mercoledì 29 novembre 2017

ORIONE - PARTE II








Malgrado avesse bevuto più vino di tutti, quella mattina Orione fu il primo ad aprire gli occhi. Fu la sete a svegliarlo: la sua gola era arida, le labbra secche e screpolate. Si alzò in piedi, barcollante, e una fitta di dolore gli stritolò la testa; un maledetto cordino invisibile stretto sulle sue tempie. Si massaggiò la fronte, indietreggiando di un passo, e per poco non calpestò il braccio di una delle ancelle. Allora si fermò e, col cervello improvvisamente attivo e il cuore che pulsava forte come l’emicrania, si guardò intorno. Cosce, piedi, pellicce, capelli biondi e bruni mescolati assieme… Le seguaci della Dea si erano addormentate tutte intorno al fuoco formando un caotico e sensuale groviglio di femmine; un’equilibrata mescolanza di tuniche bianche e rosea pelle da cui non spiccava neppure un seno nudo. Anche durante il sonno notturno, quelle vergini non dimenticavano mai di stare riposando accanto a un maschio, e da quando Orione faceva parte del loro gruppo si erano abituate a muoversi di conseguenza, stringendo al corpo la stoffa della veste in modo che nulla potesse scivolare fuori; e mai era capitato che, in sua presenza, qualcosa scivolasse fuori… neppure durante le battute di caccia, con i rami degli arbusti che spesso s’impigliavano alle loro belle tuniche, strappandone gli orli, e Orione ormai aveva concluso che sarebbe stato più probabile vedere il cielo e il mare scambiarsi di posto, piuttosto che riuscire a scorgere le nudità di quelle caste e bellissime ninfe.
Ma quella mattina, col cervello che gli premeva insistentemente contro il cranio, il gigante non si fece venire pensieri caldi. Ignorò quei corpi tutti uguali e con lo sguardo andò istintivamente da Artemide. Anche lei stava ancora dormendo, con la testa poggiata sulla coscia di una delle serve, e se non fosse stato per il suo bagliore divino e per la tunica verde che la faceva spiccare in mezzo alle altre, tutte bianche, si sarebbe mimetizzata in quel groviglio alla perfezione. Orione la osservò, aspettandosi di vederla aprire gli occhi da un momento all’altro, e quando capì che il suo sonno era ancora pesante raccolse arco e faretra, se li sistemò in spalla e oltrepassò i corpi delle fanciulle assopite, stando attento a non calpestarle. E, non appena ebbe abbandonato quel giaciglio improvvisato, si guardò di nuovo intorno, stavolta alla ricerca di Sirio, ma la spiaggia si presentò a lui piatta e silente: del cane e di tutti gli altri segugi non vi era alcuna traccia.
Orione si grattò la testa e, appena dopo qualche secondo, si ricordò ciò che già sapeva: la mattina presto i cani erano soliti gironzolare in branco nella foresta, per godersi un po’ di libertà prima che Artemide li richiamasse a sé dando il via alla caccia; un’abitudine che Sirio aveva subito fatto sua. Allora Orione si rasserenò e s’inoltrò nella boscaglia, mentre ritto sul suo carro dorato Apollo lo fissava in silenzio.
  Sapeva dove stava andando.
Ogni mattina il gigante e Artemide si separavano per andare a fare il bagno, a notevole distanza l’uno dall’altra, e quel giorno non sarebbe stato diverso nonostante lui si fosse destato per primo. E, quando lo vide avvicinarsi a un ruscello cristallino, Apollo sorrise fra sé e sé, compiaciuto: tutta quella prevedibilità giocava a suo favore. 
Orione affondò entrambe le mani nell’acqua e bevve avidamente; sorsi grandi, a guance piene, che gli rinfrescarono la gola e sciolsero buona parte del suo malessere. Poi si spogliò, gettò a terra tunica e armi, e si lavò nel ruscello. Apollo gli concesse quest’ultimo piacere… pochi minuti che trascorsero in fretta. E quando il gigante cominciò a rivestirsi, il Dio dai capelli biondi lasciò andare le redini. L’espressione seria e solenne; le braccia distese lungo i fianchi; i palmi delle mani rivolti all’immenso mondo sottostante... quel mondo che dipendeva dal suo sole come un neonato dipende dalla madre. E attraverso quella luce, che dorata si stendeva dappertutto donando vita e calore, Apollo si rivolse a Gea, la potente Madre Terra.
O grande Dea progenitrice! O sposa di Urano, donatrice di frutti, madre degli Dei! Chi ti parla è Apollo, lo Scrutatore dei cieli, Portatore di luce, Signore dell’eterno sole! Ascolta la sua voce, o Dea misericordiosa, poiché egli ha un messaggio molto importante da comunicarti!
La terra ebbe come un palpito: una specie di lungo sospiro. I fili d’erba sfrigolarono nell’aria del mattino, attraversati da scariche di energia pura; le foglie sugli alberi ruotarono morbidamente verso il cielo, in modo da catturare più luce possibile, mentre il ruvido terreno respirava piano, senza emettere alcun suono. La Dea era in ascolto. Apollo la sentiva e, pur non vedendola distintamente, la vedeva sulla superficie del mondo come se esso avesse improvvisamente aperto gli occhi.
Sorrise, fiero di quella connessione esclusiva.
O Madre, da giorni un odioso cacciatore si aggira tra i tuoi verdi e odorosi boschi con passo tracotante, sfidando la tua autorità. Riesci a vederlo? S’è dissetato e lavato nelle tue acque e ora si sta vestendo all’ombra delle tue frasche.
Una foglia si staccò da un ramo e cadde tra i capelli di Orione. Lui se la scrollò di dosso e continuò a vestirsi.
Sì, confermò Apollo. Orione è il suo nome e infinita è la sua arroganza. Egli si vanta di poter sterminare qualsiasi bestia gli si pari di fronte, anche il cinghiale più temibile e l’orso più minaccioso! Ed essendo convinto che nessuno dei tuoi animali possa terrorizzarlo né sopravvivergli, egli si proclama superiore a te, grande Dea, e un simile atteggiamento deve essere punito.
Orione raccolse la cintura di cuoio da terra, fece per stringerla sui fianchi e… si fermò. Si guardò intorno e tese l’orecchio nell’intento di cogliere rumori sospetti: aveva l’impressione che qualcuno lo stesse osservando. Girò su se stesso, lentamente, e non trovando null’altro che verdissima selva si rilassò, strinse la cintura intorno alla vita e cominciò ad allacciarsi i sandali.
Difendi il tuo onore, mia Dea. Difendi la tua autorità. Apollo serrò i pugni, mentre il fuoco della vendetta gli faceva brillare gli occhi. Fa’ che Orione fronteggi una creatura da lui mai veduta prima, in grado di terrorizzarlo e infine sconfiggerlo cosicché, in punto di morte, egli possa capire quanto tu sia potente e quanto egli sia misero. Ma non attendere, Madre Terra! Non te lo consiglio! Il cacciatore ha plagiato la mente e il cuore della mia casta sorella Artemide ed ella, povera innamorata, non esiterebbe ad accorrere in suo aiuto. Perciò fa’ ciò che devi fare e uccidilo ora che è solo.
La verde Dea rispose con un altro lungo sospiro che dagli alberi, dai fiumi, dalle rocce e dalle pianure salì fino ad Apollo, come un segreto da confidare a lui solamente; la voce sensuale di un’entità generosa e temibile, splendida e terrificante, che solo l’orecchio di un Dio poteva tollerare e che, intorno al fiero corpo di Apollo, si espanse come un buonissimo profumo.
(Lo farò.)
Apollo sorrise e i suoi occhi verdi scintillarono di gioia e malignità. 
(Punirò Orione per la sua arroganza. E lo farò immediatamente.)
Il Dio inviò con la mano un bacio alla Madre Terra e rimase in attesa, impaziente di godersi la scena. E, proprio come aveva promesso la verde Dea, lo spettacolo cominciò all’istante.
Sotto la suola del piede destro, mentre era ancora inginocchiato a stringersi i sandali, Orione avvertì il terreno muoversi: una specie di fremito, come se nella terra si fosse aperta una piccola feritoia e qualcosa stesse premendo per uscire, lottando contro la sua suola. Qualcosa di duro. Il cacciatore ebbe un tuffo al cuore. Balzò all’indietro, teso come un gatto colto di sorpresa, e i suoi occhi si sgranarono così tanto da fargli male.
Era vero.
Nella terra bruna si era aperta una fessura e da essa, arrancando a fatica come se il suolo lo stesse partorendo, stava fuoriuscendo un animale.
Che cosa…?!
Orione sentì la pelle delle braccia accapponarsi. Non aveva mai visto una creatura del genere e, tra la fascinazione e il disgusto, la osservò a bocca aperta, mentre questa usciva completamente dalla feritoia mostrandosi alla luce del sole. Non si trattava di un animale enorme, bensì di un essere piccolo, lungo meno di una spanna, col corpo nero e lucido e due robuste chele simili a quelle dei granchi. Il dorso era coperto di piastre scure, come se la natura l’avesse dotato di una corazza per proteggersi dai nemici, e tutt’intorno ad esso quattro paia di zampe si flettevano con ipnotica sinuosità, senza smuovere neppure un granello di terra. E quell’addome oblungo e corazzato, così spesso a vedersi che pareva quasi nera pietra, si arricciava sul fondo fino a creare una strana coda con un grosso bulbo appuntito sull’estremità: il pungiglione più spaventoso che Orione avesse mai visto. 
«Uno scorpione…» Apollo si accarezzò il mento con aria soddisfatta. A differenza del gigante conosceva molto bene quel figlio della Terra e le sue letali potenzialità. «Ottima scelta, mia Dea. Davvero un’ottima scelta.»
Lo scorpione puntò Orione e gli corse incontro velocissimo; uno scatto improvviso e minaccioso, che strappò il cacciatore dal suo stato di alienazione e lo precipitò nel panico. Quell’essere era minuscolo, ma per qualche ragione gli trasmetteva un viscerale senso di pericolo e disgusto.
«Schifosa bestiaccia! Non t’avvicinare!» Con uno strattone, Orione staccò dalla cintura il suo coltello da caccia. «Tornatene negli inferi!» ruggì pugnalando brutalmente lo scorpione sul dorso; un colpo netto e preciso, di punta. Ma la lama, come se avesse urtato un sasso impossibile da spaccare, scivolò in obliquo sul corpo dell’animale, conficcandosi nel terreno.
Orione sbiancò, incredulo, e al contempo Apollo sorrise, piacevolmente stupito.
«Oh! Uno scorpione immortale. Interessante.»
Voglio proprio vedere come te la cavi ora, grande cacciatore.
Orione tentò di estrarre il coltello dalla terra, ma lo scorpione, ormai troppo vicino, lo attaccò. La sua coda schioccò come una frusta e il gigante ritrasse il braccio appena in tempo, poco prima che il pungiglione gli colpisse la mano.
«Merda!» Col cuore a mille, Orione scattò all’indietro e con un calcio scaricò addosso all’animale foglie secche e terriccio, spingendolo ad allontanarsi dal coltello. Quindi, approfittando di quella distanza di sicurezza, afferrò l’arma, la estrasse dalla terra e si scagliò di nuovo contro la creatura. «Maledetto mostro! Prendi! Prendi! PRENDI!»
Una raffica di colpi di lama, rapidissimi e aggressivi, si abbatté sul dorso dello scorpione; affondi decisi, forzuti e… tremendamente tintinnanti. Il bronzo del coltello sbatteva e sbatteva contro quel piccolo corpo corazzato, senza però riuscire a scalfirlo, e ad ogni colpo Orione sentiva la lama sul punto di scivolargli via dal pugno, come se ci fosse qualcosa di molto sbagliato in ciò che stava tentando di fare.
«Non ti piace il coltello? D'accordo!»
Mollato l'ultimo colpo, Orione lasciò che il pugnale si conficcasse nel terreno fino all'elsa. Insistere col coltello era inutile: doveva cambiare tattica. Indietreggiò velocemente in modo da guadagnare distanza rispetto allo scorpione, che imperterrito continuava a pressarlo, e si guardò intorno passando in rassegna il sottobosco, finché trovò ciò che stava cercando.
Un grosso, pesantissimo masso.
Lo afferrò con tutte e due le mani, gonfiò i bicipiti e lo sollevò dal terreno. Quindi lo alzò sopra la testa e si girò verso l'animale. .
Vieni qui, bestiaccia... avanti... vediamo se questo ti piace...
Lo scorpione si precipitò da lui, veloce, sempre più veloce. E, non appena fu alla giusta distanza, Orione gli scaraventò addosso il masso.
«PRENDI QUESTO, STRONZO!»
La roccia urtò la terra con un gran botto, sollevando sbuffi di terriccio e foglie secche. E, immediatamente dopo quel tuono tremendo, un silenzio tombale si distese tra gli alberi.
Orione si asciugò il sudore dalla fronte e sorrise. Con quell'attacco aveva colto di sorpresa lo scorpione, ne era sicuro, e ora con gli occhi della mente lo vedeva spiaccicato tra il voluminoso masso e la terra; una schifosissima poltiglia nerastra, senza alcuna forma. Ma, prima che potesse anche solo pensare di girarsi e andarsene con aria trionfante, dalla linea tra roccia e terreno vide ergersi un mucchietto di terra; terra che qualcosa stava smuovendo dal basso.
No... non è possibile...
Orione deglutì a vuoto e contemporaneamente il cumulò si sfaldò e fuoriuscì lui.
Lo scorpione.
Era vivo. Indenne. E infuriato.
«Ma non è possibile!» Orione gridò per la frustrazione e la paura. Quel mostro, che di nuovo aveva preso a corrergli incontro obbligandolo così a indietreggiare ancora, era più in forze che mai e stava cominciando a spaventarlo seriamente.
Come ha fatto a sopravvivere? Gli ho scaraventato un masso addosso e non si è fatto nulla! O miei Dei, perché questo mostro non muore?
Orione saltò tronchi e superò arbusti, allontanandosi dall'animale, e quella distanza, per quanto minima, lo aiutò a recuperare il proprio sangue freddo. Doveva cambiare tattica di nuovo e, improvvisamente orgoglioso come il talentuoso cacciatore che era, sfilò una freccia dalla faretra e la incoccò.
Non mi avrai, maledetto.
Mirò alla testa dello scorpione e colpì. Una scoccata precisissima, forse il colpo migliore di tutta la sua vita. Ma la freccia, dopo aver urtato l’animale, deviò il suo percorso con un suono metallico, schizzando in aria.
NO.
Le guance di Orione sbiancarono di nuovo; tutto il sangue sembrò scivolargli via dal corpo, lasciando le sue vene vuote e gelide. Aveva colpito quell’essere in piena testa! Nessun altro colpo avrebbe potuto essere più preciso di quello! Eppure quel mostro non presentava alcun danno e adirato con lui continuava a corrergli incontro a chele alzate.
 Hai paura. Apollo si accarezzò il mento con la punta delle dita. Quello spettacolo lo estasiava. Lo so che hai paura… lo sento…
Orione sfilò dalla faretra un’altra freccia, la scoccò, indietreggiò e ne scoccò un’altra e un’altra e un’altra, e una tremenda pioggia di frecce si abbatté sul minuscolo animale; una pioggia aguzza e metallica che, per quanto terribile a vedersi, scivolò sul suo corpo nero e lucido come fosse semplice acqua.
«Escremento di Gea! Feccia infernale! Ti decidi o no a morire?!» Orione schivò l’ennesima frustata di coda dello scorpione, che fece schioccare il pungiglione vicino alla sua caviglia, e arretrando a momenti inciampò su una radice sporgente. Recuperò l’equilibrio, sfilò un’altra freccia e la scoccò mirando alla testa dell’animale, ma questi accelerò improvvisamente e il colpo andò a vuoto oltre la sua coda. Allora il gigante rovesciò di nuovo la mano oltre il capo, in cerca di un’altra freccia, ma le sue dita si serrarono sul nulla: le frecce erano terminate.
Orione sentì il panico esplodergli in petto, nella testa, dappertutto e, sconvolto dall’esistenza di quella bestia in grado di resistere a qualsiasi genere di attacco, perse il controllo di sé.
«Perché non muori? PERCHÉ?!» Si chinò e le sue dita presero a graffiare la terra alla ricerca di sassi da scagliare contro lo scorpione. E al lancio delle pietre seguì quello dei rami, delle pigne e di qualsiasi materiale solido gli capitasse sotto mano. Ma niente riuscì a fermare lo scorpione, che di nuovo s'infilò tra i suoi piedi. Allora Orione, al culmine dell'esasperazione, gli tirò un calcio. Voleva scaraventarlo lontano, oltre l'orizzonte; così lontano da non correre il rischio di rivederlo una seconda volta in tutta la vita.
Ma quando lo calciò accadde qualcosa di terribile: lo scorpione si aggrappò al suo piede.
«AAAAAH! NOOO!» Orione impazzì di terrore e cominciò a scalciare l'aria come un forsennato, tentando di levarsi di dosso l'animale. Si era impigliato alle fasce dei sandali, vedeva le sue orribili zampe incastrate sotto, ed era così spaventoso! Così insopportabilmente vicino, con quel suo pungiglione grosso e nero che da un momento all'altro gli avrebbe perforato il piede! E non si staccava, non si staccava...
«Lasciami, maledetto! LASCIAMI!»
Finalmente, all’apice dell’isteria, Orione riuscì a liberarsi e scaraventò lo scorpione poco più avanti, ma nella foga perse l'equilibrio e cadde sulle natiche; un tonfo imprevisto del quale l'animale approfittò subito, e in un batter d’occhio il cacciatore se lo ritrovò tra le caviglie. Terrorizzato, arrancò all’indietro smuovendo foglie e terriccio e infine riuscì a rialzarsi. Gettò contro l’animale la faretra vuota, e sporco di terra e sudore freddo lo vide riapparire.
Ce l'ha con me...
Orione si portò una mano alla bocca. Aveva voglia di vomitare, piangere e gridare fino allo svenimento. Alla fine era successo: aveva incrociato sul suo cammino una bestia capace di sconfiggerlo. Ma la totale distruzione del suo orgoglio di cacciatore era nulla in confronto al male che quella creatura gli avrebbe presto arrecato.
Non si fermerà mai…
Orione continuava ad arretrare e lo scorpione, instancabile e inattaccabile, continuava ad avanzare.
È qui per punirmi e mi seguirà per sempre, giorno e notte, fino ai confini del mondo conosciuto…
«Oh, miei Dei…»
E quando crollerò esausto correrà sulle mie povere membra e mi ucciderà, perforandomi il cuore con quell’orribile pungiglione!
«NOOOO!!!» In preda al terrore più cieco, Orione si voltò e fuggì, precipitandosi in direzione del mare. Corse, corse e corse a perdifiato finché ad un certo punto, mentre sfrecciava tra gli alberi come la più terrorizzata delle prede, gettò un’occhiata dietro di sé: lo scorpione c’era ancora, lo vedeva correre minaccioso, ma era rimasto indietro... molto più indietro. Eppure Orione non si fermò ma, anzi, accelerò, impaziente di raggiungere la spiaggia.
«Scappa, vigliacco. Scappa.» Apollo assisteva dal cielo alla fuga del gigante e il suo volto era ora scuro, privo del minimo accenno di divertimento: il pensiero che qualcuno capace di tanta codardia fosse riuscito a suscitare la simpatia di Artemide lo disgustava profondamente. «Sei solo capace di…»
Dalla terra salì un sospiro, che zittì il Dio e gli solleticò la chioma dorata.
(Acquietati, o figlio di Leto)
Apollo sospirò pesantemente.
(E ammira… ammira lo svolgersi del fato.)
Orione rotolò fuori dal folto della foresta, si rialzò e corse velocissimo sulla spiaggia deserta, puntando il mare. Apollo si sporse dal cocchio per osservare meglio la scena e, sempre più perplesso, inclinò la testa da un lato.
Che intenzioni hai?
Il gigante non si stava precipitando da Artemide, ormai era evidente. Se avesse desiderato implorare il suo aiuto non avrebbe dovuto lasciare la foresta, ma tagliarla in direzione sud perché la Dea e le sue ancelle erano ancora là, nascoste tra gli alberi per il consueto bagno mattutino. Attraverso la luce del suo sole Apollo riusciva a percepirle, sedute sotto la sponda di un fresco ruscello, intente a lavarsi e pettinarsi a vicenda. Impossibile che si accorgessero di ciò che stava accadendo al cacciatore: erano troppo distanti.
Troppo orgoglioso per frignare davanti ad Artemide? Apollo fece una smorfia. Non ci credo…
Orione, ormai giunto sulla battigia, si voltò e vide lo scorpione uscire dalla foresta: un puntino nero nella vastità della spiaggia. Rabbrividì e si tuffò in mare, allontanandosi dalla costa a grandi bracciate.
Apollo indurì lo sguardo. Povero sciocco. Cosa pensi di fare?
L’acqua fredda intirizzì i muscoli del cacciatore; il panico e le onde gliela fecero finire in gola e nel naso più volte, salata e bruciante. Eppure lui continuò a nuotare, sempre più veloce, senza mai voltarsi. Non voleva neppure considerare l’ipotesi che quell’essere mostruoso e immortale fosse capace di seguirlo in mare: vederlo nuotare a pelo d’acqua lo avrebbe precipitato nell’angoscia più folle e, se davvero desiderava sopravvivere, non poteva permettersi di sprecare le poche, preziosissime energie che gli rimanevano in corpo. Perché Apollo, pur non sapendolo, ci aveva visto giusto. Orione era troppo orgoglioso per inginocchiarsi di fronte ad Artemide e supplicarla di salvarlo da quell'animale. Non ce l’avrebbe mai fatta… non dopo averla fatta affezionare alla sua immagine di sterminatore di fauna, di temibile e talentuoso cacciatore da cui nessuna bestia né mostro poteva sperare di salvarsi. Lo sguardo pietoso che lei gli avrebbe rivolto nel vederlo in lacrime di fronte a un animale così piccolo lo avrebbe ucciso.
Ma fortunatamente esisteva al mondo una Dea, di temperamento molto differente da Artemide, che avrebbe potuto proteggerlo senza frantumare la sua virilità, ed era proprio da lei, celeste creatura, che Orione stava nuotando.
«Eos… dolce Eos…»
Il gigante nuotava e tossiva, sforzandosi di procedere dritto e di non perdere l’orientamento. Voleva raggiungere l’isola sacra di Delo, il luogo dove per la prima volta aveva incontrato e amato la Dea dell’aurora. Non era sicuro che l’avrebbe trovata là, ma doveva tentare, a costo di vagare per mare e terra per tutta la vita, e una volta al suo cospetto, stremato e sporco come il disperato che era, l’avrebbe baciata sulla bocca e l’avrebbe implorata di liberarlo dal flagello che lo tormentava. Una richiesta che la tenera Eos avrebbe immediatamente esaudito. Orione non aveva dubbi a riguardo.
(Niente e nessuno potrà salvarlo.)
Ogni parola della Madre Terra, ogni sospiro che saliva a sfiorare l’orecchio di Apollo era una lugubre promessa di morte.
(Il suo filo è teso)
(Le oscure filatrici stanno per reciderlo)
(Lo sento)
Lo sguardo impaziente di Apollo oscillava tra la testa di Orione, che spuntava dal mare azzurro, e il suo piccolo inseguitore, ora fermo a riva con le chele abbassate. Non pareva avere alcuna intenzione di inoltrarsi in acqua come se, malgrado l’immortalità, il liquido regno di Poseidone continuasse a rappresentare un mondo a lui ostile, e Apollo non poté fare a meno di domandarsi se la Madre Terra non avesse sbagliato a considerare prossima la morte di Orione.
Il suo filo è teso… La voce della Madre Terra riecheggiò nella testa del Dio, sempre più confuso e inquieto. Com’è possibile? Come potrà mai lo scorpione folgorare le sue carni se non si decide a seguirlo in mare? Desidera forse aspettare il momento in cui Orione poserà di nuovo piede sulla terra?
Il Dio si tormentò ancora per qualche istante, pungolato dalla voglia di veder morto il cacciatore, quand’ecco che il seme di un’idea sublime germogliò nella sua mente. I suoi occhi si accesero; la bocca si schiuse per la dolce sorpresa, mentre la luce di quell’eccezionale visione rischiarava ogni ombra, ogni dubbio, ogni traccia di malumore. Afferrò le briglie e le tirò a sé, forte. I cavalli al traino del cocchio nitrirono e si fermarono bruscamente, per poi scrollarsi e lanciare qua e là occhiate stupite: erano abituati a rallentare la propria corsa in cielo, ma fermarsi del tutto… no, quello non era contemplato. Eppure, per quanto sorpresi, si calmarono subito: il loro auriga era tranquillo, percepivano il suo umore e il suo respiro, e per placarsi non avevano bisogno di sentire altro.
O Madre, disse Apollo rivolgendosi a Gea, non fraintendere quanto sto per dirti. Più di chiunque altro io confido nel tuo operato e nella tua grandezza, e mai oserei dubitare delle tue capacità… ma il tuo scorpione… come…
 (Questo mio figlio camminerà sul corpo senza vita di Orione e ciò avverrà tra pochi minuti.)
Pochi minuti?
(Sì.)
Apollo guardò giù. Lo scorpione era ancora là, sulla riva, immobile come un soldato svuotato d’ogni iniziativa; un guscio organico in attesa di ordini.
(Apollo?)
Il Dio scrutò il vasto volto della Terra.
(Cosa desideri? Dimmelo.)
Apollo si portò entrambe le mani al petto con solennità. Desidero occuparmi io di Orione. Perdonami, o Dea, se ti ho tediata e spinta a intervenire. Avrei dovuto salvaguardare il tuo onore personalmente fin dal principio. Ma ora, col tuo consenso, punirò il gigante come merita e lo farò con piacere.
La Terra rispose immediatamente e con una punta di soddisfazione nella voce, come se non aspettasse altro che udire quelle parole.
(Affrettati, o figlio di Zeus)
(Fa’ ciò che il destino t’impone)
(Questo è il tuo momento.)
Apollo avvertì una scarica di acuta consapevolezza che gli fece accapponare la pelle: Gea, grazie ai suoi antichi e smisurati poteri di divinità primordiale, sapeva che era previsto un suo intervento atto a interrompere la fuga di Orione e sapientemente aveva custodito il segreto fino ad allora, affinché tutto si svolgesse secondo il volere del fato… e chissà quanta altra conoscenza stava silenziosamente custodendo, stando ben attenta a dare il giusto peso alle proprie parole e a non rivelare ciò che ancora non andava rivelato. Ma ad Apollo non importava sapere di più: doveva solo lasciarsi trascinare dal destino e obbedirgli.
Scrutò un’ultima volta la minuscola testa del cacciatore immerso in mare e infine balzò giù dal carro.


Sulle sponde del ruscello l’aria profumava di muschio e terra bagnata, un odore che ad Artemide piaceva molto e che puntualmente le faceva venire voglia di affondare le mani in quell’acqua fredda e borbottante, e sciacquare via dal viso il sudore della caccia. Ma quel mattino la sua fronte era ancora asciutta, il corpo fresco e pulito: la battuta di caccia doveva ancora cominciare e il primo bagno della giornata, che più che un rito d’igiene personale era il modo in cui la Dea e le sue ninfe si davano il buongiorno a vicenda, stava durando più del solito. Eppure Artemide non aveva alcuna intenzione di affrettarsi e, seduta su di un tronco caduto, osservava il gruppetto di cacciatrici intente a schizzarsi l’un l’altra con fare giocoso, accucciate nel ruscello. Erano completamente nude, con le chiome incollate ai seni umidi e le guance rosse per il freddo. In quella zona della foresta il fiumiciattolo era in ombra e le sue acque erano sempre gelate.
«Mia Signora?»
Artemide indugiò un attimo sui corpi delle fanciulle, poi si schiarì la gola e guardò la giovane ritta al suo fianco: una ninfa coi capelli rossi e il viso spruzzato di lentiggini. Le sfiorò affettuosamente il braccio con la mano, mentre questa tornava a passare le dita tra i suoi capelli ancora umidi per il bagno.
«Come li desiderate oggi i capelli?» domandò la fanciulla.
«Intrecciali finché non si asciugano» rispose Artemide. «Più tardi li tirerò su.»
La ninfa cominciò a intrecciare la chioma, stringendo bene alla base in modo che non sfuggissero ciocche, e Artemide tornò a contemplare le sue ancelle. Ora si erano alzate e si stavano strizzando i capelli, segno che erano pronte a uscire e vestirsi, e là, appena fuori dall’acqua, Sirio le osservava in silenzio. Artemide lo guardò. Era accucciato con la testa poggiata sulle zampe anteriori e sembrava molto malinconico. Si era rifatto vivo prima degli altri cani, che ancora stavano girando allegramente tra gli alberi, e ora attendeva con pazienza il ritorno del suo amato padrone. Artemide lo chiamò a sé con un fischio. Lui si alzò e la raggiunse trotterellando.
«Sei un bravo cane…» Lo grattò sotto il muso e dietro le orecchie, energicamente. «Un bravissimo cane fedele…»
Sirio scodinzolò felice e ad ogni carezza tentò di leccarle la mano. Artemide sorrise.
«Ho terminato, mia Signora.» L’ancella lasciò cadere la lunga treccia sul seno della Dea e posò le mani sulle sue spalle, sistemandole meglio la tunica. «Vi prendo la faretra?»
Artemide annuì, continuando a coccolare il cane di Orione, e la ninfa si allontanò. Fu allora che una voce maschile vibrò nell’aria.
«Sorella.»
Artemide si girò di scatto e una soffice luce d’oro le irrorò il viso; una luce calda e gradevole, che dal folto della foresta si espanse in tutta la piccola radura. E preceduto dal suo bagliore, Apollo si fece largo tra gli alberi, mostrandosi a lei e a tutte le ninfe.
«Ho bisogno di parlarti» disse il Dio con tono grave.
Le giovani ancora nude si coprirono frettolosamente con le mani e si accucciarono in acqua. Le altre, già vestite, corsero subito da loro portando vesti e mantelli. L’acqua del ruscello schioccò contro i loro stinchi; Sirio cominciò ad abbaiare, turbato da tutta quelle femmine che correvano impazzite di qua e di là, e infuriata come una leonessa Artemide si precipitò dal fratello e gli schiaffò le mani sul petto. Forte.
«CHE TI SALTA IN MENTE?» gridò, spingendolo all’indietro, e Apollo perse quasi l’equilibrio. La Dea sapeva essere estremamente forzuta quando voleva. «Tu non puoi stare qua! LO SAI!»
Il Dio l’afferrò per i polsi. «Perdonami se ti ho disturbata durante l’ora del bagno. So bene quanto tieni alla tua intimità e a quella delle tue ancelle, e mai oserei spiare le vostre nudità...»
«Sì, come no!»
«Artemide.» Apollo la guardò dritto nelle pupille; uno sguardo quasi drammatico, che trasformò la rabbia della Dea in allarmata curiosità. «Ho saputo che un uomo, uno schifosissimo uomo ha osato arrecarti offesa e per questo affronto merita la morte.»
«Cosa? Chi?»
«Non c’è tempo per i dettagli. Il miserabile sta scappando, quindi prendi arco e frecce e seguimi. Dobbiamo agire in fretta.» Detto questo, Apollo si voltò e s’inoltrò tra gli alberi.
Artemide agì immediatamente, senza riflettere. Recuperò arco e faretra, ordinò alle sue ancelle di non muoversi dalla radura e corse dietro al fratello, scortata da Sirio. Apollo ghignò, senza farsi vedere, quindi sfoggiò nuovamente la propria espressione drammatica, e non appena la sorella e il segugio lo affiancarono attraversò con loro la verde foresta. Fu una corsa breve e dritta, che in poco tempo li condusse alla spiaggia sassosa, e una volta là Artemide prese a lanciare dappertutto occhiate attente e sospettose. Non vedeva nessuno. La spiaggia era completamente deserta, ad eccezione dei gabbiani che con gran chiasso stavano gozzovigliando tra i resti del falò della sera prima, tra le cui ceneri si celavano ancora brandelli di carne di cervo.
«Ma… qui non c’è nessuno!» La Dea guardò malissimo il gemello. Stava cominciando ad avere una strana sensazione. «Giuro che se questo è uno scherzo…»
«Vieni.» Mostrandosi un po’ più calmo, Apollo la prese per mano e con lei s’incamminò con passo sicuro e deciso verso il mare. Allora Artemide notò qualcosa di nero tra i sassi; qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi là, ma che invece c’era, reale come le onde che con un melodioso sciabordio si allungavano ad abbracciare le piccole pietre sulla battigia.
Uno scorpione… Stranita, la Dea fissò l’animale, lo raggiunse e infine lo oltrepassò con una grande falcata, mentre alle sue spalle Sirio si avvicinava con cautela ad annusarlo. Era strano, molto strano che uno scorpione come quello si spingesse fin sulla riva, ma delle misteriose ragioni che, dagli ombrosi e sicuri boschi, l’avevano condotto fin sulla soglia del regno di Poseidone per il momento ad Artemide importava meno di niente. Era già tanto che in tutta quell’agitazione avesse notato il suo scuro e immobile corpicino.
«Ecco.» Apollo si fermò sulla battigia, là dove la schiuma delle onde s’infilava tra i ciottoli, quindi alzò un braccio indicando dritto di fronte a sé. «Quello è il tuo nemico, sorella. Lo vedi?»
Artemide scrutò le acque e nel loro azzurro piatto e brillante scorse un puntino nero: l’inconfondibile testa del nemico. «Sì, lo vedo…»
«Guarda come s’affanna a nuotare, non prende neppure fiato…» Apollo parlò con tono volutamente provocatorio. Voleva trasmettere alla sorella tutto l’astio che provava per lui. «Sta tentando di fuggire da te.»
«Chi è? Cosa ha fatto?» domandò Artemide, senza distogliere lo sguardo dalla testa dello sconosciuto, mentre dietro di lei il segugio annusava con maniacale attenzione un sasso dopo l’altro. «Voglio saperlo.»
«Il suo nome è Candaone.»
Pronunciato quel nome Apollo deglutì, trovandosi improvvisamente al culmine dell’ansia. Sapeva che per uscire da quella brutta storia con la coscienza pulita doveva citare quel nome, Candaone, che altro non era se non il nome con cui Orione era conosciuto nella lontana Beozia, sua terra natia, come sapeva bene che quello era un dettaglio che Artemide non poteva in alcun modo conoscere. Ciononostante il nervosismo e la paura di vedere i propri piani scoperti riuscirono ugualmente a farlo sudare. Ma quando notò che Artemide non aveva battuto ciglio nell’udire quel nome, il Dio avvertì una fiammata di meraviglioso ottimismo rinvigorirgli tutto il corpo. Allora proseguì con le proprie menzogne.
«È un uomo malvagio e lussurioso che ha molestato e infine stuprato Opide, una delle tue sacerdotesse iperboree.»
Artemide s’irrigidì tutta; i suoi occhi s'infiammarono di furore omicida. Quelle parole l’avevano colpita a fondo. Apollo lo notò distintamente e ne gioì.
«Sorella.» Il Dio posò la mano sul suo arco e lo sentì vibrare; scariche di rabbia repressa a fatica. «Lascia che lo uccida io. Tu non ce la faresti mai da questa distanza.»
«COSA?!» Artemide si voltò di scatto a guardare Apollo, profondamente offesa, e in quel momento, come colto da un’inaspettata rivelazione, Sirio scoppiò ad abbaiare, rivolto verso il mare; un abbaio disperato che ad Apollo non piacque per nulla.
«Guarda, anche il tuo segugio percepisce la crudeltà di quel mascalzone…» disse sorridendo, poi tornò a rivolgersi alla sorella. «Su, non fare la sciocca. Lascia fare a me.»
«SIRIO, SMETTILA!» Artemide sgridò il cane, che come impazzito ora le abbaiava contro, ma non servì a nulla: questi uggiolò un’ultima volta e infine si tuffò in mare, deciso a raggiungere il suo padrone a nuoto. Artemide lo ignorò, guardò di nuovo Apollo negli occhi e sfilò una freccia dalla faretra. «Credi sia troppo lontano per me?» domandò con voce sibilante.
«Desidero solo farti un favore» mentì Apollo, che in realtà stava volontariamente soffiando sulla sua fiammeggiante furia. «Mi sembra che ti tremi la mano e…»
«No. Tu mi stai sfidando.» La Dea incoccò la freccia. «So che mi stai sfidando. Ti sei sempre reputato più abile di me nel tiro con l’arco.»
«Allora, su! Avanti!» la esortò lui. «Dimostrami che sei sempre stata tu la più talentuosa tra noi e ammazza quell’infame con un colpo solo!»
Così tutto tornerà come prima.
Mia casta e adorata sorella.
Artemide sollevò l’arco, tirò indietro la freccia e prese la mira. Ce l’avrebbe fatta, lo sentiva. Avrebbe squarciato la testa di quell’uomo perverso come fosse un frutto marcio, buono solo per giocare al tiro al bersaglio, e lo avrebbe fatto al primo colpo lasciando Apollo senza parole.
Di’ addio alla luce, vile Candaone.
La Dea sentì la corda fremere tra le dita. Era pronta a scoccare.
Ormai appartieni ad Ade.
Orione, troppo distante dalla riva per poter udire alcunché, continuava ad affondare prima un braccio poi l’altro nell’acqua fredda del mare, spingendosi in avanti. Doveva arrivare a Delo. Doveva salvarsi la vita e per farlo era necessario che continuasse a nuotare, nuotare e ancora nuotare. Se si fosse fermato, avrebbe perso sia tempo che determinazione: un errore che non poteva permettersi di fare.
Ma, tutt’a un tratto, il mondo intorno a lui esplose, tingendosi di nero.
Fu come una scossa. Una tremenda scossa.
E Orione non sentì più nulla.
«L’HO COLPITO!» Artemide saltò per la gioia, alzando l’arco al cielo, quindi scaricò in faccia ad Apollo tutta la propria euforia. «Hai visto, scettico d’un fratello? Ho colpito quello stupratore dritto in testa! E con un colpo solo!»
Il Dio la ignorò. Stava fissando il mare e il suo viso era serio e solenne, come se qualcosa di ancor più importante di quell’esecuzione fosse sul punto di travolgerli entrambi; un viso che ad Artemide non piacque affatto. Allora la Dea tornò a guardare la propria vittima e finalmente vide ciò che il fratello stava vedendo.
Trasalì, sgomenta.
Il mare si era increspato tutto di onde piccole e lisce; la sua corrente era mutata e ora, dal largo, premeva con insistenza in direzione opposta, spingendo verso riva il minuscolo puntino nero che galleggiava goffamente, senza vita, e onda dopo onda si faceva più grande e nitido. Era come se il mare non sopportasse l’idea di lasciarlo sprofondare e fosse impaziente di restituirlo alla terra, affinché ricevesse una degna cerimonia funebre.
Artemide abbassò l’arco e si approssimò al mare. L’acqua delle onde le lambì le caviglie, fredda e schiumosa. Il cadavere era sempre più vicino alla riva e la Dea, respiro dopo respiro, onda dopo onda, avvertiva una sgradevole sensazione di familiarità propagarsi dal cuore fino alla pelle, simile a un brivido di paura.
La sua mano si aprì da sola; l’arco cadde, schioccando contro i sassi umidi.
Artemide avanzò di un altro passo.
Non sentiva più nulla, la realtà si era fatta fumosa come se stesse camminando nel sonno, e tutto ciò che riusciva a percepire era quella viscerale, insopportabile sensazione di incubo.
No…
Sirio, ormai arrivato al corpo, lo afferrò per il polso e con gran fatica cominciò a trascinarlo verso riva, quando all’improvviso un’onda li investì entrambi, spingendoli ancor più in avanti. E in quel marasma bianco e schiumoso, il cadavere roteò su se stesso; la testa, con la freccia ancora conficcata, si rovesciò all’indietro volgendo gli occhi vuoti al cielo.
Allora Artemide lo vide e la disperazione le esplose nelle vene.
Orione.
Il suo amico Orione.
Era proprio lui.
Morto.
«NOOOO!» Sconvolta, Artemide si gettò in mare e nuotò dal gigante. Apollo la seguì severamente con lo sguardo, senza fiatare né muoversi, e ben presto la vide aggrapparsi al cadavere. Furono le onde a spingerglielo tra le braccia, ad affidarglielo quasi con affetto, e quando strinse a sé quel corpo freddo e immobile Artemide avvertì una profonda sensazione di morte. La freccia conficcata nel bel mezzo della testa; i capelli fradici di sangue; gli occhi sbarrati e lucidi di acqua di mare… Orione, il suo amico Orione, ormai era carne morta. Ma, spinta dalla disperazione, la Dea si aggrappò ferocemente alla speranza
(non è morto, è solo ferito, non è morto, non è morto)
 e, giunta a riva, trascinò il corpo fuori dall’acqua. Sirio le fu subito dietro, si scrollò il pelo e, a orecchie basse, cominciò a prendere a musate la mano del padrone. Artemide non se ne accorse neppure, come non si accorse dello scorpione che, avvicinatosi di soppiatto, cominciò ad arrampicarsi su una gamba del gigante.
Presto… presto…
Afferrò alla base la freccia conficcata nella testa del cacciatore e un fiotto di sangue caldo le bagnò le dita. Aprì la mano e la guardò con occhi tremanti. Non poteva estrarre la freccia. Il cranio era fratturato, la freccia era penetrata in profondità nel cervello e c’era troppo sangue… troppo, troppo sangue.
Apollo le si avvicinò a passo lento e l’abbracciò con la sua luce d’oro; un bagliore che accese crudelmente la rossa devastazione sul volto di Orione, ponendo in risalto ogni ciocca di capelli incrostata di sangue, ogni capillare nei suoi occhi morti.
Artemide posò l'orecchio sul petto del gigante. Nessun battito, nessun fremito. Carne morta.
No, no, no…
Incapace di rassegnarsi, si tirò su e diede una vigorosa scrollata al corpo, facendone dondolare la testa sui sassi. «Orione!» Le lacrime le colmarono gli occhi. «Non puoi morire! Ti prego! ORIONE!»
«Se n’è andato.» Apollo parlò con voce glaciale, priva di qualsiasi traccia di empatia: non vedeva l’ora che la sorella la smettesse di piangere e si dimenticasse di quell’insignificante gigante una volta per tutte. «Le lacrime non lo riporteranno di certo in vita.»
Artemide ebbe come un sussulto. Le sue labbra si serrarono; la mano salì ad asciugare le gote, strisciandole accidentalmente del sangue di Orione. Si voltò, rivolgendo ad Apollo un’occhiata truce. «Sei stato tu…»
Il bel Dio si portò una mano al petto. «Cosa…?»
«Tu!» Artemide si alzò e, improvvisamente furiosa, diede uno spintone al fratello. «Ti sei inventato tutto! Stronzo maledetto! Bugiardo senza cuore!»
«Bugiardo?» Apollo fece un passo indietro, tentando di sfuggire all’ira della Dea, ma lei continuò a pressarlo. «Non ti ho detto alcuna menzogna.»
«Candaone!» La Dea indicò il corpo senza vita steso sui sassi. «Non esiste alcun Candaone! Questo è Orione! E tu, schifoso bugiardo, me lo hai fatto ammazzare!»
«Candaone è il nome con cui Orione è conosciuto in Beozia. Le mie parole sono state chiare. Sei tu che-»
Artemide tirò un pugno al fratello; un colpo duro, dritto sul naso. Apollo barcollò all’indietro e per qualche istante non vide altro che uno sciame di puntini brulicanti.
«Spero di avertelo rotto!» gridò lei, poi si girò e tornò a inginocchiarsi accanto a Orione.
Apollo sentì qualcosa di umido e caldo scivolargli da una narice. Si asciugò con dita distratte, senza neppure il bisogno di guardare: sapeva che era sangue. Probabilmente Artemide gli aveva fracassato il naso, trasformandolo in un bozzo deforme, ma il Dio non se ne curò. Era sconvolto. Paralizzato da un intenso dolore interiore, ancor più potente del dolore che gli pulsava nel naso.
Artemide non si era mai infuriata così tanto con lui.
MAI, in tutta la vita.
Artemide...
Apollo si asciugò di nuovo sotto le narici e stavolta trovò meno umido, le dita si bagnarono appena: l'emorragia si era già arrestata. Si sfiorò frettolosamente il setto, scoprendolo dritto come sempre, mentre la voce lacrimosa e implorante di Artemide gli s'infilava nelle orecchie.
«Tu che puoi, ti prego! Accogli la mia supplica, o Dio benevolo! Non lasciarmi nel mio dolore!»
Confuso, Apollo si domandò chi mai fosse il Dio benevolo che la sorella stava invocando, quand’ecco che le sue candide labbra ne pronunciarono il nome. 
«Ti prego, Asclepio!»
Apollo sussultò.
No. Questo no.
In preda all’agitazione il biondo Dio si fece avanti, e nel medesimo istante una figura comparsa alle sue spalle chissà quando lo sorpassò.
Era Asclepio, suo figlio.
Signore della medicina.
«Asclepio!» Artemide gridò di gioia. «Oh, ti ringrazio!»
Apollo guardò il figlio a bocca aperta; pochi istanti di vivo stupore e il suo viso si fece glaciale. Asclepio, che non poteva sopportare di dare le spalle a suo padre, si voltò e gli sorrise educatamente; un sorriso che traballò fino a sparire, sopraffatto dallo smarrimento. Suo padre era scosso, sudato, privo della sua ordinaria pace interiore, e soprattutto non era affatto contento di vederlo. Anzi. Dal modo gelido e sgradevole in cui lo stava fissando avrebbe giurato che lo stesse silenziosamente odiando.
(Vattene)
(Non fare lo stupido)
Asclepio indugiò sul viso del padre, senza riuscire a capire cosa gli passasse per la mente, poi si avvicinò ad Artemide. «Ho udito la tua preghiera, Dea cacciatrice…» Il semidio allargò le braccia in segno di riverenza. Stringeva nella mano destra un lungo bastone attorno al quale era avvinghiato un serpente, che strisciava sul legno grezzo seguendo la linea di un'eterna spirale. «Sono qui per servirti.»
Artemide prese la mano del gigante, la strinse tra le sue e guardò Asclepio con occhi luccicanti di lacrime. «Orione, il mio amico, ha avuto un incidente...»
Asclepio fissò la freccia conficcata nella testa del giovane, quindi il suo sguardo si spostò sullo scorpione che, indisturbato, stava gironzolando sul suo torace. Alzò il bastone e indicò l'animale con la punta inferiore della verga. «E' stata la freccia a ucciderlo o il veleno di questa bestia?»
Artemide scacciò bruscamente lo scorpione, allontanandolo dal corpo. «L'ho colpito per errore... io c-credevo che...» La Dea non riuscì a terminare la frase: il dolore e i sensi di colpa erano troppo pungenti. «Oh, ti supplico, Asclepio! Tu che conosci le arti curative e i segreti della negromanzia, restituisci la vita a Orione!»
Apollo si avvicinò ai due a braccia incrociate, mentre sopra la terra il cielo cominciava a rannuvolarsi. «Sorella mia, tu non ragioni più...»
«STA' ZITTO!» ruggì lei, disperata, quindi tornò a rivolgersi ad Asclepio. «So che puoi farlo e so che il tuo animo è misericordioso, perciò ti prego, esaudisci il mio desiderio. Riporta in vita Orione.»
Nero in volto, Apollo cercò lo sguardo del figlio, certo che da un momento all'altro questi si sarebbe girato a cercare la sua approvazione, ma quando lo vide sorridere ad Artemide capì che aveva già preso la sua decisione. Allora lo odiò ferocemente, come mai aveva odiato nessuno dei suoi figli, e senza neppure comunicarglielo lo ripudiò.
Sei un maledetto idiota.
Tu per me non esisti più.
Maledetto.
«Non devi supplicarmi.» Asclepio tese gentilmente la mano ad Artemide, che la strinse e si alzò in piedi. «Riporterò in vita il tuo amico, se è questo ciò che desideri. Ma non supplicarmi, o figlia di Zeus. Mi metti in imbarazzo.»
Artemide tirò su col naso. «Ti ringrazio...»
Asclepio annuì, quindi la invitò ad indietreggiare di qualche passo e a portare con sé il cane, che incapace di rassegnarsi stava ancora strofinando il muso sulle dita del padrone. Artemide lo prese dolcemente per la collottola e indietreggiò, lasciando al Signore dei guaritori lo spazio necessario per esercitare la propria arte.
Conto su di te. Non deludermi...
Asclepio s'inginocchiò per studiare da vicino le condizioni del cadavere, quindi posò il bastone, afferrò la freccia e la estrasse completamente, mentre sopra la spiaggia le nubi cominciavano a tuonare, scure e minacciose. Il tempo era mutato in pochi minuti e ora il cielo prometteva pioggia, ma nessuno dei tre sembrò curarsene: il temporale era l'ultimo dei loro pensieri. Asclepio strofinò tra loro le mani sporche del sangue del morto, poi le posò entrambe sul suo petto, pelle contro pelle. Apollo lo vide chiudere gli occhi, in cerca della necessaria concentrazione per strappare quell'insignificante anima al controllo di Ade, e disgustato dal suo comportamento scosse la testa, macinando fra sé e sé pensieri velenosi. E adirato com'era non si chiese per quale ragione suo padre Zeus stesse addensando le nubi proprio sopra la spiaggia, né lo sfiorò il dubbio che il potente sovrano potesse essere in collera con uno di loro... men che meno con Asclepio.
Eppure Zeus lo era.
Detestava e temeva i poteri rigeneratori del Protettore dei medici più di chiunque altro, poiché essi rischiavano di assottigliare il confine tra vita e morte, rendendo ogni defunto potenzialmente immortale, e ciò metteva in discussione la supremazia stessa degli Dei dell'Olimpo sugli uomini. E lui, tutore dell'ordine naturale, non poteva permettere che un simile scenario si verificasse. Sarebbe stato il caos.
Per questo Asclepio andava fermato.
Definitivamente.
E, nell'istante esatto in cui l'energia rigeneratrice cominciò a fluire dal corpo del semidio per dare nuova vita alla carne morta di Orione, una folgore precipitò dalle nubi e lo colpì in pieno, con uno spaventoso boato. Fu una specie di frustata elettrica, accecante e violenta. Apollo e Artemide si protessero il viso, travolti da quella scarica prorompente di energia, e quando si ripresero Asclepio giaceva morto a terra, accanto a Orione. La pelle ustionata; i capelli arsi dalle fiamme; la tunica annerita... e quel terribile, terribile odore nell'aria, di carne bruciata e sangue bollente.
«NOOOO!!!» Apollo si precipitò dal figlio e lo prese tra le braccia. Artemide lo raggiunse e s'inginocchiò accanto a lui, sconvolta. Asclepio era irriconoscibile: la folgore lo aveva completamente devastato trasformandolo in un mostro dalla pelle rossa e bruciacchiata. Ciononostante il Dio del sole lo strinse forte a sé, come fosse il più bello dei figli, e in lacrime guardò la sorella. «È m-morto...»
Artemide nascose il viso sul torace di Orione ed esplose in un pianto senza freni. Con la morte di Asclepio moriva anche la speranza di strappare il cacciatore al regno delle ombre, e per lei ciò significava una sola cosa: rassegnarsi di fronte all'inevitabile. E, nel vedere la Dea così affranta, Sirio capì che il suo padrone non si sarebbe più svegliato e, uggiolando, si sdraiò accanto a lui.
«Perché, Padre? Perché me lo hai ammazzato?!» Apollo gridava e piangeva, abbracciato al figlio morto, mentre la verità, l'unica verità gli si rivelava in tutta la sua crudezza. Asclepio, il suo povero Asclepio, era sempre stato misericordioso e gentile con tutti. Un'anima buona, che anche quel giorno aveva pensato unicamente a mettere le proprie straordinarie conoscenze al servizio degli altri. E lui, crudele ed egoista figlio di Zeus, a cosa aveva pensato mentre il sangue del suo sangue si prodigava a fare del bene? A ripudiarlo. A schifarlo. A maledirlo. A fare il possibile per non incrociarlo mai più sul proprio cammino, neanche fosse il peggiore dei lebbrosi, e tutto perché la sua bontà lo aveva accidentalmente intralciato. E ora, stringendo tra le braccia il suo cadavere rovente, Apollo si odiava e ribolliva di rabbia. «PADREEEE! Giuro che questa me la paghi!»
Artemide si girò a guardare il fratello e lo trovò col viso inondato di lacrime e il dito puntato contro il cielo.
«Hai capito?! QUESTA ME LA PAGHI! LO GIURO!» Il Dio aveva gli occhi rossi per l'ira ed era così fuori di sé, così pazzo di dolore da non rendersi conto di stare minacciando il suo potentissimo padre. Ma il cielo, invece di tuonare, cominciò ad aprirsi; le nubi si diradarono fino a sciogliersi, lasciando il posto all'azzurro del firmamento. Zeus, in un impeto d'inaspettata maturità, decise che il figlio aveva il diritto di sfogarsi e lo lasciò fare.
«Asclepio... no... no...» Apollo posò la guancia umida sul capo ruvido e ormai senza capelli del figlio. Puzzava terribilmente di carne bruciata, ma al Dio non importava.
E nel vederlo così, debole e distrutto dalla sofferenza, Artemide capì che non avrebbe potuto portargli rancore per molto. Il suo piano meschino gli si era rivoltato contro proprio sul finale, e la perdita di Asclepio era un castigo sufficientemente duro per ciò che aveva osato farle. Ma per lei era ancora presto per parlare di perdono.
Ora doveva dedicarsi a Orione.
«Padre mio, ti supplico...» disse alzando le mani al cielo, mentre le lacrime continuavano a scorrerle sulle guance rosse di pianto. «Accetta il povero corpo di Orione tra le stelle eterne del firmamento, in modo che io possa ammirare la sua splendente figura e ricordarne l'ardore! Non negarmi quest'unica gioia, Padre adorato, o il mio dolore non avrà mai fine!»
Commosso dalle lacrime della figlia, Zeus accolse la sua richiesta e tramutò il cadavere del cacciatore in luce, quindi ne fissò la sagoma tra le stelle: una figura possente e valorosa con la clava in una mano e lo scudo nell'altra, intenta a sfidare la costellazione del Toro. Artemide, col viso rivolto al cielo ancora troppo azzurro per dare sfoggio della nuova costellazione, si asciugò entrambe le guance con le mani, ancora sporche del sangue di Orione, e improvvisamente un guaito straziato le colpì l'orecchio.
Si voltò e vide Sirio.
Era accucciato a terra con le orecchie basse e la depressione nera negli occhi, come se avesse ricevuto centinaia di bastonate. La morte del padrone e la sua ascesa nei campi fioriti di stelle gli avevano spezzato il cuore, privandolo della voglia di vivere. Artemide s'impietosì e, senza pensarci su due volte, decise di unire i due chiedendo al padre di accettare anche Sirio tra le costellazioni. Zeus la accontentò di nuovo e Artemide fece appena in tempo ad accarezzare il muso del segugio che questi chiuse gli occhi e nacque in cielo, sotto forma di stella; una stella luminosissima, che per tutta l'eternità avrebbe brillato vicino al suo amato padrone inseguendolo con la cieca devozione di sempre. Ma Zeus fece più di quanto gli venne chiesto e, per imprimere nella memoria di mortali e immortali la sciagurata storia del cacciatore venuto dalla Beozia, accolse in cielo anche lo scorpione inviato da Gea, fissando la sua figura all'estremità opposta del firmamento. Non fu una scelta casuale: al tramontar del sole la costellazione di Orione avrebbe cominciato a calare, mentre quella dello scorpione, dall'altra parte del cielo, avrebbe cominciato a sorgere. Così i due, inseguito e inseguitore, non si sarebbero mai incontrati, pur condividendo l'infinito regno blu delle stelle, ma la loro storia sarebbe stata raccontata in eterno. 
È finita.
Artemide sospirò, poi si girò e guardò Apollo. Era ancora seduto accanto a lei, col corpo morto di suo figlio tra le braccia. Piangeva silenziosamente, con gli occhi chiusi e le labbra tremanti: si stava calmando, ma la sua sofferenza era ancora intensa. Artemide gli posò una mano sulla spalla, sentendo di doverlo fare e di non poter resistere a quell'impulso. Si guardarono negli occhi; pochi istanti di parole non dette, poi Apollo abbassò lo sguardo e Artemide ritirò la mano, tornando a guardare con malinconia il cielo azzurro dove, quella stessa notte e per tutte le notti a seguire, avrebbe potuto rivedere Orione.



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