Malgrado
avesse bevuto più vino di tutti, quella mattina Orione fu il primo ad aprire
gli occhi. Fu la sete a svegliarlo: la sua gola era arida, le labbra secche e
screpolate. Si alzò in piedi, barcollante, e una fitta di dolore gli stritolò
la testa; un maledetto cordino invisibile stretto sulle sue tempie. Si
massaggiò la fronte, indietreggiando di un passo, e per poco non calpestò il
braccio di una delle ancelle. Allora si fermò e, col cervello improvvisamente
attivo e il cuore che pulsava forte come l’emicrania, si guardò intorno. Cosce,
piedi, pellicce, capelli biondi e bruni mescolati assieme… Le seguaci della Dea
si erano addormentate tutte intorno al fuoco formando un caotico e sensuale
groviglio di femmine; un’equilibrata mescolanza di tuniche bianche e rosea
pelle da cui non spiccava neppure un seno nudo. Anche durante il sonno
notturno, quelle vergini non dimenticavano mai di stare riposando accanto a un
maschio, e da quando Orione faceva parte del loro gruppo si erano abituate a
muoversi di conseguenza, stringendo al corpo la stoffa della veste in modo che
nulla potesse scivolare fuori; e mai
era capitato che, in sua presenza, qualcosa scivolasse fuori… neppure durante
le battute di caccia, con i rami degli arbusti che spesso s’impigliavano alle
loro belle tuniche, strappandone gli orli, e Orione ormai aveva concluso che
sarebbe stato più probabile vedere il cielo e il mare scambiarsi di posto,
piuttosto che riuscire a scorgere le nudità di quelle caste e bellissime ninfe.
Ma
quella mattina, col cervello che gli premeva insistentemente contro il cranio,
il gigante non si fece venire pensieri caldi. Ignorò quei corpi tutti uguali e
con lo sguardo andò istintivamente da Artemide. Anche lei stava ancora
dormendo, con la testa poggiata sulla coscia di una delle serve, e se non fosse
stato per il suo bagliore divino e per la tunica verde che la faceva spiccare
in mezzo alle altre, tutte bianche, si sarebbe mimetizzata in quel groviglio alla
perfezione. Orione la osservò, aspettandosi di vederla aprire gli occhi da un
momento all’altro, e quando capì che il suo sonno era ancora pesante raccolse
arco e faretra, se li sistemò in spalla e oltrepassò i corpi delle fanciulle
assopite, stando attento a non calpestarle. E, non appena ebbe abbandonato quel
giaciglio improvvisato, si guardò di nuovo intorno, stavolta alla ricerca di
Sirio, ma la spiaggia si presentò a lui piatta e silente: del cane e di tutti
gli altri segugi non vi era alcuna traccia.
Orione
si grattò la testa e, appena dopo qualche secondo, si ricordò ciò che già
sapeva: la mattina presto i cani erano soliti gironzolare in branco nella
foresta, per godersi un po’ di libertà prima che Artemide li richiamasse a sé
dando il via alla caccia; un’abitudine che Sirio aveva subito fatto sua. Allora
Orione si rasserenò e s’inoltrò nella boscaglia, mentre ritto sul suo carro
dorato Apollo lo fissava in silenzio.
Ogni
mattina il gigante e Artemide si separavano per andare a fare il bagno, a
notevole distanza l’uno dall’altra, e quel giorno non sarebbe stato diverso
nonostante lui si fosse destato per primo. E, quando lo vide avvicinarsi a un
ruscello cristallino, Apollo sorrise fra sé e sé, compiaciuto: tutta quella
prevedibilità giocava a suo favore.
Orione
affondò entrambe le mani nell’acqua e bevve avidamente; sorsi grandi, a guance
piene, che gli rinfrescarono la gola e sciolsero buona parte del suo malessere.
Poi si spogliò, gettò a terra tunica e armi, e si lavò nel ruscello. Apollo gli
concesse quest’ultimo piacere… pochi minuti che trascorsero in fretta. E quando
il gigante cominciò a rivestirsi, il Dio dai capelli biondi lasciò andare le
redini. L’espressione seria e solenne; le braccia distese lungo i fianchi; i
palmi delle mani rivolti all’immenso mondo sottostante... quel mondo che
dipendeva dal suo sole come un neonato dipende dalla madre. E attraverso quella
luce, che dorata si stendeva dappertutto donando vita e calore, Apollo si
rivolse a Gea, la potente Madre Terra.
O grande Dea progenitrice! O sposa
di Urano, donatrice di frutti, madre degli Dei! Chi ti parla è Apollo, lo
Scrutatore dei cieli, Portatore di luce, Signore dell’eterno sole! Ascolta la
sua voce, o Dea misericordiosa, poiché egli ha un messaggio molto importante da
comunicarti!
La
terra ebbe come un palpito: una specie di lungo sospiro. I fili d’erba
sfrigolarono nell’aria del mattino, attraversati da scariche di energia pura;
le foglie sugli alberi ruotarono morbidamente verso il cielo, in modo da
catturare più luce possibile, mentre il ruvido terreno respirava piano, senza
emettere alcun suono. La Dea era in ascolto. Apollo la sentiva e, pur non
vedendola distintamente, la vedeva sulla superficie del mondo come se esso
avesse improvvisamente aperto gli occhi.
Sorrise,
fiero di quella connessione esclusiva.
O Madre, da giorni un odioso
cacciatore si aggira tra i tuoi verdi e odorosi boschi con passo tracotante,
sfidando la tua autorità. Riesci a vederlo? S’è dissetato e lavato nelle tue
acque e ora si sta vestendo all’ombra delle tue frasche.
Una
foglia si staccò da un ramo e cadde tra i capelli di Orione. Lui se la scrollò
di dosso e continuò a vestirsi.
Sì, confermò Apollo. Orione è il suo nome e infinita è la sua
arroganza. Egli si vanta di poter sterminare qualsiasi bestia gli si pari di
fronte, anche il cinghiale più temibile e l’orso più minaccioso! Ed essendo
convinto che nessuno dei tuoi animali possa terrorizzarlo né sopravvivergli,
egli si proclama superiore a te, grande Dea, e un simile atteggiamento deve
essere punito.
Orione
raccolse la cintura di cuoio da terra, fece per stringerla sui fianchi e… si
fermò. Si guardò intorno e tese l’orecchio nell’intento di cogliere rumori
sospetti: aveva l’impressione che qualcuno lo stesse osservando. Girò su se
stesso, lentamente, e non trovando null’altro che verdissima selva si rilassò,
strinse la cintura intorno alla vita e cominciò ad allacciarsi i sandali.
Difendi il tuo onore, mia Dea.
Difendi la tua autorità. Apollo
serrò i pugni, mentre il fuoco della vendetta gli faceva brillare gli occhi. Fa’ che Orione fronteggi una creatura da lui
mai veduta prima, in grado di terrorizzarlo e infine sconfiggerlo cosicché, in
punto di morte, egli possa capire quanto tu sia potente e quanto egli sia
misero. Ma non attendere, Madre Terra! Non te lo consiglio! Il cacciatore ha
plagiato la mente e il cuore della mia casta sorella Artemide ed ella, povera
innamorata, non esiterebbe ad accorrere in suo aiuto. Perciò fa’ ciò che devi
fare e uccidilo ora che è solo.
La
verde Dea rispose con un altro lungo sospiro che dagli alberi, dai fiumi, dalle
rocce e dalle pianure salì fino ad Apollo, come un segreto da confidare a lui
solamente; la voce sensuale di un’entità generosa e temibile, splendida e terrificante,
che solo l’orecchio di un Dio poteva tollerare e che, intorno al fiero corpo di
Apollo, si espanse come un buonissimo profumo.
(Lo farò.)
Apollo
sorrise e i suoi occhi verdi scintillarono di gioia e malignità.
(Punirò Orione per la sua arroganza. E lo
farò immediatamente.)
Il
Dio inviò con la mano un bacio alla Madre Terra e rimase in attesa, impaziente
di godersi la scena. E, proprio come aveva promesso la verde Dea, lo spettacolo
cominciò all’istante.
Sotto
la suola del piede destro, mentre era ancora inginocchiato a stringersi i
sandali, Orione avvertì il terreno muoversi: una specie di fremito, come se
nella terra si fosse aperta una piccola feritoia e qualcosa stesse premendo per
uscire, lottando contro la sua suola. Qualcosa di duro. Il cacciatore ebbe un tuffo al cuore. Balzò all’indietro,
teso come un gatto colto di sorpresa, e i suoi occhi si sgranarono così tanto
da fargli male.
Era
vero.
Nella
terra bruna si era aperta una fessura e da essa, arrancando a fatica come se il
suolo lo stesse partorendo, stava fuoriuscendo un animale.
Che cosa…?!
Orione
sentì la pelle delle braccia accapponarsi. Non aveva mai visto una creatura del
genere e, tra la fascinazione e il disgusto, la osservò a bocca aperta, mentre
questa usciva completamente dalla feritoia mostrandosi alla luce del sole. Non
si trattava di un animale enorme, bensì di un essere piccolo, lungo meno di una
spanna, col corpo nero e lucido e due robuste chele simili a quelle dei
granchi. Il dorso era coperto di piastre scure, come se la natura l’avesse
dotato di una corazza per proteggersi dai nemici, e tutt’intorno ad esso
quattro paia di zampe si flettevano con ipnotica sinuosità, senza smuovere
neppure un granello di terra. E quell’addome oblungo e corazzato, così spesso a
vedersi che pareva quasi nera pietra, si arricciava sul fondo fino a creare una
strana coda con un grosso bulbo appuntito sull’estremità: il pungiglione più
spaventoso che Orione avesse mai visto.
«Uno
scorpione…» Apollo si accarezzò il mento con aria soddisfatta. A differenza del
gigante conosceva molto bene quel figlio della Terra e le sue letali
potenzialità. «Ottima scelta, mia Dea. Davvero un’ottima scelta.»
Lo
scorpione puntò Orione e gli corse incontro velocissimo; uno scatto improvviso
e minaccioso, che strappò il cacciatore dal suo stato di alienazione e lo
precipitò nel panico. Quell’essere era minuscolo, ma per qualche ragione gli
trasmetteva un viscerale senso di pericolo e disgusto.
«Schifosa bestiaccia! Non t’avvicinare!»
Con uno strattone, Orione staccò dalla cintura il suo coltello da caccia. «Tornatene negli inferi!» ruggì
pugnalando brutalmente lo scorpione sul dorso; un colpo netto e preciso, di
punta. Ma la lama, come se avesse urtato un sasso impossibile da spaccare,
scivolò in obliquo sul corpo dell’animale, conficcandosi nel terreno.
Orione
sbiancò, incredulo, e al contempo Apollo sorrise, piacevolmente stupito.
«Oh!
Uno scorpione immortale. Interessante.»
Voglio proprio vedere come te la
cavi ora, grande cacciatore.
Orione
tentò di estrarre il coltello dalla terra, ma lo scorpione, ormai troppo
vicino, lo attaccò. La sua coda schioccò come una frusta e il gigante ritrasse
il braccio appena in tempo, poco prima che il pungiglione gli colpisse la mano.
«Merda!» Col cuore a mille, Orione scattò
all’indietro e con un calcio scaricò addosso all’animale foglie secche e
terriccio, spingendolo ad allontanarsi dal coltello. Quindi, approfittando di
quella distanza di sicurezza, afferrò l’arma, la estrasse dalla terra e si scagliò
di nuovo contro la creatura. «Maledetto
mostro! Prendi! Prendi! PRENDI!»
Una
raffica di colpi di lama, rapidissimi e aggressivi, si abbatté sul dorso dello
scorpione; affondi decisi, forzuti e… tremendamente tintinnanti. Il bronzo del coltello sbatteva e sbatteva contro quel
piccolo corpo corazzato, senza però riuscire a scalfirlo, e ad ogni colpo
Orione sentiva la lama sul punto di scivolargli via dal pugno, come se ci fosse
qualcosa di molto sbagliato in ciò che stava tentando di fare.
«Non ti piace il coltello? D'accordo!»
Mollato
l'ultimo colpo, Orione lasciò che il pugnale si conficcasse nel terreno fino
all'elsa. Insistere col coltello era inutile: doveva cambiare tattica.
Indietreggiò velocemente in modo da guadagnare distanza rispetto allo scorpione,
che imperterrito continuava a pressarlo, e si guardò intorno passando in
rassegna il sottobosco, finché trovò ciò che stava cercando.
Un
grosso, pesantissimo masso.
Lo
afferrò con tutte e due le mani, gonfiò i bicipiti e lo sollevò dal terreno.
Quindi lo alzò sopra la testa e si girò verso l'animale. .
Vieni qui, bestiaccia... avanti...
vediamo se questo ti piace...
Lo
scorpione si precipitò da lui, veloce, sempre più veloce. E, non appena fu alla
giusta distanza, Orione gli scaraventò addosso il masso.
«PRENDI QUESTO, STRONZO!»
La
roccia urtò la terra con un gran botto, sollevando sbuffi di terriccio e foglie
secche. E, immediatamente dopo quel tuono tremendo, un silenzio tombale si
distese tra gli alberi.
Orione
si asciugò il sudore dalla fronte e sorrise. Con quell'attacco aveva colto di
sorpresa lo scorpione, ne era sicuro, e ora con gli occhi della mente lo vedeva
spiaccicato tra il voluminoso masso e la terra; una schifosissima poltiglia
nerastra, senza alcuna forma. Ma, prima che potesse anche solo pensare di
girarsi e andarsene con aria trionfante, dalla linea tra roccia e terreno vide
ergersi un mucchietto di terra; terra che qualcosa
stava smuovendo dal basso.
No... non è possibile...
Orione
deglutì a vuoto e contemporaneamente il cumulò si sfaldò e fuoriuscì lui.
Lo
scorpione.
Era
vivo. Indenne. E infuriato.
«Ma non è possibile!» Orione gridò per la
frustrazione e la paura. Quel mostro, che di nuovo aveva preso a corrergli
incontro obbligandolo così a indietreggiare ancora, era più in forze che mai e
stava cominciando a spaventarlo seriamente.
Come ha fatto a sopravvivere? Gli ho
scaraventato un masso addosso e non si è fatto nulla! O miei Dei, perché questo
mostro non muore?
Orione
saltò tronchi e superò arbusti, allontanandosi dall'animale, e quella distanza,
per quanto minima, lo aiutò a recuperare il proprio sangue freddo. Doveva
cambiare tattica di nuovo e, improvvisamente orgoglioso come il talentuoso
cacciatore che era, sfilò una freccia dalla faretra e la incoccò.
Non mi avrai, maledetto.
Mirò
alla testa dello scorpione e colpì. Una scoccata precisissima, forse il colpo
migliore di tutta la sua vita. Ma la freccia, dopo aver urtato l’animale, deviò
il suo percorso con un suono metallico, schizzando in aria.
NO.
Le
guance di Orione sbiancarono di nuovo; tutto il sangue sembrò scivolargli via
dal corpo, lasciando le sue vene vuote e gelide. Aveva colpito quell’essere in
piena testa! Nessun altro colpo avrebbe potuto essere più preciso di quello!
Eppure quel mostro non presentava alcun danno e adirato con lui continuava a
corrergli incontro a chele alzate.
Hai
paura. Apollo si accarezzò il mento con la punta delle dita. Quello
spettacolo lo estasiava. Lo so che hai
paura… lo sento…
Orione
sfilò dalla faretra un’altra freccia, la scoccò, indietreggiò e ne scoccò
un’altra e un’altra e un’altra, e una tremenda pioggia di frecce si abbatté sul
minuscolo animale; una pioggia aguzza e metallica che, per quanto terribile a
vedersi, scivolò sul suo corpo nero e lucido come fosse semplice acqua.
«Escremento
di Gea! Feccia infernale! Ti decidi o no
a morire?!» Orione schivò l’ennesima frustata di coda dello scorpione, che
fece schioccare il pungiglione vicino alla sua caviglia, e arretrando a momenti
inciampò su una radice sporgente. Recuperò l’equilibrio, sfilò un’altra freccia
e la scoccò mirando alla testa dell’animale, ma questi accelerò improvvisamente
e il colpo andò a vuoto oltre la sua coda. Allora il gigante rovesciò di nuovo
la mano oltre il capo, in cerca di un’altra freccia, ma le sue dita si serrarono
sul nulla: le frecce erano terminate.
Orione
sentì il panico esplodergli in petto, nella testa, dappertutto e, sconvolto
dall’esistenza di quella bestia in grado di resistere a qualsiasi genere di
attacco, perse il controllo di sé.
«Perché non muori? PERCHÉ?!» Si chinò e
le sue dita presero a graffiare la terra alla ricerca di sassi da scagliare
contro lo scorpione. E al lancio delle pietre seguì quello dei rami, delle
pigne e di qualsiasi materiale solido gli capitasse sotto mano. Ma niente
riuscì a fermare lo scorpione, che di nuovo s'infilò tra i suoi piedi. Allora
Orione, al culmine dell'esasperazione, gli tirò un calcio. Voleva scaraventarlo
lontano, oltre l'orizzonte; così lontano da non correre il rischio di rivederlo
una seconda volta in tutta la vita.
Ma
quando lo calciò accadde qualcosa di terribile: lo scorpione si aggrappò al suo
piede.
«AAAAAH! NOOO!» Orione impazzì di terrore
e cominciò a scalciare l'aria come un forsennato, tentando di levarsi di dosso
l'animale. Si era impigliato alle fasce dei sandali, vedeva le sue orribili
zampe incastrate sotto, ed era così spaventoso! Così insopportabilmente vicino,
con quel suo pungiglione grosso e nero che da un momento all'altro gli avrebbe
perforato il piede! E non si staccava, non si staccava...
«Lasciami, maledetto! LASCIAMI!»
Finalmente,
all’apice dell’isteria, Orione riuscì a liberarsi e scaraventò lo scorpione
poco più avanti, ma nella foga perse l'equilibrio e cadde sulle natiche; un
tonfo imprevisto del quale l'animale approfittò subito, e in un batter d’occhio
il cacciatore se lo ritrovò tra le caviglie. Terrorizzato, arrancò all’indietro
smuovendo foglie e terriccio e infine riuscì a rialzarsi. Gettò contro
l’animale la faretra vuota, e sporco di terra e sudore freddo lo vide
riapparire.
Ce l'ha con me...
Orione
si portò una mano alla bocca. Aveva voglia di vomitare, piangere e gridare fino
allo svenimento. Alla fine era successo: aveva incrociato sul suo cammino una
bestia capace di sconfiggerlo. Ma la totale distruzione del suo orgoglio di
cacciatore era nulla in confronto al male che quella creatura gli avrebbe
presto arrecato.
Non si fermerà mai…
Orione
continuava ad arretrare e lo scorpione, instancabile e inattaccabile,
continuava ad avanzare.
È qui per punirmi e mi seguirà per
sempre, giorno e notte, fino ai confini del mondo conosciuto…
«Oh,
miei Dei…»
E quando crollerò esausto correrà
sulle mie povere membra e mi ucciderà, perforandomi il cuore con quell’orribile
pungiglione!
«NOOOO!!!» In preda al terrore più cieco,
Orione si voltò e fuggì, precipitandosi in direzione del mare. Corse, corse e
corse a perdifiato finché ad un certo punto, mentre sfrecciava tra gli alberi
come la più terrorizzata delle prede, gettò un’occhiata dietro di sé: lo
scorpione c’era ancora, lo vedeva correre minaccioso, ma era rimasto
indietro... molto più indietro. Eppure Orione non si fermò ma, anzi, accelerò,
impaziente di raggiungere la spiaggia.
«Scappa,
vigliacco. Scappa.» Apollo assisteva dal cielo alla fuga del gigante e il suo
volto era ora scuro, privo del minimo accenno di divertimento: il pensiero che
qualcuno capace di tanta codardia fosse riuscito a suscitare la simpatia di
Artemide lo disgustava profondamente. «Sei solo capace di…»
Dalla
terra salì un sospiro, che zittì il Dio e gli solleticò la chioma dorata.
(Acquietati, o figlio di Leto)
Apollo
sospirò pesantemente.
(E ammira… ammira lo svolgersi del
fato.)
Orione
rotolò fuori dal folto della foresta, si rialzò e corse velocissimo sulla
spiaggia deserta, puntando il mare. Apollo si sporse dal cocchio per osservare
meglio la scena e, sempre più perplesso, inclinò la testa da un lato.
Che intenzioni hai?
Il
gigante non si stava precipitando da Artemide, ormai era evidente. Se avesse
desiderato implorare il suo aiuto non avrebbe dovuto lasciare la foresta, ma
tagliarla in direzione sud perché la Dea e le sue ancelle erano ancora là,
nascoste tra gli alberi per il consueto bagno mattutino. Attraverso la luce del
suo sole Apollo riusciva a percepirle, sedute sotto la sponda di un fresco
ruscello, intente a lavarsi e pettinarsi a vicenda. Impossibile che si
accorgessero di ciò che stava accadendo al cacciatore: erano troppo distanti.
Troppo orgoglioso per frignare
davanti ad Artemide? Apollo
fece una smorfia. Non ci credo…
Orione,
ormai giunto sulla battigia, si voltò e vide lo scorpione uscire dalla foresta:
un puntino nero nella vastità della spiaggia. Rabbrividì e si tuffò in mare,
allontanandosi dalla costa a grandi bracciate.
Apollo
indurì lo sguardo. Povero sciocco. Cosa pensi di fare?
L’acqua
fredda intirizzì i muscoli del cacciatore; il panico e le onde gliela fecero
finire in gola e nel naso più volte, salata e bruciante. Eppure lui continuò a
nuotare, sempre più veloce, senza mai voltarsi. Non voleva neppure considerare
l’ipotesi che quell’essere mostruoso e immortale fosse capace di seguirlo in
mare: vederlo nuotare a pelo d’acqua lo avrebbe precipitato nell’angoscia più
folle e, se davvero desiderava sopravvivere, non poteva permettersi di sprecare
le poche, preziosissime energie che gli rimanevano in corpo. Perché Apollo, pur
non sapendolo, ci aveva visto giusto. Orione era troppo orgoglioso per
inginocchiarsi di fronte ad Artemide e supplicarla di salvarlo da quell'animale.
Non ce l’avrebbe mai fatta… non dopo averla fatta affezionare alla sua immagine
di sterminatore di fauna, di temibile
e talentuoso cacciatore da cui nessuna bestia né mostro poteva sperare di
salvarsi. Lo sguardo pietoso che lei gli avrebbe rivolto nel vederlo in lacrime
di fronte a un animale così piccolo lo avrebbe ucciso.
Ma
fortunatamente esisteva al mondo una Dea, di temperamento molto differente da
Artemide, che avrebbe potuto proteggerlo senza frantumare la sua virilità, ed
era proprio da lei, celeste creatura, che Orione stava nuotando.
«Eos…
dolce Eos…»
Il
gigante nuotava e tossiva, sforzandosi di procedere dritto e di non perdere
l’orientamento. Voleva raggiungere l’isola sacra di Delo, il luogo dove per la
prima volta aveva incontrato e amato la Dea dell’aurora. Non era sicuro che
l’avrebbe trovata là, ma doveva tentare, a costo di vagare per mare e terra per
tutta la vita, e una volta al suo cospetto, stremato e sporco come il disperato
che era, l’avrebbe baciata sulla bocca e l’avrebbe implorata di liberarlo dal
flagello che lo tormentava. Una richiesta che la tenera Eos avrebbe
immediatamente esaudito. Orione non aveva dubbi a riguardo.
(Niente e nessuno potrà salvarlo.)
Ogni
parola della Madre Terra, ogni sospiro che saliva a sfiorare l’orecchio di
Apollo era una lugubre promessa di morte.
(Il suo filo è teso)
(Le oscure filatrici stanno per
reciderlo)
(Lo sento)
Lo
sguardo impaziente di Apollo oscillava tra la testa di Orione, che spuntava dal
mare azzurro, e il suo piccolo inseguitore, ora fermo a riva con le chele abbassate.
Non pareva avere alcuna intenzione di inoltrarsi in acqua come se, malgrado
l’immortalità, il liquido regno di Poseidone continuasse a rappresentare un
mondo a lui ostile, e Apollo non poté fare a meno di domandarsi se la Madre
Terra non avesse sbagliato a considerare prossima la morte di Orione.
Il suo filo è teso… La voce della Madre Terra riecheggiò
nella testa del Dio, sempre più confuso e inquieto. Com’è possibile? Come potrà mai lo scorpione folgorare le sue carni se non
si decide a seguirlo in mare? Desidera forse aspettare il momento in cui Orione
poserà di nuovo piede sulla terra?
Il
Dio si tormentò ancora per qualche istante, pungolato dalla voglia di veder
morto il cacciatore, quand’ecco che il seme di un’idea sublime germogliò nella sua mente. I suoi occhi si accesero; la
bocca si schiuse per la dolce sorpresa, mentre la luce di quell’eccezionale
visione rischiarava ogni ombra, ogni dubbio, ogni traccia di malumore. Afferrò
le briglie e le tirò a sé, forte. I cavalli al traino del cocchio nitrirono e
si fermarono bruscamente, per poi scrollarsi e lanciare qua e là occhiate
stupite: erano abituati a rallentare la propria corsa in cielo, ma fermarsi del
tutto… no, quello non era contemplato. Eppure, per quanto sorpresi, si
calmarono subito: il loro auriga era tranquillo, percepivano il suo umore e il
suo respiro, e per placarsi non avevano bisogno di sentire altro.
O Madre, disse Apollo rivolgendosi a Gea, non fraintendere quanto sto per dirti. Più
di chiunque altro io confido nel tuo operato e nella tua grandezza, e mai
oserei dubitare delle tue capacità… ma il tuo scorpione… come…
(Questo
mio figlio camminerà sul corpo senza vita di Orione e ciò avverrà tra pochi
minuti.)
Pochi minuti?
(Sì.)
Apollo
guardò giù. Lo scorpione era ancora là, sulla riva, immobile come un soldato
svuotato d’ogni iniziativa; un guscio organico in attesa di ordini.
(Apollo?)
Il
Dio scrutò il vasto volto della Terra.
(Cosa desideri? Dimmelo.)
Apollo
si portò entrambe le mani al petto con solennità. Desidero occuparmi io di Orione. Perdonami, o Dea, se ti ho tediata e spinta a intervenire. Avrei dovuto
salvaguardare il tuo onore personalmente fin dal principio. Ma ora, col tuo
consenso, punirò il gigante come merita e lo farò con piacere.
La
Terra rispose immediatamente e con una punta di soddisfazione nella voce, come
se non aspettasse altro che udire quelle parole.
(Affrettati, o figlio di Zeus)
(Fa’ ciò che il destino t’impone)
(Questo è il tuo momento.)
Apollo
avvertì una scarica di acuta consapevolezza che gli fece accapponare la pelle:
Gea, grazie ai suoi antichi e smisurati poteri di divinità primordiale, sapeva
che era previsto un suo intervento atto a interrompere la fuga di Orione e
sapientemente aveva custodito il segreto fino ad allora, affinché tutto si
svolgesse secondo il volere del fato… e chissà quanta altra conoscenza stava silenziosamente
custodendo, stando ben attenta a dare il giusto peso alle proprie parole e a
non rivelare ciò che ancora non andava rivelato. Ma ad Apollo non importava
sapere di più: doveva solo lasciarsi trascinare dal destino e obbedirgli.
Scrutò
un’ultima volta la minuscola testa del cacciatore immerso in mare e infine
balzò giù dal carro.
Sulle
sponde del ruscello l’aria profumava di muschio e terra bagnata, un odore che
ad Artemide piaceva molto e che puntualmente le faceva venire voglia di
affondare le mani in quell’acqua fredda e borbottante, e sciacquare via dal
viso il sudore della caccia. Ma quel mattino la sua fronte era ancora asciutta,
il corpo fresco e pulito: la battuta di caccia doveva ancora cominciare e il
primo bagno della giornata, che più che un rito d’igiene personale era il modo
in cui la Dea e le sue ninfe si davano il buongiorno a vicenda, stava durando
più del solito. Eppure Artemide non aveva alcuna intenzione di affrettarsi e,
seduta su di un tronco caduto, osservava il gruppetto di cacciatrici intente a
schizzarsi l’un l’altra con fare giocoso, accucciate nel ruscello. Erano
completamente nude, con le chiome incollate ai seni umidi e le guance rosse per
il freddo. In quella zona della foresta il fiumiciattolo era in ombra e le sue
acque erano sempre gelate.
«Mia Signora?»
Artemide
indugiò un attimo sui corpi delle fanciulle, poi si schiarì la gola e guardò la
giovane ritta al suo fianco: una ninfa coi capelli rossi e il viso spruzzato di
lentiggini. Le sfiorò affettuosamente il braccio con la mano, mentre questa
tornava a passare le dita tra i suoi capelli ancora umidi per il bagno.
«Come
li desiderate oggi i capelli?» domandò la fanciulla.
«Intrecciali
finché non si asciugano» rispose Artemide. «Più tardi li tirerò su.»
La
ninfa cominciò a intrecciare la chioma, stringendo bene alla base in modo che
non sfuggissero ciocche, e Artemide tornò a contemplare le sue ancelle. Ora si
erano alzate e si stavano strizzando i capelli, segno che erano pronte a uscire
e vestirsi, e là, appena fuori dall’acqua, Sirio le osservava in silenzio.
Artemide lo guardò. Era accucciato con la testa poggiata sulle zampe anteriori
e sembrava molto malinconico. Si era rifatto vivo prima degli altri cani, che
ancora stavano girando allegramente tra gli alberi, e ora attendeva con
pazienza il ritorno del suo amato padrone. Artemide lo chiamò a sé con un
fischio. Lui si alzò e la raggiunse trotterellando.
«Sei
un bravo cane…» Lo grattò sotto il muso e dietro le orecchie, energicamente.
«Un bravissimo cane fedele…»
Sirio
scodinzolò felice e ad ogni carezza tentò di leccarle la mano. Artemide
sorrise.
«Ho
terminato, mia Signora.» L’ancella lasciò cadere la lunga treccia sul seno
della Dea e posò le mani sulle sue spalle, sistemandole meglio la tunica. «Vi
prendo la faretra?»
Artemide
annuì, continuando a coccolare il cane di Orione, e la ninfa si allontanò. Fu
allora che una voce maschile vibrò nell’aria.
«Sorella.»
Artemide
si girò di scatto e una soffice luce d’oro le irrorò il viso; una luce calda e
gradevole, che dal folto della foresta si espanse in tutta la piccola radura. E
preceduto dal suo bagliore, Apollo si fece largo tra gli alberi, mostrandosi a
lei e a tutte le ninfe.
«Ho
bisogno di parlarti» disse il Dio con tono grave.
Le
giovani ancora nude si coprirono frettolosamente con le mani e si accucciarono
in acqua. Le altre, già vestite, corsero subito da loro portando vesti e
mantelli. L’acqua del ruscello schioccò contro i loro stinchi; Sirio cominciò
ad abbaiare, turbato da tutta quelle femmine che correvano impazzite di qua e
di là, e infuriata come una leonessa Artemide si precipitò dal fratello e gli
schiaffò le mani sul petto. Forte.
«CHE TI SALTA IN MENTE?» gridò,
spingendolo all’indietro, e Apollo perse quasi l’equilibrio. La Dea sapeva
essere estremamente forzuta quando voleva. «Tu
non puoi stare qua! LO SAI!»
Il
Dio l’afferrò per i polsi. «Perdonami se ti ho disturbata durante l’ora del
bagno. So bene quanto tieni alla tua intimità e a quella delle tue ancelle, e
mai oserei spiare le vostre nudità...»
«Sì, come no!»
«Artemide.»
Apollo la guardò dritto nelle pupille; uno sguardo quasi drammatico, che
trasformò la rabbia della Dea in allarmata curiosità. «Ho saputo che un uomo,
uno schifosissimo uomo ha osato arrecarti offesa e per questo affronto merita
la morte.»
«Cosa?
Chi?»
«Non
c’è tempo per i dettagli. Il miserabile sta scappando, quindi prendi arco e
frecce e seguimi. Dobbiamo agire in fretta.» Detto questo, Apollo si voltò e
s’inoltrò tra gli alberi.
Artemide
agì immediatamente, senza riflettere. Recuperò arco e faretra, ordinò alle sue
ancelle di non muoversi dalla radura e corse dietro al fratello, scortata da
Sirio. Apollo ghignò, senza farsi vedere, quindi sfoggiò nuovamente la propria
espressione drammatica, e non appena la sorella e il segugio lo affiancarono
attraversò con loro la verde foresta. Fu una corsa breve e dritta, che in poco
tempo li condusse alla spiaggia sassosa, e una volta là Artemide prese a
lanciare dappertutto occhiate attente e sospettose. Non vedeva nessuno. La
spiaggia era completamente deserta, ad eccezione dei gabbiani che con gran
chiasso stavano gozzovigliando tra i resti del falò della sera prima, tra le
cui ceneri si celavano ancora brandelli di carne di cervo.
«Ma…
qui non c’è nessuno!» La Dea guardò malissimo il gemello. Stava cominciando ad
avere una strana sensazione. «Giuro che se questo è uno scherzo…»
«Vieni.»
Mostrandosi un po’ più calmo, Apollo la prese per mano e con lei s’incamminò
con passo sicuro e deciso verso il mare. Allora Artemide notò qualcosa di nero tra i sassi; qualcosa che non
avrebbe dovuto trovarsi là, ma che invece c’era, reale come le onde che con un
melodioso sciabordio si allungavano ad abbracciare le piccole pietre sulla
battigia.
Uno scorpione… Stranita, la Dea fissò l’animale,
lo raggiunse e infine lo oltrepassò con una grande falcata, mentre alle sue
spalle Sirio si avvicinava con cautela ad annusarlo. Era strano, molto strano
che uno scorpione come quello si spingesse fin sulla riva, ma delle misteriose
ragioni che, dagli ombrosi e sicuri boschi, l’avevano condotto fin sulla soglia
del regno di Poseidone per il momento ad Artemide importava meno di niente. Era
già tanto che in tutta quell’agitazione avesse notato il suo scuro e immobile
corpicino.
«Ecco.»
Apollo si fermò sulla battigia, là dove la schiuma delle onde s’infilava tra i ciottoli,
quindi alzò un braccio indicando dritto di fronte a sé. «Quello è il tuo
nemico, sorella. Lo vedi?»
Artemide
scrutò le acque e nel loro azzurro piatto e brillante scorse un puntino nero:
l’inconfondibile testa del nemico. «Sì, lo vedo…»
«Guarda
come s’affanna a nuotare, non prende neppure fiato…» Apollo parlò con tono
volutamente provocatorio. Voleva trasmettere alla sorella tutto l’astio che
provava per lui. «Sta tentando di fuggire da te.»
«Chi
è? Cosa ha fatto?» domandò Artemide, senza distogliere lo sguardo dalla testa
dello sconosciuto, mentre dietro di lei il segugio annusava con maniacale
attenzione un sasso dopo l’altro. «Voglio saperlo.»
«Il
suo nome è Candaone.»
Pronunciato
quel nome Apollo deglutì, trovandosi improvvisamente al culmine dell’ansia.
Sapeva che per uscire da quella brutta storia con la coscienza pulita doveva citare quel nome, Candaone, che
altro non era se non il nome con cui Orione era conosciuto nella lontana
Beozia, sua terra natia, come sapeva bene che quello era un dettaglio che
Artemide non poteva in alcun modo
conoscere. Ciononostante il nervosismo e la paura di vedere i propri piani
scoperti riuscirono ugualmente a farlo sudare. Ma quando notò che Artemide non
aveva battuto ciglio nell’udire quel nome, il Dio avvertì una fiammata di
meraviglioso ottimismo rinvigorirgli tutto il corpo. Allora proseguì con le
proprie menzogne.
«È
un uomo malvagio e lussurioso che ha molestato e infine stuprato Opide, una
delle tue sacerdotesse iperboree.»
Artemide
s’irrigidì tutta; i suoi occhi s'infiammarono di furore omicida. Quelle parole
l’avevano colpita a fondo. Apollo lo notò distintamente e ne gioì.
«Sorella.»
Il Dio posò la mano sul suo arco e lo sentì vibrare; scariche di rabbia
repressa a fatica. «Lascia che lo uccida io. Tu non ce la faresti mai da questa
distanza.»
«COSA?!» Artemide si voltò di scatto a
guardare Apollo, profondamente offesa, e in quel momento, come colto da
un’inaspettata rivelazione, Sirio scoppiò ad abbaiare, rivolto verso il mare;
un abbaio disperato che ad Apollo non piacque per nulla.
«Guarda,
anche il tuo segugio percepisce la crudeltà di quel mascalzone…» disse
sorridendo, poi tornò a rivolgersi alla sorella. «Su, non fare la sciocca.
Lascia fare a me.»
«SIRIO, SMETTILA!» Artemide sgridò il
cane, che come impazzito ora le abbaiava contro, ma non servì a nulla: questi
uggiolò un’ultima volta e infine si tuffò in mare, deciso a raggiungere il suo
padrone a nuoto. Artemide lo ignorò, guardò di nuovo Apollo negli occhi e sfilò
una freccia dalla faretra. «Credi sia troppo lontano per me?» domandò con voce
sibilante.
«Desidero
solo farti un favore» mentì Apollo, che in realtà stava volontariamente
soffiando sulla sua fiammeggiante furia. «Mi sembra che ti tremi la mano e…»
«No.
Tu mi stai sfidando.» La Dea incoccò la freccia. «So che mi stai sfidando. Ti
sei sempre reputato più abile di me nel tiro con l’arco.»
«Allora,
su! Avanti!» la esortò lui. «Dimostrami che sei sempre stata tu la più
talentuosa tra noi e ammazza quell’infame con un colpo solo!»
Così tutto tornerà come prima.
Mia casta e adorata sorella.
Artemide sollevò l’arco, tirò indietro la freccia e prese la
mira. Ce l’avrebbe fatta, lo sentiva. Avrebbe squarciato la testa di quell’uomo
perverso come fosse un frutto marcio, buono solo per giocare al tiro al
bersaglio, e lo avrebbe fatto al primo colpo lasciando Apollo senza parole.
Di’ addio alla luce, vile Candaone.
La Dea sentì la corda fremere tra le dita. Era pronta a
scoccare.
Ormai appartieni ad Ade.
Orione, troppo distante dalla riva per poter udire alcunché,
continuava ad affondare prima un braccio poi l’altro nell’acqua fredda del
mare, spingendosi in avanti. Doveva arrivare a Delo. Doveva salvarsi la vita e
per farlo era necessario che continuasse a nuotare, nuotare e ancora nuotare.
Se si fosse fermato, avrebbe perso sia tempo che determinazione: un errore che
non poteva permettersi di fare.
Ma, tutt’a un tratto, il mondo intorno a lui esplose,
tingendosi di nero.
Fu come una scossa. Una tremenda scossa.
E Orione non sentì più nulla.
«L’HO COLPITO!»
Artemide saltò per la gioia, alzando l’arco al cielo, quindi scaricò in faccia
ad Apollo tutta la propria euforia. «Hai visto, scettico d’un fratello? Ho
colpito quello stupratore dritto in testa! E
con un colpo solo!»
Il Dio la ignorò. Stava fissando il mare e il suo viso era
serio e solenne, come se qualcosa di ancor più importante di quell’esecuzione
fosse sul punto di travolgerli entrambi; un viso che ad Artemide non piacque
affatto. Allora la Dea tornò a guardare la propria vittima e finalmente vide
ciò che il fratello stava vedendo.
Trasalì, sgomenta.
Il mare si era increspato tutto di onde piccole e lisce; la
sua corrente era mutata e ora, dal largo, premeva con insistenza in direzione
opposta, spingendo verso riva il minuscolo puntino nero che galleggiava
goffamente, senza vita, e onda dopo onda si faceva più grande e nitido. Era
come se il mare non sopportasse l’idea di lasciarlo sprofondare e fosse
impaziente di restituirlo alla terra, affinché ricevesse una degna cerimonia
funebre.
Artemide abbassò l’arco e si approssimò al mare. L’acqua
delle onde le lambì le caviglie, fredda e schiumosa. Il cadavere era sempre più
vicino alla riva e la Dea, respiro dopo respiro, onda dopo onda, avvertiva una sgradevole
sensazione di familiarità propagarsi dal cuore fino alla pelle, simile a un
brivido di paura.
La sua mano si aprì da sola; l’arco cadde, schioccando
contro i sassi umidi.
Artemide avanzò di un altro passo.
Non sentiva più nulla, la realtà si era fatta fumosa come se
stesse camminando nel sonno, e tutto ciò che riusciva a percepire era quella
viscerale, insopportabile sensazione di incubo.
No…
Sirio, ormai arrivato al corpo, lo afferrò per il polso e
con gran fatica cominciò a trascinarlo verso riva, quando all’improvviso
un’onda li investì entrambi, spingendoli ancor più in avanti. E in quel marasma
bianco e schiumoso, il cadavere roteò su se stesso; la testa, con la freccia
ancora conficcata, si rovesciò all’indietro volgendo gli occhi vuoti al cielo.
Allora Artemide lo vide e la disperazione le esplose nelle
vene.
Orione.
Il suo amico Orione.
Era proprio lui.
Morto.
«NOOOO!»
Sconvolta, Artemide si gettò in mare e nuotò dal gigante. Apollo la seguì
severamente con lo sguardo, senza fiatare né muoversi, e ben presto la vide
aggrapparsi al cadavere. Furono le onde a spingerglielo tra le braccia, ad
affidarglielo quasi con affetto, e quando strinse a sé quel corpo freddo e
immobile Artemide avvertì una profonda sensazione di morte. La freccia conficcata
nel bel mezzo della testa; i capelli fradici di sangue; gli occhi sbarrati e
lucidi di acqua di mare… Orione, il suo amico Orione, ormai era carne morta.
Ma, spinta dalla disperazione, la Dea si aggrappò ferocemente alla speranza
(non è morto, è solo
ferito, non è morto, non è morto)
e, giunta a riva,
trascinò il corpo fuori dall’acqua. Sirio le fu subito dietro, si scrollò il
pelo e, a orecchie basse, cominciò a prendere a musate la mano del padrone.
Artemide non se ne accorse neppure, come non si accorse dello scorpione che,
avvicinatosi di soppiatto, cominciò ad arrampicarsi su una gamba del gigante.
Presto… presto…
Afferrò alla base la freccia conficcata nella testa del
cacciatore e un fiotto di sangue caldo le bagnò le dita. Aprì la mano e la guardò
con occhi tremanti. Non poteva estrarre la freccia. Il cranio era fratturato,
la freccia era penetrata in profondità nel cervello e c’era troppo sangue…
troppo, troppo sangue.
Apollo le si avvicinò a passo lento e l’abbracciò con la sua
luce d’oro; un bagliore che accese crudelmente la rossa devastazione sul volto
di Orione, ponendo in risalto ogni ciocca di capelli incrostata di sangue, ogni
capillare nei suoi occhi morti.
Artemide posò l'orecchio sul petto del gigante. Nessun
battito, nessun fremito. Carne morta.
No, no, no…
Incapace di rassegnarsi, si tirò su e diede una vigorosa
scrollata al corpo, facendone dondolare la testa sui sassi. «Orione!» Le
lacrime le colmarono gli occhi. «Non puoi morire! Ti prego! ORIONE!»
«Se n’è andato.» Apollo parlò con voce glaciale, priva di
qualsiasi traccia di empatia: non vedeva l’ora che la sorella la smettesse di
piangere e si dimenticasse di quell’insignificante gigante una volta per tutte.
«Le lacrime non lo riporteranno di certo in vita.»
Artemide ebbe come un sussulto. Le sue labbra si serrarono;
la mano salì ad asciugare le gote, strisciandole accidentalmente del sangue di
Orione. Si voltò, rivolgendo ad Apollo un’occhiata truce. «Sei stato tu…»
Il bel Dio si portò una mano al petto. «Cosa…?»
«Tu!» Artemide si alzò
e, improvvisamente furiosa, diede uno spintone al fratello. «Ti sei inventato
tutto! Stronzo maledetto! Bugiardo senza cuore!»
«Bugiardo?» Apollo fece un passo indietro, tentando di
sfuggire all’ira della Dea, ma lei continuò a pressarlo. «Non ti ho detto
alcuna menzogna.»
«Candaone!» La Dea
indicò il corpo senza vita steso sui sassi. «Non esiste alcun Candaone! Questo
è Orione! E tu, schifoso bugiardo, me lo hai fatto ammazzare!»
«Candaone è il nome con cui Orione è conosciuto in Beozia.
Le mie parole sono state chiare. Sei tu che-»
Artemide tirò un pugno al fratello; un colpo duro, dritto
sul naso. Apollo barcollò all’indietro e per qualche istante non vide altro che
uno sciame di puntini brulicanti.
«Spero di avertelo
rotto!» gridò lei, poi si girò e tornò a inginocchiarsi accanto a Orione.
Apollo sentì qualcosa di umido e caldo scivolargli da una
narice. Si asciugò con dita distratte, senza neppure il bisogno di guardare:
sapeva che era sangue. Probabilmente Artemide gli aveva fracassato il naso, trasformandolo
in un bozzo deforme, ma il Dio non se ne curò. Era sconvolto. Paralizzato da un
intenso dolore interiore, ancor più potente del dolore che gli pulsava nel
naso.
Artemide non si era mai infuriata così tanto con lui.
MAI, in tutta la vita.
Artemide...
Apollo si asciugò di nuovo sotto le narici e stavolta trovò
meno umido, le dita si bagnarono appena: l'emorragia si era già arrestata. Si
sfiorò frettolosamente il setto, scoprendolo dritto come sempre, mentre la voce
lacrimosa e implorante di Artemide gli s'infilava nelle orecchie.
«Tu che puoi, ti prego! Accogli la mia supplica, o Dio
benevolo! Non lasciarmi nel mio dolore!»
Confuso, Apollo si domandò chi mai fosse il Dio benevolo che
la sorella stava invocando, quand’ecco che le sue candide labbra ne
pronunciarono il nome.
«Ti prego, Asclepio!»
Apollo sussultò.
No. Questo no.
In preda all’agitazione il biondo Dio si fece avanti, e nel
medesimo istante una figura comparsa alle sue spalle chissà quando lo sorpassò.
Era Asclepio, suo figlio.
Signore della medicina.
«Asclepio!»
Artemide gridò di gioia. «Oh, ti ringrazio!»
Apollo guardò il figlio a bocca aperta; pochi istanti di
vivo stupore e il suo viso si fece glaciale. Asclepio, che non poteva
sopportare di dare le spalle a suo padre, si voltò e gli sorrise educatamente;
un sorriso che traballò fino a sparire, sopraffatto dallo smarrimento. Suo
padre era scosso, sudato, privo della sua ordinaria pace interiore, e
soprattutto non era affatto contento di vederlo. Anzi. Dal modo gelido e sgradevole
in cui lo stava fissando avrebbe giurato che lo stesse silenziosamente odiando.
(Vattene)
(Non fare lo stupido)
Asclepio indugiò sul viso del padre, senza riuscire a capire
cosa gli passasse per la mente, poi si avvicinò ad Artemide. «Ho udito la tua
preghiera, Dea cacciatrice…» Il semidio allargò le braccia in segno di
riverenza. Stringeva nella mano destra un lungo bastone attorno al quale era
avvinghiato un serpente, che strisciava sul legno grezzo seguendo la linea di
un'eterna spirale. «Sono qui per servirti.»
Artemide prese la mano del gigante, la strinse tra le sue e
guardò Asclepio con occhi luccicanti di lacrime. «Orione, il mio amico, ha
avuto un incidente...»
Asclepio fissò la freccia conficcata nella testa del
giovane, quindi il suo sguardo si spostò sullo scorpione che, indisturbato,
stava gironzolando sul suo torace. Alzò il bastone e indicò l'animale con la
punta inferiore della verga. «E' stata la freccia a ucciderlo o il veleno di
questa bestia?»
Artemide scacciò bruscamente lo scorpione, allontanandolo
dal corpo. «L'ho colpito per errore... io c-credevo che...» La Dea non riuscì a
terminare la frase: il dolore e i sensi di colpa erano troppo pungenti. «Oh, ti
supplico, Asclepio! Tu che conosci le arti curative e i segreti della
negromanzia, restituisci la vita a Orione!»
Apollo si avvicinò ai due a braccia incrociate, mentre sopra
la terra il cielo cominciava a rannuvolarsi. «Sorella mia, tu non ragioni
più...»
«STA' ZITTO!»
ruggì lei, disperata, quindi tornò a rivolgersi ad Asclepio. «So che puoi farlo
e so che il tuo animo è misericordioso, perciò ti prego, esaudisci il mio
desiderio. Riporta in vita Orione.»
Nero in volto, Apollo cercò lo sguardo del figlio, certo che
da un momento all'altro questi si sarebbe girato a cercare la sua approvazione,
ma quando lo vide sorridere ad Artemide capì che aveva già preso la sua
decisione. Allora lo odiò ferocemente, come mai aveva odiato nessuno dei suoi
figli, e senza neppure comunicarglielo lo ripudiò.
Sei un maledetto idiota.
Tu per me non esisti più.
Maledetto.
«Non devi supplicarmi.» Asclepio tese gentilmente la mano ad
Artemide, che la strinse e si alzò in piedi. «Riporterò in vita il tuo amico,
se è questo ciò che desideri. Ma non supplicarmi, o figlia di Zeus. Mi metti in
imbarazzo.»
Artemide tirò su col naso. «Ti ringrazio...»
Asclepio annuì, quindi la invitò ad indietreggiare di
qualche passo e a portare con sé il cane, che incapace di rassegnarsi stava
ancora strofinando il muso sulle dita del padrone. Artemide lo prese dolcemente
per la collottola e indietreggiò, lasciando al Signore dei guaritori lo spazio
necessario per esercitare la propria arte.
Conto su di te. Non deludermi...
Asclepio s'inginocchiò per studiare da vicino le condizioni
del cadavere, quindi posò il bastone, afferrò la freccia e la estrasse
completamente, mentre sopra la spiaggia le nubi cominciavano a tuonare, scure e
minacciose. Il tempo era mutato in pochi minuti e ora il cielo prometteva
pioggia, ma nessuno dei tre sembrò curarsene: il temporale era l'ultimo dei loro
pensieri. Asclepio strofinò tra loro le mani sporche del sangue del morto, poi
le posò entrambe sul suo petto, pelle contro pelle. Apollo lo vide chiudere gli
occhi, in cerca della necessaria concentrazione per strappare
quell'insignificante anima al controllo di Ade, e disgustato dal suo
comportamento scosse la testa, macinando fra sé e sé pensieri velenosi. E
adirato com'era non si chiese per quale ragione suo padre Zeus stesse
addensando le nubi proprio sopra la spiaggia, né lo sfiorò il dubbio che il potente
sovrano potesse essere in collera con uno di loro... men che meno con Asclepio.
Eppure Zeus lo era.
Detestava e temeva i poteri rigeneratori del Protettore dei
medici più di chiunque altro, poiché essi rischiavano di assottigliare il
confine tra vita e morte, rendendo ogni defunto potenzialmente immortale, e ciò
metteva in discussione la supremazia stessa degli Dei dell'Olimpo sugli uomini.
E lui, tutore dell'ordine naturale, non poteva permettere che un simile
scenario si verificasse. Sarebbe stato il caos.
Per questo Asclepio andava fermato.
Definitivamente.
E, nell'istante esatto in cui l'energia rigeneratrice
cominciò a fluire dal corpo del semidio per dare nuova vita alla carne morta di
Orione, una folgore precipitò dalle nubi e lo colpì in pieno, con uno
spaventoso boato. Fu una specie di frustata elettrica, accecante e violenta.
Apollo e Artemide si protessero il viso, travolti da quella scarica prorompente
di energia, e quando si ripresero Asclepio giaceva morto a terra, accanto a
Orione. La pelle ustionata; i capelli arsi dalle fiamme; la tunica annerita...
e quel terribile, terribile odore nell'aria, di carne bruciata e sangue
bollente.
«NOOOO!!!» Apollo si precipitò dal figlio e lo
prese tra le braccia. Artemide lo raggiunse e s'inginocchiò accanto a lui,
sconvolta. Asclepio era irriconoscibile: la folgore lo aveva completamente
devastato trasformandolo in un mostro dalla pelle rossa e bruciacchiata.
Ciononostante il Dio del sole lo strinse forte a sé, come fosse il più bello
dei figli, e in lacrime guardò la sorella. «È m-morto...»
Artemide nascose il viso sul torace di Orione ed esplose in
un pianto senza freni. Con la morte di Asclepio moriva anche la speranza di
strappare il cacciatore al regno delle ombre, e per lei ciò significava una sola
cosa: rassegnarsi di fronte all'inevitabile. E, nel vedere la Dea così
affranta, Sirio capì che il suo padrone non si sarebbe più svegliato e,
uggiolando, si sdraiò accanto a lui.
«Perché, Padre? Perché
me lo hai ammazzato?!» Apollo gridava e piangeva, abbracciato al figlio
morto, mentre la verità, l'unica verità gli si rivelava in tutta la sua
crudezza. Asclepio, il suo povero Asclepio, era sempre stato misericordioso e
gentile con tutti. Un'anima buona, che anche quel giorno aveva pensato unicamente
a mettere le proprie straordinarie conoscenze al servizio degli altri. E lui,
crudele ed egoista figlio di Zeus, a cosa aveva pensato mentre il sangue del
suo sangue si prodigava a fare del bene? A ripudiarlo. A schifarlo. A
maledirlo. A fare il possibile per non incrociarlo mai più sul proprio cammino,
neanche fosse il peggiore dei lebbrosi, e tutto perché la sua bontà lo aveva
accidentalmente intralciato. E ora, stringendo tra le braccia il suo cadavere
rovente, Apollo si odiava e ribolliva di rabbia. «PADREEEE! Giuro che questa me la paghi!»
Artemide si girò a guardare il fratello e lo trovò col viso
inondato di lacrime e il dito puntato contro il cielo.
«Hai capito?! QUESTA
ME LA PAGHI! LO GIURO!» Il Dio aveva gli occhi rossi per l'ira ed era così
fuori di sé, così pazzo di dolore da non rendersi conto di stare minacciando il
suo potentissimo padre. Ma il cielo, invece di tuonare, cominciò ad aprirsi; le
nubi si diradarono fino a sciogliersi, lasciando il posto all'azzurro del
firmamento. Zeus, in un impeto d'inaspettata maturità, decise che il figlio
aveva il diritto di sfogarsi e lo lasciò fare.
«Asclepio... no... no...» Apollo posò la guancia umida sul
capo ruvido e ormai senza capelli del figlio. Puzzava terribilmente di carne
bruciata, ma al Dio non importava.
E nel vederlo così, debole e distrutto dalla sofferenza,
Artemide capì che non avrebbe potuto portargli rancore per molto. Il suo piano
meschino gli si era rivoltato contro proprio sul finale, e la perdita di
Asclepio era un castigo sufficientemente duro per ciò che aveva osato farle. Ma
per lei era ancora presto per parlare di perdono.
Ora doveva dedicarsi a Orione.
«Padre mio, ti supplico...» disse alzando le mani al cielo,
mentre le lacrime continuavano a scorrerle sulle guance rosse di pianto.
«Accetta il povero corpo di Orione tra le stelle eterne del firmamento, in modo
che io possa ammirare la sua splendente figura e ricordarne l'ardore! Non
negarmi quest'unica gioia, Padre adorato, o il mio dolore non avrà mai fine!»
Commosso dalle lacrime della figlia, Zeus accolse la sua
richiesta e tramutò il cadavere del cacciatore in luce, quindi ne fissò la
sagoma tra le stelle: una figura possente e valorosa con la clava in una mano e
lo scudo nell'altra, intenta a sfidare la costellazione del Toro. Artemide, col
viso rivolto al cielo ancora troppo azzurro per dare sfoggio della nuova
costellazione, si asciugò entrambe le guance con le mani, ancora sporche del
sangue di Orione, e improvvisamente un guaito straziato le colpì l'orecchio.
Si voltò e vide Sirio.
Era accucciato a terra con le orecchie basse e la
depressione nera negli occhi, come se avesse ricevuto centinaia di bastonate.
La morte del padrone e la sua ascesa nei campi fioriti di stelle gli avevano
spezzato il cuore, privandolo della voglia di vivere. Artemide s'impietosì e,
senza pensarci su due volte, decise di unire i due chiedendo al padre di
accettare anche Sirio tra le costellazioni. Zeus la accontentò di nuovo e
Artemide fece appena in tempo ad accarezzare il muso del segugio che questi
chiuse gli occhi e nacque in cielo, sotto forma di stella; una stella
luminosissima, che per tutta l'eternità avrebbe brillato vicino al suo amato
padrone inseguendolo con la cieca devozione di sempre. Ma Zeus fece più di
quanto gli venne chiesto e, per imprimere nella memoria di mortali e immortali
la sciagurata storia del cacciatore venuto dalla Beozia, accolse in cielo anche
lo scorpione inviato da Gea, fissando la sua figura all'estremità opposta del
firmamento. Non fu una scelta casuale: al tramontar del sole la costellazione
di Orione avrebbe cominciato a calare, mentre quella dello scorpione,
dall'altra parte del cielo, avrebbe cominciato a sorgere. Così i due, inseguito
e inseguitore, non si sarebbero mai incontrati, pur condividendo l'infinito regno
blu delle stelle, ma la loro storia sarebbe stata raccontata in eterno.
È finita.
Artemide sospirò, poi si girò e guardò Apollo. Era ancora
seduto accanto a lei, col corpo morto di suo figlio tra le braccia. Piangeva
silenziosamente, con gli occhi chiusi e le labbra tremanti: si stava calmando,
ma la sua sofferenza era ancora intensa. Artemide gli posò una mano sulla
spalla, sentendo di doverlo fare e di non poter resistere a quell'impulso. Si
guardarono negli occhi; pochi istanti di parole non dette, poi Apollo abbassò
lo sguardo e Artemide ritirò la mano, tornando a guardare con malinconia il
cielo azzurro dove, quella stessa notte e per tutte le notti a seguire, avrebbe
potuto rivedere Orione.
Io AMO questi racconti. Sempre così, Giulia!
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