrogante, ma
ormai era fatta. Il viso sorridente di Artemide si era oscurato; l’aria calda
del pomeriggio si era improvvisamente gelata e lui aveva sentito la gola
seccarsi. Poi, il suo cervello si era come paralizzato e un fiume di scuse
maldestre e alquanto imbarazzate aveva cominciato a traboccargli dalla bocca,
come mosso da vita propria. Non ricordava minimamente cosa aveva detto e non
gli importava. In qualche modo era uscito indenne da quella disastrosa
situazione e ora non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
«Che ne dici di andarcene a sud?»
domandò Artemide, indicando alle proprie spalle. «Poco prima della spiaggia c’è
un boschetto dove dimorano numerose famiglie di cervi.»
Orione si voltò dalla parte opposta,
dove la foresta si faceva più fitta. «Per i cervi c’è tempo. Ora voglio
prendere qualcosa di grosso.»
«Un cinghiale?»
«No.» Il cacciatore rivolse alla Dea
un sorriso audace. «Un orso.»
«Un orso?» Artemide ridacchiò.
«Incrociarne uno a quest’ora del giorno è ancor più difficile che vedere e
abbattere una beccaccia. Ti conviene aspettare il crepuscolo e nel frattempo
lavorare sul tuo passo.»
«Il mio passo? Che intendi dire?»
domandò Orione, ora serissimo.
«La tua mira è ottima, ma il tuo
passo è un po’ troppo pesante. Dovresti imparare a muoverti con più morbidezza
o l’orso fuggirà molto prima che le tue frecce riescano a scalfirlo.»
«Oh, mia Dea!» Orione scoppiò a
ridere. «Questa è proprio buona!»
«Non fare lo sbruffone!» La
cacciatrice sorrise e colpì di nuovo il compagno alla spalla con la punta
dell’arco, stavolta più forte. «Ricorda che sono la Dea della caccia, io! Dovresti ascoltare i miei consigli
invece di prenderli alla leggera!»
Orione s’inginocchiò, le mandò un
bacio con la mano in segno di riverenza e si fermò qualche istante a guardarla
negli occhi. Poi si rialzò e, con un tono che sapeva tanto di promessa, le
disse: «Prima del calar del sole io prenderò un orso. Vedrai.»
«Vedremo» rispose Artemide,
divertita, e scortati dal fido segugio i due s’incamminarono nel folto della
foresta, mentre dal cielo azzurro una regale figura continuava a fissarli,
senza perderli d’occhio un solo istante.
Apollo mollò le redini e incrociò le
braccia, ritto sul suo cocchio dorato. I quattro cavalli dal respiro di fuoco
percepirono a malapena la mollezza delle briglie e, trottando sul vento,
proseguirono la propria corsa trascinando in cielo l’enorme palla di fuoco
agganciata al carro: il Dio li aveva addomesticati alla perfezione, ma quel
giorno avrebbero potuto anche fare dietrofront riportando il sole a est e lui
non avrebbe battuto ciglio, purché gli fosse stato ancora possibile spiare la
sorella e il suo giovane amico. Quella era la sua priorità, la sua ossessione, e lo era dal momento in cui
aveva capito che quel borioso cacciatore venuto dalla Beozia non aveva alcuna
intenzione di uscire dalla vita di Artemide, né lei aveva intenzione di
cacciarlo. E questa situazione ad Apollo non piaceva. Non piaceva proprio per
niente.
Allungò il collo, per vedere meglio
ciò che accadeva sotto. I biondissimi capelli pettinati indietro dal vento; lo
sguardo vigile e sospettoso, fisso sulle due piccole figure che, una di fianco
all’altra, correvano tra gli alberi. Sentiva le loro risate, i loro commenti,
persino il respiro affannato dalla corsa: attraverso il bagliore del sole, che
dorato si faceva strada tra le fronde spargendo ovunque macchie di luce, Apollo
poteva cogliere ogni dettaglio e, forte di questo straordinario potere, sapeva
bene ciò che i due stavano cercando.
«Avanti, cacciatore diverso dagli
altri» mugugnò fra sé e sé, sbeffeggiando il giovane. «Non essere timido e
datti da fare a stanare quest’orso…»
Per un po’ non accadde nulla. Nel
silenzio della vasta foresta, i minuti trascorsero lenti: dieci, venti, trenta,
quaranta… uno scorrimento pigro e ripetitivo. Ma Apollo non si concesse il
lusso di distrarsi e continuò a vegliare sulla casta sorella con fare vigile e
sospettoso, quasi si aspettasse che da un momento all’altro Orione superasse il
limite della sua cialtroneria e tentasse un approccio amoroso. Uno sviluppo
delle circostanze che al Dio del sole non sembrava affatto improbabile.
Ad un certo punto, Artemide si
fermò, s’inginocchiò lentamente e sfiorò il terreno con la punta delle dita.
Orione, poco più avanti di lei, si girò a guardarla, poi fissò lo sguardo a
terra e si chinò come se avesse a sua volta trovato qualcosa d’interessante.
Apollo rizzò la testa, incuriosito, e dal cielo vide la sorella che con
l’indice seguiva i contorni di un’impronta stampata nel terriccio.
Un’impronta di…
Orso.
Artemide parlò a Orione rivolgendogli un’occhiata accesissima. Hai visto?
Il cacciatore scacciò con la mano il
muso di Sirio, accorso ad annusare anche la sua orma dopo aver annusato quella
della Dea, e la analizzò meglio. Per quanto abile fosse non era sicuramente
veloce quanto Artemide a riconoscere le impronte di animali e detestava
eccitarsi inutilmente. Ciononostante ci mise poco, molto poco, a farsi un’idea:
quella era senza dubbio l’impronta di un orso. Guardò la Dea e annuì, serio,
mentre l’istinto gli serrava le dita intorno all’arco di legno.
Artemide annusò l’aria e arricciò il
naso, come se avesse colto un odore sgradevole. Si guardò intorno, si alzò in
piedi e, stando attenta a non far rumore, si avvicinò a Sirio: il segugio aveva
ora il muso sprofondato negli alti ciuffi d’erba che lambivano le radici degli
alberi. Artemide si chinò e gli posò una mano sul collo. Orione le fu subito
accanto.
«Feci di orso.» Il gigante indicò
col mento l’ammasso di poltiglia marroncina che, col suo tanfo, aveva attirato
a sé il cane. «Inconfondibili.»
«Sono ancora fresche» gli fece
notare Artemide.
«Lo so.» Orione si alzò, rovesciò il
braccio all’indietro ed estrasse una freccia dalla faretra, senza ancora
incoccarla. «Non mi scapperà. Nessun animale può salvarsi da me.»
Indignato, ma in qualche modo anche
divertito, Apollo schioccò la lingua. «Ma tu guarda con che presunzione questo
sbarbatello fa mostra di sé di fronte ad Artemide! Da non credere!» La sua
testa dondolava a destra e a sinistra, spinta da un prorompente moto di negazione:
quell’Orione era troppo odioso per essere reale. Ah, ma vediamo! Vediamo come va a finire!
Il cacciatore guardò il suo cane
negli occhi e fischiò: un fischio breve e acuto, e immediatamente il segugio si
tuffò nella selva scomparendo alla vista. Orione e Artemide si scambiarono
un’occhiata d’intesa e cauti come due cerbiatti gli andarono dietro, muovendosi
a ridosso degli alberi. Dovevano diventare invisibili, fondersi il più
possibile col verde della foresta, perché se davvero ci fosse stato un orso
nelle vicinanze Sirio lo avrebbe trovato, gli sarebbe andato alle spalle e lo
avrebbe spinto da loro, com’era stato addestrato a fare. E, per abbattere la
sua preda, Orione aveva bisogno di coglierla di sorpresa, prima ancora che
questa potesse percepire il suo odore. Non poteva concedersi di sbagliare. Non
di fronte alla Dea della caccia.
Scivolarono via altri minuti.
Apollo, con entrambe le mani ora posate sui fianchi, osservava i due strisciare
nelle profondità boscose, l’uno al fianco dell’altra, e il suo volto era scuro
di gelosia; il volto di un bellissimo Dio intento a spiare l’infame che, presto
o tardi, avrebbe tentato di sottrargli l’affetto della sua adorata gemella.
Inspirò a fondo, quando d’un tratto le sue pupille si dilatarono focalizzandosi
su una cosa nera e grossa che si
stava facendo strada tra gli alberi.
Era l’orso.
Apollo alzò le sopracciglia,
mostrando una blanda sorpresa, quindi tornò a guardare i due e nel medesimo
istante Artemide alzò la testa e fissò il carro dorato, come se da lassù
qualcuno l’avesse chiamata. Apollo sussultò, colpito dall’inaspettato sguardo
della sorella, e dopo un istante di smarrimento sollevò piano una mano, in
segno di saluto. Artemide rispose con un sorriso tirato e frettoloso, che al Dio
non piacque per niente, e subito lo ignorò tornando a concentrarsi sulla
caccia. Apollo, che sapeva dell’imminente arrivo dell’orso, aprì istintivamente
la bocca come per dire qualcosa e subito la richiuse. Gettò un’altra occhiata
all’animale: infastidito dalla presenza del segugio nel suo territorio, l’orso stava
avanzando verso i due e tra poco se li sarebbe trovati davanti.
Ma… cos’erano quelli?
Apollo sbatté le palpebre e si
domandò come avesse potuto non cogliere quel dettaglio: accanto all’orso
c’erano due piccole palle scure; due batuffoli col passo dondolante e allegro,
che con immane goffaggine stavano avanzando tra gli arbusti. Il Dio arricciò
nervosamente una ciocca di capelli intorno all’indice: ora più che mai gli
importava di assistere allo svolgimento di quella situazione. E, appena un paio
di minuti dopo, gli animali si palesarono ai due cacciatori.
Artemide e Orione, che durante
l’avanzata si erano separati di poco l’uno dall’altra, si accucciarono tra gli
alberi. D’istinto, la Dea scrutò prima i cuccioli poi l’orsa, e nel vederla le
sue labbra si serrarono in una linea bianca: era un esemplare di dimensioni
notevoli, col pelo bruno e gli occhi piccoli e vigili, da madre premurosa; un
esemplare che avrebbe lottato fino all’ultimo barlume di energia pur di
difendere la propria prole. Artemide incoccò la freccia, pur essendo decisa a
non attaccare. Quella preda era di Orione, ma se le cose fossero andate male ci
avrebbe pensato lei e subito glielo comunicò guardandolo negli occhi.
No,
mia Dea. Serissimo, il cacciatore la invitò a
mettere giù l’arco, con un cenno della mano. Non ce n’è bisogno. Non sbaglierò.
Artemide indugiò. Non voleva
offendere Orione, ma non voleva neppure che quella splendida orsa, che ormai
era nelle loro mani, fuggisse via lasciandoli là come due imbecilli. E per
cosa, poi? Perché quello sciocco d’un cacciatore era troppo pieno di sé e
perché lei, la selvaggia Signora della caccia, non si era fatta trovare
preparata? Bella figura avrebbero fatto.
È
solo per precauzione...
Dammi
fiducia, mia Dea. Nessun animale può salvarsi da me. Ricordalo.
Artemide abbassò l’arco, lentamente.
«Ti credi proprio il migliore del
mondo, eh?» Il biondo Dio scrutò l’avversario con odio e per la prima volta in
tutta la sua lunga vita si trovò a fare il tifo per la preda. In fin dei conti,
non era poi così improbabile che essa se la cavasse: Orione aveva perso istanti
preziosi lanciando occhiatine e cenni ad Artemide, e forse l’animale stava già
cominciando a percepire il suo odore, o almeno così sperava Apollo. «Fa’ vedere
cosa sai fare, avanti…»
Orione incoccò la freccia, si passò
la lingua sulle labbra e rivolse ad Artemide uno sguardo intenso; un luccichio
d’iridi così tremendamente vanaglorioso
(Ammirami,
mia Dea)
che Apollo sentì le guance incendiarsi.
Infine si alzò. Piano. Pianissimo. Una letale e invisibile presenza nel folto
della foresta. L’orsa non lo vide, ma sollevò il muso e annusò rumorosamente
l’aria: pochi secondi e tutto sarebbe stato perduto. Orione prese la mira e
tirò indietro la freccia, di più, ancora di più, e in quel momento Apollo lo
trovò bellissimo: l’espressione virile e concentrata, la posa da arciere
perfetto, il petto gonfio da maledetto sbruffone. Era splendido e si sentiva
splendido. Ogni fibra del suo misero corpo mortale stava gridando ad Artemide
di divorarlo con gli occhi, di stampare la sua epica sagoma nella memoria,
perché non vi erano al mondo cacciatori meravigliosi quanto lui e lei meritava
qualcuno alla sua altezza e insieme sarebbero stati una coppia bellissima e
Apollo sapeva che lo stava pensando, lo sapeva, glielo leggeva addosso, e
abbattuta quell’orsa lei avrebbe sospirato per lo stupore e lui le avrebbe
sorriso come sorridono i maschi quando la loro preda abbassa ogni difesa e…
Un raggio di sole precipitò sulla
terra.
Apollo lo scagliò con rabbia
facendolo rimbalzare a nord, sulle acque di un lontanissimo ruscello celato
nelle profondità boscose. E tra le fronde, alle spalle dell’enorme orsa,
scintillò accecante la luce del sole. Un bagliore inaspettato e violento, come
una seconda alba.
Maledizione!
Orione chiuse gli occhi e mollò il
colpo. La freccia sibilò nell’aria come un serpente, superò di una spanna la
testa dell’orsa e si conficcò nel tronco di un cedro, con un forte schiocco.
L’animale sobbalzò per lo spavento, aprì le fauci ed emise un bramito
infuriato. I suoi cuccioli si voltarono e fuggirono, scomparendo nella selva.
Velocissimo, il gigante rovesciò il braccio all’indietro ed estrasse un’altra
freccia dalla faretra, ma nell’atto d’incoccarla essa gli scivolò di mano e
cadde per terra.
«Bravo
imbecille!» Apollo scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le dita.
Avrebbe potuto ridere per tutto il giorno, tanto lo aveva esilarato rovinare la
festa a Orione, ma quando vide Artemide uscire dai cespugli ed ergersi in tutto
il suo splendore le risate gli morirono nel petto. Quant’era bella! Così virile
ma al tempo stesso femminile in quel modo tutto suo! Apollo la contemplò
incantato, mentre con vigore questa alzava l’arco, e lo stesso fece l’orsa zittendosi
all’istante: riconosceva l’autorità della sua Signora. Ogni creatura della
foresta la riconosceva. E, repressa la propria rabbia, la bestia si voltò
rapidamente, decisa a fuggire.
Artemide tirò indietro la freccia;
il cordino dell’arco le scricchiolò nell’orecchio.
«NO!»
Orione gridò, adirato. La Dea si voltò di scatto verso di lui: si era appena
rialzato, dopo aver raccolto la freccia, e si stava preparando a incoccarla. «È MIA!»
Artemide avvertì una fiammata d’irritazione:
non era abituata a sentirsi parlare con quel tono. E, mentre era indecisa sul
da farsi, Orione si gettò al suo fianco, con la freccia puntata contro la
schiena dell’orsa. Allora la Dea abbassò l’arco per la seconda volta, con
evidente fastidio, e lasciò che il cacciatore scoccasse. Fu un altro colpo a
vuoto: l’orsa schivò la freccia, variando all’improvviso il proprio percorso,
eppure Orione non si diede per vinto. Sfilò una terza freccia dalla faretra, la
incoccò e scoccò ancora. Ma tra lui e l’orsa c’erano ormai troppi alberi,
troppi rami, troppo fogliame, e la freccia finì col spaccare l’ennesima
corteccia. Infine, l’animale scomparve nel verde.
«MERDA!»
Orione gettò l’arco a terra e imprecò più volte; pochi attimi di rabbia pura,
uno sfogo che gli sembrò assolutamente legittimo, e subito cominciò a
recuperare il controllo di sé. Si passò una mano sulla fronte sudata e si voltò
verso Artemide. «Io… ti chiedo perdono» disse, chinando la testa. «Non avrei
mai dovuto urlarti in quel modo. Sono mortificato.»
«Già, non avresti dovuto. Ma non
importa.» Artemide gli posò una mano sul braccio; un gesto che ad Apollo non
sfuggì. «So che è frustrante veder fuggire una preda.»
«Io... non capisco.» Orione vide
Sirio uscire dalla vegetazione e venirgli incontro con la lingua a penzoloni.
Gli accarezzò la testa. «Era mia, ormai ce l’avevo in pugno! Ma, proprio mentre
stavo per scoccare la freccia, un raggio di sole mi ha colpito gli occhi. Una
specie di riflesso…»
Artemide annuì: anche lei aveva
visto quella lama di luce tra le foglie. «Ormai è andata.» disse, battendo una
mano sulla schiena del cacciatore. «Su, andiamocene verso la spiaggia a dar la
caccia a qualche cervo.»
Orione le sorrise, più per farle
piacere che per autentica voglia di sorridere, quindi raccolse l’arco e
s’incamminò tra gli alberi seguito dal suo segugio. Rimasta indietro, Artemide
alzò la testa al cielo e guardò il fratello, dritto sul suo luccicante cocchio
d’oro: sapeva che si era intromesso nella loro battuta di caccia e con gli
occhi lo rimproverò. Lui non se ne preoccupò affatto e la fissò di rimando, con
un tranquillissimo sorriso sulle labbra, mentre il vento gli scuoteva il
mantello e i biondissimi capelli. Artemide sospirò, scosse il capo e seguì
Orione nella foresta.
La caccia ai cervi andò bene e la sera
Artemide e Orione si trovarono seduti su di una spiaggia sassosa, a banchettare
in compagnia delle ancelle di lei. Il cielo era nero, coperto di nubi; una
notte senza stelle né luna. Le onde del mare si frangevano a riva con un
morbido fruscio; sul fuoco scoppiettante, acceso per l’occasione, cuocevano le
carni del secondo cervo abbattuto, mentre quelle del primo, già cotte,
passavano da una serva all’altra insieme a coppe di legno grezzo colme di vino.
S’imboccavano a vicenda, le ancelle, e di tanto in tanto imboccavano anche la
loro Dea, posandole sulle labbra bocconcini di carne. Orione stava cominciando
ad abituarsi a quelle dimostrazioni d’affetto, sebbene una parte di lui
persistesse nel trovarle alquanto bizzarre: tutte quelle femmine erano un po’ troppo legate tra loro. Troppi
baci, troppe carezze… in quel gruppo c’era qualcosa che andava oltre la
semplice devozione e l’amicizia, e Orione, che non era una cima ma non era
neanche stupido, ormai lo aveva capito. Ma quelle dinamiche gli andavano bene,
anzi, benissimo. Era strano trovarsi all’interno di un gineceo del genere,
perfettamente integrato come se la sua natura maschile non fosse ancora stata
scoperta, ma era anche molto, molto
eccitante; una condizione, quella di unico maschio, che lo faceva sentire
potente e privilegiato, e per certi versi anche responsabile di quel gruppo,
come responsabile di esso si sentiva la Dea.
La sintonia tra loro cresceva di
giorno in giorno.
«Non bevete troppo!» disse Artemide
sottraendo a una delle ninfe, con le gote già rosse, l’ennesima coppa di vino.
«Domani andiamo a caccia sulle montagne e mi servite scattanti!»
«E lasciale bere, che vuoi che sia!»
Orione si versò altro vino e lo tracannò tutto. Malgrado la caccia all’orsa
fosse stata un fiasco totale era di buonumore e aveva voglia di ubriacarsi.
Riempì di nuovo la coppa. «Bere dopo una dura giornata è un piacere che
andrebbe concesso a tutti…»
«Sono le mie ancelle, non le menadi di Dioniso! Non sono abituate a bere
tanto, quindi decido io quando devono
fermarsi.» Per dispetto, Artemide gli diede un colpetto sul fondo del calice:
uno sbuffetto che gli fece traboccare il vino dagli angoli della bocca. «Spero
che il concetto ti sia chiaro.»
«Mpf!»
Il gigante rise, mentre col dorso della mano si asciugava il mento gocciolante.
«Colpa mia. Dimenticavo che a voi Dei non piace sentirvi dire cosa dovete
fare…»
«Esattamente.» Artemide sorrise,
allungò le gambe e posò i piedi in grembo a una delle ancelle, che con
delicatezza cominciò a slacciarle i sandali e ad accarezzarle le caviglie.
Quindi, sfilò il calice dalla mano di Orione, rovesciò il capo all’indietro e
trangugiò il vino. Infine gli rese la coppa, vuota.
Orione ridacchiò e la riempì di
nuovo, versandosi metà vino sulla mano. Aveva gli occhi lucidi; la mente sempre
più annebbiata. «Bevi come un uomo, mia Signora...»
«Non sei il primo che me lo dice»
rispose Artemide sorridente, mentre con le dita saliva ad arricciare i capelli
della ninfa seduta al suo fianco, che subito poggiò la testa sulla sua spalla
lasciandosi coccolare. «Tu invece, amico mio, bevi come un cinghiale...»
A Orione per poco non andò di
traverso il vino. «Un cinghiale?!» ripeté.
«Sì, un cinghiale! Bevi e sguazzi
nel vino come fanno loro quando trovano una pozza d’acqua nella foresta!
Guardati! Sei tutto zuppo!»
Orione si passò una mano sulla
tunica e la trovò umida di vino in più punti. Allora rise, ripensando al
paragone, e Artemide e le sue ancelle risero con lui, e complice l’atmosfera
frizzante e un po’ alcolica in pochi istanti tutti si trovarono a ridere a
crepapelle, con le lacrime agli occhi.
Sarebbe stata una lunga notte. Una
notte allegra e spensierata, con l’aroma di legna e carne abbrustolita che
avrebbe fatto da sottofondo alle chiacchiere insensate del gruppo, o almeno
questa era l’idea che si era fatta Artemide; un’idea che persistette fino al
momento in cui Orione, stanco e completamente ebbro, non si sdraiò sulla
schiena e cadde addormentato. E, con lui fuori gioco, l’atmosfera si raffreddò
in pochi minuti: tra uno sbadiglio e l’altro si distese la maggior parte delle
ancelle, riparandosi dal freddo della spiaggia con le folte pellicce, mentre le
rimanenti continuavano a girare la carne di cervo sul fuoco e a gettare ai cani
le ossa avanzate dalla cena. Artemide le guardò sommariamente: non sembravano
avere sonno e le loro guance erano più bianche, segno che probabilmente non
avevano toccato vino. E proprio mentre era là a guardarle, assorta nei suoi
pensieri, queste alzarono tutte insieme gli occhi su di lei; occhi tondi, accesi
d’interesse. Artemide sbatté le palpebre, confusa, e subito capì d’essersi
sbagliata.
Le fanciulle non stavano guardando
lei.
Stavano guardando dietro di lei.
E all’improvviso un bagliore aureo
l’avvolse, sfidando la calda luce del fuoco, e una mano amichevole scese a
posarsi sulla sua spalla. Artemide si voltò e vide Apollo.
«Oh, ma guarda chi c’è!» La Dea si
alzò in piedi, incrociò le braccia sul seno e fronteggiò il fratello,
palesemente maldisposta. «Mi pareva strano che non fossi nascosto da qualche parte
a spiarmi…»
Apollo arrossì. In certe occasioni
Artemide sapeva essere terribilmente diretta. «Bè, spiare è una brutta parola»
rispose e, per camuffare il proprio imbarazzo, inclinò la testa in modo che la
luce del fuoco gli saettasse sul viso. «Diciamo che presto attenzione a ciò che
accade nel mondo…»
«Certo.» Artemide gli rivolse un
sorriso sarcastico. «E a quanto vedo presti attenzione anche alle battute di
caccia altrui.»
Apollo non rispose. Si allontanò di
qualche passo e gironzolò intorno al fuoco fino a fermarsi davanti al gigante.
Stava russando: le braccia abbandonate a terra; il capo poggiato accanto
all’avambraccio di una delle ancelle, addormentata a sua volta. Il Dio lo
guardò come disgustato e per un istante Artemide pensò che gli avrebbe tirato
un calcio. «Il grande cacciatore…»
mormorò fra sé e sé, mentre la sagoma dell’orsa in fuga nella selva gli si
ripresentava sugli occhi come un bel ricordo.
«Lascialo dormire» gli intimò
Artemide, allontanandosi dal fuoco come se volesse fare due passi. «Ha avuto
una dura giornata.»
«Ah, certo!» Apollo rise di gusto e
lasciò il gigante ai suoi sogni. Non si sarebbe svegliato neppure se in cielo
fosse esplosa la folgore più tremenda di Zeus: era troppo ubriaco. «In effetti
è molto faticoso farsi sfuggire una preda sicura come quella di oggi. Quante
frecce ha sprecato tentando di colpirla? Tre?»
«Smettila.» Artemide si allontanò
ancora. «Non sei divertente.»
Apollo le corse dietro, la prese per
mano e la obbligò a girarsi. «Ho bisogno di parlarti.»
Come se non avesse udito, Artemide
si liberò mollemente la mano e s’inoltrò nella foresta buia, fermandosi di
fronte a un cespuglio di rovi. Là, cominciò a raccogliere delle more e a
mangiarle svogliatamente. «Parlerò con te dopo che mi avrai spiegato perché hai
mandato a monte la battuta di caccia di Orione.» Gli gettò un’occhiataccia. «So
che sei stato tu. Non sono stupida.»
«Non oserei neppure pensarlo…»
Apollo le posò una mano dietro la schiena. «Ascoltami. Sono preoccupato per
te.»
«Cosa?» Artemide lasciò cadere le
more, si girò e sorrise al fratello. Lui sentì il profumo di vino nel suo
respiro e la cosa gli piacque e non gli piacque. «Preoccupato per me?» ripeté
lei, come se non riuscisse a cogliere il punto.
«Sì. Non mi piace quell’Orione.»
Apollo le prese entrambe le mani. «Dico sul serio. Credo che dovresti smettere
di vederlo.»
«E perché mai?» Artemide si liberò
ancora e lo fissò negli occhi. Era stupita e divertita, ma sotto sotto anche
irritata. «È un abile cacciatore e io sto bene in sua compagnia.»
«Lo vedo che ci stai bene. Non sono
mica cieco!» Apollo ebbe uno scatto di gelosia che gli fece diventare il viso
tutto rosso. Poi abbassò la testa, sospirò e tornò a guardare la sorella.
«Perdona il mio nervosismo. È solo che… Orione è innamorato di te. E questo io
non posso tollerarlo.»
Artemide rimase immobile per qualche
secondo, come pietrificata, quindi scoppiò a ridere. «Ma che dici, Apollo! Lui
è innamorato di Eos, lo sanno tutti! Non dire scemenze!»
«L’avrà anche amata, ma ora ama te.»
«Ah, smettila! Non è vero.»
«Vero o no, a me quello non piace. È
un gradasso, si mette perennemente in mostra di fronte a te e sono certo che un
giorno non molto lontano tenterà di sedurti.» Apollo accarezzò la guancia della
sorella con la punta dell’indice e subito abbassò la mano. «Lo farà. Sta solo
aspettando il momento giusto. Credimi.»
Artemide gli lanciò un’occhiata
diretta, accompagnata da un sorrisetto sornione.
Tu
sei solo geloso…
Apollo si sentì sciogliere. La Dea
era bellissima.
Sì.
Sono geloso. Gelosissimo. E come potrei non esserlo?
«Le tue sono semplici paranoie.
Orione innamorato di me… figuriamoci!» Artemide si girò, staccò una mora dal
cespuglio di rovi, se la ficcò in bocca e tornò a guardare Apollo, stavolta con
grinta. «E poi, ti sembra il caso di preoccuparti per me?» Si batté sul petto
con il pollice. «Io sono Artemide! So
bene come proteggere la mia virtù e come tenere alla larga eventuali
pervertiti! Hai forse dimenticato quanto io possa essere forte e vendicativa?»
«No… certo che no.» Apollo distolse
lo sguardo. «So che sei forte…»
Temo
solo che tu possa innamorarti di Orione.
«Allora smettila con queste
stupidaggini.» Artemide indurì lo sguardo. «E smettila di spiare me e Orione.
Mi dà fastidio.»
«No
che non la smetto!» Apollo, stritolato dalla gelosia, prese di nuovo le
mani della sorella e le strinse tra le sue, avvicinandola a sé. «Ti prego,
Artemide! Io non ti riconosco più!»
«Che stai…?»
«Mi sembri completamente impazzita!»
Il Dio allungò un braccio e indicò il punto dove la ancelle riposavano intorno
al fuoco. «Laggiù c’è un uomo ubriaco
insieme alle tue cacciatrici vergini! Da
solo! Un tempo non avresti mai permesso una cosa del genere!»
«Ma io mi fido di Orione…» Artemide
guardò Apollo come se fosse lei a non riconoscerlo più. «Non oserebbe mai
sfiorare le mie ancelle.»
Lui le accarezzò di nuovo la morbida
guancia, stavolta con tutta la mano. «Ti prego…» sussurrò, resistendo al
bruciante desiderio di baciarla sulla bocca. «Caccialo per sempre, prima che
accada qualcosa di terribile.»
«No.»
Artemide si liberò con determinazione. «Orione è mio amico e starà con me
finché lo desidererà! E tu bada agli affari tuoi una volta per tutte!»
Apollo fece un passo indietro, a
capo chino, ed entrambi sentirono l’aria della foresta farsi gelida e
sgradevole. Artemide si strinse nelle spalle, innervosita, e lasciò passare
ancora qualche istante di silenzio. Quindi si riavvicinò al fratello e posò
entrambe le mani sulle sue spalle.
«Non preoccuparti per me. Me la so cavare…»
gli disse con un tenue sorriso. Poi, prima che lui avesse il tempo di
ribattere, gli stampò un bacio innocente sulla guancia, gli augurò la
buonanotte e uscì dalla vegetazione. Il Dio si sfiorò con le dita il punto dove
era stato baciato, poi uscì dalla selva e si fermò a guardare la sorella che
faceva ritorno dalle sue ancelle. E quando la vide prendere posto accanto a
Orione, ancora sdraiato a terra, le sue labbra si tesero in una smorfia cupa:
parlarle non era servito a nulla e a nulla sarebbe servito farle quel discorso
una seconda e una terza volta, magari utilizzando altre parole o un altro tono.
Al cacciatore avrebbe dovuto
pensarci lui. Ormai non c’era altra soluzione.
E, presa la sua decisione, Apollo se
ne andò.
Nessun commento:
Posta un commento