Risate. Schiocchi d’acqua. Strilli. Filastrocche.
Sulle rive del fiume Nestos, che quella mattina scorreva sul suo letto
di ciottoli grigi senza quasi far rumore, fanciulli e fanciulle di divina
discendenza giocavano insieme, dando libero sfogo al proprio impeto giovanile.
Figli e figlie di padri differenti – Dei dei fiumi, dei venti, delle alte
montagne – i giovinetti si davano spesso appuntamento in quella particolare
zona della Tracia, dove il Nestos si presentava tranquillo e liscio, quasi non
aspettasse altro che accoglierli e farli divertire con le proprie acque. Ma non
tutti amavano inzupparsi e, al freddo ruscello, alcuni preferivano il calore
dei sassi che contornavano la sua azzurra sagoma, e su di essi sedevano e intonavano
canzoni, accompagnati dalla melodiosa voce delle ninfette dei boschi. Erano piccoli,
dei bimbi che in altezza non superavano un satiro, ma nonostante la giovane età
gironzolavano come caprioli tra gli alberi e le rocce, senza che alcun Dio
superiore vegliasse su di loro. Non avevano bisogno di protezione né di
sorveglianza: erano svegli e veloci a sufficienza da scomparire in un baleno in
caso di necessità, ed era questa sicurezza interiore, questa fiducia nelle
proprie capacità divine a renderli così spensierati e vivaci.
Per loro, il mondo era un luogo bellissimo, e bellissimo era giocare,
giocare e ancora giocare.
Ma sulle rive del Nestos non tutti si stavano divertendo.
Seduta poco distante su un vecchio tronco coperto di muschio, Eris
osservava a braccia incrociate gli altri bimbi, che con l’acqua alle caviglie
si chinavano sul ruscello e si schizzavano a vicenda. Fece una smorfia seccata,
un suono simile a un ringhio le scivolò di bocca. Detestava la delicatezza con cui
quelli si stuzzicavano; quel profondo rispetto che trasudava da ogni loro
movenza, così schifosamente effeminata ed elegante. Era un modo di giocare che
non oltrepassava mai alcun limite, che non sfidava mai per davvero l’altro né
puntava a metterlo in difficoltà; un modo di giocare che con lei, ostile
creatura, era completamente incompatibile. Certo, in passato aveva provato a
partecipare a quei giochi, ma la sua indole aggressiva e malevola l’aveva
subito costretta ai margini del gruppo, perché nessuno di quei bimbetti
sopportava i suoi insulti, gli sgambetti, le risatine di scherno... in breve,
il suo modo di giocare. E più volte,
dopo essere stata emarginata, Eris si era reintrodotta a forza nel gruppo,
trovando insopportabile l’idea di non poter più tormentare nessuno di quei
ragazzini piagnucolosi, e questi, non potendo scappare da lei, avevano sempre
ceduto alle sue pressioni, accettandola malvolentieri.
Ma quella mattina, per qualche oscura ragione, il suo cuore era colmo di
frustrazione e il desiderio di dare un taglio netto a quelle abitudini di vita
era più grande che mai.
Era stanca di accontentarsi, di farsi andare bene quel branco di
rammolliti.
Voleva cominciare a giocare davvero.
Sbuffò e gettò un’occhiata a suo fratello Ares. Era seduto per terra
davanti a lei, col capo chino e l’espressione concentrata: stava cercando di
legare una pietra acuminata all’estremità di uno stecco, nel tentativo di
creare una lancia, ma il sasso che aveva scelto era troppo pesante per fungere
allo scopo, e il ramo troppo sottile. Un’impresa persa in partenza che, però, lo
stava tenendo piacevolmente impegnato.
Eris saltò giù dal tronco. «Che stupido!» borbottò, sfilandogli lo
stecco di mano.
«Ehi!» Ares si voltò e allungò
la manina, ma la gemella fu più veloce e, con un colpo secco, spezzò in due il
fuscello. «Nooo!» Il Dio scattò in piedi. «Perché l’hai fatto? Cattiva!»
Eris gli rivolse un sorriso malvagio e aguzzo, simile al ghigno di un
pipistrello. Era pronta a ricevere le sue lacrime; la prima scarica di
divertimento vero dall’inizio di
quella piatta mattinata. Ma Ares non pianse. Aggrottò le sopracciglia, serrò i
pugnetti e li affondò più volte in aria, come fanno i bambini in preda alla
rabbia. Eris sbuffò di nuovo, più indispettita di prima. Aveva sempre
rimproverato il gemello per il modo in cui era solito frignare ogni qualvolta
lei gli dava leggermente fastidio, e
a suon di insulti lo aveva sempre spronato a essere forte, a reagire con vigore
e dignità a qualsiasi torto gli venisse fatto. Ma ora che invece di piangere lui
si stava mostrando adirato, Eris si sentiva più frustrata di prima. Gli avrebbero
fatto comodo le sue lacrime ora che si stava annoiando da morire, ma
evidentemente quella non era la sua giornata fortunata.
«Smettila
di giocare con questi stecchi!» disse, gettando a terra il ramo spezzato.
«Tanto non la sai costruire una lancia!»
Ares saltò sul posto, sempre più infuriato. «Sì che la so costruire!»
«Pfff! Come no…» Eris rise e
subito tornò seria. «Sei solo un imbranato.»
Ares raccolse i due pezzi di legno, li osservò per decidere se fossero
ancora utilizzabili in qualche modo e infine li gettò a terra. «Io so costruire
una lancia» ripeté convinto, guardando la sorellina negli occhi. «Te lo farò
vedere!»
Eris diede una spintarella al gemello. «Che noioso sei! Tu e le tue
stupide lance sbilenche!»
Lui la guardò confuso. Non capiva qualche fosse il suo problema né per
quale motivo se la stesse prendendo con lui. «Ma… io…»
«Sono stanca di stare qui» disse lei, scagliando tutt’intorno occhiate
d’odio. «Sono tutti così stupidi! Con le loro canzoncine, le loro risatine! Puah!» Mimò un conato di vomito con
tanto di lingua fuori, quindi strisciò vicino al fratello, gli prese una mano e
gli parlò sottovoce, con tono birichino. «Tu non hai voglia di giocare con
qualcun altro? Qualcuno più forte?»
«Più… forte?» ripeté Ares, senza capire.
«Sì! A questi rammolliti non possiamo fare niente che subito si
spaventano e scappano! Ricordi quando abbiamo giocato a rincorrerci?»
«Sì.» Ares s’imbronciò. Ricordava bene quel giorno, quando lui ed Eris
avevano giocato a rincorrere – o, meglio, predare
– gli altri fanciulli, e questi, pazzi di paura avevano cominciato a correre da
tutte le parti, ad arrampicarsi sugli alberi, a schizzare via nella selva come
conigli minacciati. E tutto questo panico per cosa? Perché loro, invece di
toccarli delicatamente quando li
raggiungevano, gli saltavano addosso, ansimando e ringhiando per la foga. Un
gioco che ad Ares era piaciuto tantissimo, ma che a entrambi era costato giorni
di emarginazione e solitudine. «Si sono spaventati tutti» aggiunse.
«Perché sono delle mammolette!» Eris gli strinse la mano più forte. «Dai!
Andiamo a cercare qualcun altro con cui giocare! Qualcuno che ci faccia
divertire davvero!»
Ares sorrise da orecchio a orecchio. L’idea lo eccitava tantissimo. «Sì,
sì!» rispose. Poi la sua espressione si fece perplessa. «Ma… con chi potremmo
giocare?»
«Coi mortali!» rispose Eris, senza alcuna esitazione.
Il piccolo Dio sgranò gli occhi. «Coi
mortaaaali?» Arricciò il labbro, tra lo stupore e il disgusto: né lui né la
sorella avevano mai rivolto la parola ai mortali prima d’ora, abituati
com’erano a considerarli inferiori e poco interessanti, e l’invito a prenderli
in considerazione come possibili compagni di giochi – addirittura migliori
degli altri Dei – ad Ares suonò come una presa in giro. E del resto, quante
volte Eris si era presa gioco di lui e della sua ingenuità, per poi dargli
dell’idiota credulone? Tante, troppe per lui, per non mostrarsi adesso più che
diffidente. «Non ci credo che vuoi giocare con loro! Mi prendi in giro!»
Eris gli mollò bruscamente la mano e schioccò l’indice sul suo naso. «No
che non ti prendo in giro, stupido! Voglio davvero giocare coi mortali! E lo
farò adesso, anche se tu non vieni!»
Detto questo, la piccola Dea diede le spalle al fiume e si avviò verso la
boscaglia. Non se ne sarebbe andata davvero senza il gemello: il suo era solo
un bluff che, come aveva previsto, funzionò alla grande.
«Eris! Aspettami!» gridò Ares, correndole dietro.
Di nuovo fianco a fianco, i due si ripresero per mano e insieme
s’inoltrarono nella foresta.
«Perché vuoi giocare coi mortali?» le domandò Ares, mentre saltellavano
tra gli arbusti. «I mortali sono inferiori…»
«Te l’ho già dettoooo! Loro sono diversi da quei rimbambiti con cui
giochiamo sempre! Loro sono imperfetti! Coraggiosi!
Cattivi!»
«Cattivi?»
«Sì!» Eris si atteggiò a grande conoscitrice del mondo mortale, benché di
esso ne sapesse poco o nulla. «I mortali amano essere cattivi e i loro bimbi
amano giocare senza regole! Spingono, fanno la lotta, si arrabbiano, si
graffiano! Sarà bello giocare con loro!»
«Ma Eris… come facciamo a giocare con loro?»
La Dea lanciò al gemello un’occhiata interdetta. «Che vuol dire?»
Ares scrollò le spalle. «I mortali… be’, i mortali muoiono.»
Eris si fermò. Quel pensiero, quella banale considerazione la colpì più
forte del previsto: aveva completamente dimenticato che i mortali avessero una
tolleranza fisica molto limitata, al
punto che anche un banale colpo in testa o un affondo di coltello troppo
profondo potevano ucciderli… o, perlomeno, così le era stato raccontato tempo
addietro; parole che avevano all’istante suscitato la sua ilarità. Ma era il
concetto stesso di morte, di trapasso,
che adesso la teneva in bilico facendola sentire un po’ eccitata e un po’
delusa. Perché forse Ares aveva ragione, forse i mortali non sarebbero stati
compagni di giochi adatti a loro se al primo accenno di lotta fossero stramazzati
a faccia in giù, senza più fiatare né muovere un muscolo. Ma se invece fosse stata
proprio la morte, quell’incognita
misteriosa, a renderli i compagni di giochi migliori tra tutti?
Un sorrisetto maligno si affacciò sul viso della Dea.
Inseguire, aggredire e infine uccidere
i bimbi mortali.
Quella sì che sarebbe stata una bella botta di eccitazione; un’esperienza
che avrebbe permesso loro di scoprire cosa realmente
accade quando una creatura a esistenza limitata esala l’ultimo respiro… perché
a riguardo i due gemellini avevano le idee molto confuse. Certo, sapevano che
esisteva il Dio Thanatos, il Raccoglitore di Anime, come sapevano che esisteva
Ade, l’Oscuro regnante degli Inferi, ma non avendo ancora conosciuto né l’uno
né l’altro – e non avendo ancora mai assistito di persona al trapasso di un
mortale - i due non sapevano cosa aspettarsi. Eppure Eris non era sicura di
voler usare in quel modo i bimbi mortali; di cercarli unicamente per spaventarli
e ucciderli. Giocare con loro, essere violenti tutti insieme senza paure né
limiti le sarebbe piaciuto molto di più. Ma, per quanto piccola fosse, aveva
già capito che in certe occasioni era meglio lasciar fare al destino e godersi
la sorpresa.
«Se muoiono, muoiono» rispose facendo spallucce. «Noi giocheremo con
loro finché potremo.»
«E se non vorranno giocare con noi?» domandò Ares.
«Giocheranno con noi!» replicò lei, decisa. «Li obbligheremo!»
«Non vedo l’ora!» Ares sorrise e i suoi occhi brillarono di
aggressività. Trotterellò in avanti trascinandosi dietro Eris quasi fosse una
parte del proprio vestiario, ma lei, invece di infuriarsi per quei movimenti
bruschi, subito salterellò con lui.
Erano entrambi euforici, curiosi e affamati di esperienza, e saltello
dopo saltello uscirono dalla boscaglia e si affacciarono su un sentiero; una
via che, come una serpe bianca, scorreva a grandi onde sul verde dell’erba.
Lungo quella strada avrebbero trovato ciò che cercavano.
Ne erano certi.
Proseguirono per il sentiero per un po’, fin quando la foresta si aprì e
un immenso prato, tempestato di fiori selvatici, apparve davanti ai loro occhi.
E appena oltre quel campo, che morbidamente scendeva verso sud seguendo la
curvatura di una lieve collina, ecco spuntare le mura di un villaggio; un
piccolo agglomerato di case chiuso in se stesso, modesto ma molto attivo a
giudicare dall’entusiasmo dei suoi abitanti. I contadini che, vanghe alla mano,
si spaccavano la schiena nei campi; i carretti traballanti dei venditori, che oltrepassato
l’ingresso principale si avviavano verso est in cerca di fortuna; i muratori che
aggiustavano i tetti; le donne che mungevano le capre e stendevano i panni ad
asciugare; i vecchi che, come gobbi spettri, si aggiravano per le case e i
cortili…
Dalla cima di quel colle, Ares ed Eris riuscivano a vedere tutto.
E ovviamente, videro anche i bambini del villaggio.
Se ne stavano tutti insieme fuori dalle mura, all’ombra di un agrumeto;
fanciulli dai cinque ai dodici anni circa che, lontani dal molesto via vai
degli adulti, giocavano senza pensieri e senza sorveglianza. Nel gruppo vigeva
l’autogestione e la regola, per i più grandi, di badare ai più piccoli. E per
il momento, la situazione era molto tranquilla e tutti si stavano divertendo.
«Sono laggiù» Ares puntò il dito.
«Lo so, li ho visti. Uhmm…»
Eris si afferrò il mento, pensierosa. «Così non va bene. Dobbiamo spingerli in
fondo all’agrumeto.»
«Cosa? Perché?»
«Perché ora sono troppo vicini al villaggio, stupido!» La Dea diede una
pacca al fratello, dietro alla testa.
«Ahia!»
«Dobbiamo spingerli in fondo, così possiamo giocare con loro senza che
nessuno ci senta.»
«D’accordo!» Ares annuì e fece per scendere giù dalla collina, ma la
sorella lo afferrò per il braccio.
«Aspetta! Non possiamo andare così! Scapperebbero!» Eris strizzò gli
occhi, in un moto di sforzo. Le sue alette nere scomparvero; la luce dorata che
le cingeva il corpo si spense. «Su! Fallo anche tu!»
Ares – che, a differenza della gemella, non aveva ali da far scomparire
– si concentrò e represse il proprio bagliore divino. «Così?»
«Perfetto!» Eris sorrise. «Ora sembriamo due mortali anche noi!»
«A me non piace sembrare un mortale…» mugugnò lui, guardandosi insoddisfatto
le braccia. Eris non gli diede corda. Lo prese per mano e ridacchiò eccitata,
restituendogli all’istante il sorriso. Quindi i due trotterellarono giù dalla
collinetta e, nascosti nell’erba alta come lupi pronti ad attaccare,
strisciarono lateralmente stando attenti a non farsi vedere dagli adulti.
Dovevano raggiungere l’agrumeto senza dare nell’occhio e così fecero, serpeggiando
tra gli aranci e i limoni, e sbucando infine alle spalle del gruppetto di
bambini.
«Ciao!» esclamò Eris, portandosi infantilmente le mani dietro alla
schiena. «Vogliamo giocare con voi!»
Tutti i bambini si girarono a guardare i nuovi arrivati. I più grandi li
squadrarono dalla testa ai piedi con diffidenza.
«Chi siete? Noi non vi conosciamo» disse uno di loro, un ragazzino coi
capelli neri e l’aria da bullo. «Non possiamo giocare con voi.»
Ares si fece avanti, arrabbiato. «Sì che potete!»
«Andate via, stranieri» ruggì
un altro ragazzo, che insieme a un amico stava giocando alla lotta con dei
bastoni di legno; un gioco che invogliava da morire i due gemellini. «Ci state dando
fastidio.»
Eris non si lasciò demoralizzare da quelle parole e, con aria di sfida,
puntò l’indice sul fondo dell’agrumeto. «Scommetto che io e mio fratello
arriviamo a quell’albero di limoni prima di voi!» gridò.
I piccoli si strinsero l’un l’altro, intimiditi da quella bimba tutta vestita
di nero, ma i ragazzi reagirono diversamente, guardando prima Ares, poi lei. «Tu
sei una femmina» le disse il moretto, sputando per terra in segno di disprezzo
e mancando per un soffio i suoi piedi. «Noi non gareggiamo con le femmine!»
La Dea si fece nera in volto.
«Avete solo paura di perdere!» Ares sentì il sangue riempirgli la testa:
quei bambini non gli piacevano per niente, come non gli piaceva il fatto che
per questioni d’età fossero più alti di lui. «Cagasotto!»
«Cagasotto noi?» Il gruppetto scoppiò a ridere e, appena in quel
momento, Eris notò che in esso non vi era neppure una femmina; neppure tra i
bimbi più piccoli. «Possiamo battervi in qualsiasi gioco!» aggiunse il moretto.
«Avanti!» gridò Eris e la sua
voce vibrò come il ruggito di un puma, al punto che tre piccini scoppiarono a
piangere. «Il primo che arriva all’albero di limoni vince!»
Velocissimi, i gemelli corsero via e subito il gruppo di amichetti si
spezzò: alcuni – i più responsabili e tranquilli, vale a dire la maggior parte
– non mossero un muscolo e rimasero coi piccoli, mentre tre di loro, il moretto
e i due che stavano giocando coi bastoni, mollarono tutto e si lanciarono
all’inseguimento. Non volevano perdere per nessun motivo e, correndo come
forsennati, non fecero caso a quanto si stessero allontanando dal villaggio:
perché l’albero di limoni era già stato superato, l’agrumeto scomparso alle
loro spalle, eppure i gemelli non si fermavano. E quant’erano veloci!
Maledettamente veloci, per essere solo due marmocchietti con le gambe corte! Perdere
contro di loro, per tre giovinetti sulla soglia della pubertà, sarebbe stato
intollerabile.
«Chi arriva per primo a quella pietra vince!» Eris indicò una grossa
roccia nel mezzo del campo, quindi lanciò uno sguardo di sfida al gemello.
Scattarono entrambi, più veloci che mai. Ormai la gara era solo tra loro due ed
entrambi ci tenevano a vincerla. Ed ecco che, all’ultimo istante, il giovane
Dio sorpassò la sorella e si scaraventò contro la pietra.
«Ho vinto! Ho vinto!» gridò abbracciando
la roccia, alta quanto lui, e subito Eris gli si schiantò sulla schiena.
«Non vale! Hai imbrogliato!» La Dea si attaccò a sua volta alla pietra,
tentando di spingere via il fratello. «Mi hai quasi fatto lo sgambetto! Non è
giusto!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero!»
«No! Ho vinto perché sono più veloce di te!»
«Sei solo un imbroglione!»
Nel mezzo del loro bisticcio, i tre ragazzini si precipitarono sul
traguardo. Avevano il fiatone, le guance paonazze e il corpo madido di sudore.
Si fermarono, si ressero alle ginocchia per prendere fiato e, recuperate un po’
di energie, si scagliarono contro i due.
«Quanto siete stupidi!»
«Cosa pensavate di dimostrare? Eh?! Stranieri
schifosi!»
«Stronzetti!»
Mani violente si serrarono sulle vesti dei gemelli e, in un batter
d’occhi, i due furono scaraventati a terra.
Sconvolti e
con le facce impolverate, rimasero immobili, quasi la loro mente non riuscisse
a elaborare l’affronto appena subito. Quindi si guardarono e, nel vedere
l’altro steso a terra, realizzarono appieno ciò che era accaduto.
Allora s’infuriarono.
«GRAAAAAHHHH!» Ares scattò per
primo e mollò un pugno in faccia a uno dei bambini; un colpo che risuonò nell’aria
con l’inconfondibile crack di un naso
che si spezza. Il ragazzo urlò di dolore, si portò le mani al volto – che ora
zampillava come una fontana di sangue – e cadde a terra privo di sensi. E
mentre questo stramazzava sotto agli occhi spiritati di Ares, Eris saltava
addosso al suo amichetto, lo schienava e gli artigliava la faccia; unghiate
selvagge, profonde, spietate che come
uncini acuminati gli devastarono la faccia. E lui gridava e piangeva, ed Eris
gridava con lui, giovane e nerissima belva, finché le sue piccole dita
appuntite si serrarono sul suo collo e strinsero. Strinsero. Strinsero fin
quando gli occhi di lui si rivoltarono all’indietro con un rantolo e il suo corpo
si fece molle come creta. Fu allora che il terzo ragazzo le si precipitò
contro, atterrandola.
«BRUTTI MOCCIOSI!» gridò
quello con le lacrime agli occhi, furibondo e spaventato, mentre con una mano
tirava i capelli alla straniera e con l’altra le percuoteva la faccia. «Cosa
credete di fare? Eh?! IO NON HO PAURA DI
VOI!»
«Rrraaahhh!» Inviperita, Eris
spalancò la bocca e tentò di mordere le dita che la stavano picchiando; morsi
scattanti, feroci, da predatrice affamata di carne. Ma la mano del giovane
andava e veniva, schiantandosi dappertutto sul suo viso, e in quel trambusto in
cui i suoi canini tentavano di afferrare un pezzo del suo nemico c’era tanta,
troppa stoffa: era la manica della tunica del ragazzo, che sfarfallava di qua e
di là scossa dal panico e dall’ira, a riempirle a bocca. Non sarebbe riuscita a
morderlo, non con quell’affare di lino che adesso quasi la soffocava. E mentre
la frustrazione e l’odio la facevano bruciare, la sua natura divina esplose a
dismisura dissolvendo ogni travestimento. Le ali nere si schiusero sotto la sua
schiena; il corpo tornò a brillare di luce immortale. Gridò, pronta a
scrollarsi di dosso l’avversario, quand’ecco che Ares glielo strappò di dosso,
tuffandosi su di lui.
I due maschi rotolarono insieme, quindi il Dio – che, come la gemella,
era tornato al suo caratteristico splendore – s’arrestò sopra al ragazzo. Le
gambe agganciate ai suoi fianchi, come tenaglie di ferro; la bocca deformata
dall’ira, in un ghigno tutto denti. Voleva spaccargli la faccia; voleva annientarlo. Alzò il braccio, per
mollargli un pugno che gli frantumasse il cranio, ma il giovane – che ora
piangeva e ansimava come un vitello terrorizzato – gli schiaffò una mano sul
viso, oscurandogli la visuale, mentre l’altra si serrava sul suo avambraccio.
«Grrrrrr!» Ares scosse la
testa per liberarsi; nel buio i suoi occhi captarono lame di luce. Tentò di
picchiare il ragazzo, ma il suo pugno non scattò, limitandosi a vibrare nella
stretta delle dita nemiche. Non poteva lottare così, senza vedere nulla. Allora
si tirò indietro con la schiena, recuperando finalmente la visuale, e
all’improvviso con la coda dell’occhio destro captò qualcosa, quasi senza
accorgersene. E la sua mano capì tutto, molto prima del cervello, e come una
freccia partì di lato, e quel qualcosa era un sasso, un preziosissimo, durissimo sasso
(io ti ammazzo)
e adesso ce lo aveva in mano
(ti frantumo la testa)
e nel petto gli sembrava di avere mille cuori, e tutti battevano insieme,
e la sua mano stava volando, e gli occhi del ragazzo, scintillanti schegge di
terrore, occhi che Ares avrebbe ricordato per tutta l’eternità, e infine il
colpo! PAK! Dritto e sicuro sulla
tempia. Ah, che sublime scontro fra durezze! Che schianto fenomenale! E che
immenso, indescrivibile piacere tracimò nel cuore di Ares! Gli piaceva ciò che
stava facendo. Gli piaceva da impazzire. E riecco la fontana color rubino, i
nastri rossi, l’odore di ferro. La testa del giovane sembrava essersi aperta. Ma
nonostante l’incredibile colpo subito, il poveretto era ancora vivo: lo sguardo
adrenalinico; il respiro accelerato; la bocca che sputava sangue e saliva rosata.
Sapeva che stava per morire e non lo accettava.
Eris si precipitò accanto al fratello e cominciò a gridare, coi pugnetti
accanto alle guance. Era eccitatissima e assetata di vendetta, di dolore, di male. «Ammazzalo!» gridò saltellando. «Spaccagli
la testa!»
Ares non se lo fece ripetere. Alzò il pugno e colpì il ragazzo col sasso.
Pak! Pak! Pak! Pak! Una scarica di
colpi tremendi, dal rumore duro e acquoso insieme, e il viso del moretto si
trasformò in una maschera di sangue. Il Dio emise un gemito di sforzo, mollò
l’ultima sassata – che fece scoppiare gli incisivi del ragazzo – e si fermò. La
testa inclinata da un lato; il viso schizzato di sangue; gli occhi ancora
fiammeggianti per il furore dell’uccisione. Osservò il suo nemico e non lo
riconobbe. Il naso rotto, gli zigomi spaccati, la mascella dislocata… Su quel
viso rosso sangue nulla era più dove avrebbe dovuto essere.
«È
morto?» domandò Eris sporgendosi in avanti, con fare curioso.
Ares lasciò cadere il sasso, si alzò in piedi e si grattò la nuca,
continuando a fissare il moretto steso a terra. Né un movimento né un gemito intercettarono
la sua attenzione: quello che un tempo era stato un ragazzino vigoroso appariva
ora come un grosso pupazzo con la faccia rossa e deforme. Il Dio scrollò le
spalle. «Non lo so» rispose. «Credo di sì.»
Eris si voltò verso gli altri due ragazzini: quello che Ares aveva steso
con un pugno e quello a cui lei aveva messo le mani al collo. Erano immobili. «Sono
tutti morti» disse ridacchiando fra sé e sé. Poi raccolse da terra un
bastoncino, s’inginocchiò e lo conficcò nel fianco del moretto. «Tè! Tè! Tè!» Nessuna reazione. «Oooh! È proprio morto!»
Ares si guardò le mani: erano fradice di sangue. «È
stato… bellissimo!» esclamò.
«Oh, sì!» Eris prese a
saltellargli davanti, come uno scoiattolo iperattivo. «Sì! Sì! Sì! Dobbiamo
rifarlo! Mi piace quando i mortali soffrono! E mi piace vedere come li uccidi!»
«Anche a me piace! Voglio farlo sempre!» Ares ebbe un fremito
d’eccitazione improvvisa. «Uuuh!
Facciamo vedere a nostro padre quanto siamo bravi a uccidere!»
Eris arricciò il nasino. «Smettila, stupido» disse. «Sai che al vecchio
non frega niente di noi.»
Ares s’intristì. «Ma io voglio fargli vedere come uccido…»
«Lascia perdere.» Eris tornò a punzecchiare il morto, stavolta in faccia.
«Te l’ho detto che non gli interessa. Oh, guarda il suo naso! Gnahaha! Si è tutto spappolato!»
Il Dio si guardò i piedi. Si sentiva improvvisamente svuotato, come se
tutto il piacere e l’euforia appena sperimentati si fossero disciolti nel
nulla. Sbuffò, infastidito da quell’ondata di apatia che non riusciva a
comprendere, e mentre era là che si guardava i sandali, i fili d’erba di fronte
a lui cominciarono a fremere.
Ares sbatté le ciglia; il suo sguardo si fece più presente. Come
sferzata dal vento – un vento che, però, ora non soffiava – l’erba stava
sfrigolando follemente e lo stava facendo solo in quel punto, a un passo da
lui.
Il Dio indietreggiò e per poco non inciampò sul corpo del moretto.
«Sta’ attento, scemo!» Eris lo colpì con una gomitata e girandosi notò a
sua volta i ciuffi d’erba impazziti. «Ehi, cos’è quello?»
«Non lo so» rispose Ares e un attimo dopo erano entrambi in piedi,
fianco a fianco.
«Che strano!» Eris allungò il bastoncino di legno con l’intenzione di
sfiorare l’erba, quando dal basso l’aria vorticò su se stessa, addensandosi. I
due ebbero giusto il tempo di sobbalzare, che il vortice d’inspiegabile vento
si fece materia e un’oscura figura apparve di fronte ai loro occhi; una
creatura dal volto maschile, i capelli argentati e il corpo contornato da possenti
ali nere. Era un Dio. Su questo non vi erano dubbi.
Gelido e senza dire una sola parola, l’essere guardò i piccoli di fronte
a sé – che con le bocche spalancate lo osservavano ammaliati, con l’indiscrezione
tipica dei bambini – quindi lanciò uno sguardo al corpo steso a terra.
«Chi sei tu?» domandò Ares.
«La tua luce è strana. Non sei un Dio dell’Olimpo.» Eris allungò la
manina per sfiorare l’ala della creatura, ma questa la ritirò bruscamente,
rifiutando il contatto.
«Io sono Thanatos, il Nero Mietitore.» La voce del Dio risuonò bassa, come
un lungo sospiro annoiato: la presenza dei due gemelli – di cui uno sporco di
sangue fresco, come un macellaio – lo irritava. «Non sono una creatura della
luce, ma un ministro di Ade, Signore degli Inferi, e mio e solo mio è il
compito di raccogliere le anime dei defunti. Perciò non toccarmi, sciocca
bimbetta, e trattami col rispetto che merito.» Detto questo, il Dio superò i
due e si fermò di fronte al morto.
«Io non sono sciocca!» Eris serrò i pugnetti, offesissima. «E non sono
una bimbetta! Capito?»
Ares si tuffò davanti a lei, eccitatissimo. «Q-quindi tu sei Thanatos!
La Morte!» esclamò.
«È
quello che ho detto» replicò l’altro, tanto glaciale quanto irritato. Quelle
grida infantili gli entravano nel cervello come spilloni; suoni a cui non era
abituato. Alzò la mano destra sopra il morto e distese le dita, tentando di
ignorare gli schiamazzi.
«Ho sentito parlare di te! E anche di Ade!» Ares prese a trotterellare
alle spalle del Dio. «Non lo abbiamo ancora incontrato, ma… sai, lui è nostro
zio! Perché noi siamo Ares ed Eris! I figli di Zeus!»
«Esattooo! Zeus è nostro padre
ed Era nostra madre!» aggiunse Eris col tono di chi spera, con quelle parole,
di incutere profonda paura. «Non siamo due Dei qualunque!»
Thanatos scrollò a malapena le spalle, senza voltarsi. «Non m’interessa
nulla di voi» rispose, e con un gesto della mano morbido ed elegante chiamò a
sé l’anima dal fanciullo morto. E dalla carne questa si sollevò come uno sbuffo
di fumo, riportando nel mondo una grigia e impalpabile immagine del ragazzo;
uno spettacolo al quale Ares ed Eris assistettero stupefatti. Mai prima di
allora i due avevano veduto l’anima di un defunto e, in quegli attimi, ne
divorarono ogni particolare. Gli occhi tristi e vuoti; la pelle intatta, priva
di sangue e ferite; il corpo evanescente e molle, come una folata di vapore che
si rifiuta di salire e persiste nel galleggiare a mezz’aria. Come tutti i
futuri sudditi di Ade, anche il moretto era pronto a seguire il suo carceriere,
poiché oltre alla carne era già morta in lui ogni speranza.
«Su, spostatevi.» Thanatos allungò un’ala verso i bambini, obbligandoli
a fargli spazio. «Andatevene altrove.»
«Hai visto com’è ridotta la sua testa?» Eris prese a balzellare intorno
al morto. «Lo abbiamo ucciso noi, sai?»
«IO l’ho ucciso!» specificò
Ares, improvvisamente arrabbiato. «E ho ucciso anche l’altro! Tu hai ucciso
solo quello lì!»
«È
vero, l’ho strozzato! Haha!» Eris
rivolse a Thanatos un sorrisetto malvagio, tentando in ogni modo d’incontrare i
suoi occhi. Ma il Dio continuò a ignorarla. «Gli ho messo le mani al collo e ho
stretto forte forte, finché è morto!» La Dea mimò il gesto di strangolare, poi scaricò
più volte il pugno in aria. «Questo invece lo ha ucciso Ares a sassate! Gli ha
fracassato la testa così! Pem! Pem! E
gli sta bene! Ci aveva chiamato stronzetti!»
«Non m’importa.» Thanatos arricciò l’indice e avvicinò l’anima a sé,
mostrando interesse solo per il proprio lavoro. Poi espanse la propria energia
e di nuovo i fili d’erba cominciarono a sfrigolare.
«Ehi, aspetta!» Ares capì per primo che il Dio stava per scomparire e
tentò di prenderlo per il braccio; un contatto che Thanatos evitò per un
soffio. «E le anime di quelli? Non le prendi?»
«No.» Il viso del Mietitore s’indurì: la sua pazienza stava venendo
messa a dura prova. «Quei due non sono ancora morti, perciò restano qua.»
«Ma che dici?!» Eris si
precipitò dal bambino che aveva soffocato, s’inginocchiò e gli posò una mano
sul petto. Pochi attimi e la piccola Dea capì che Thanatos aveva detto il vero:
il cuore del ragazzino pulsava ancora, seppure debolmente. «Ma… l’ho
strangolato fortissimo…»
«Anche lui è ancora vivo!» Ares, inginocchiato accanto al bimbo a cui
aveva spaccato il naso, si voltò a guardare Thanatos. «Respira ancora, ma non
si sveglia.»
«Si sveglieranno entrambi. Oppure moriranno a breve, per i traumi
riportati. In ogni caso non è un problema vostro.» Di nuovo, il Dio fece per
andarsene, sprofondando nella sua stessa oscurità insieme al suo prigioniero.
«Ehi! Aspetta!» gridò Eris.
«Non te ne andare!» le fece eco Ares ed entrambi si precipitarono da lui.
«Smettetela di tediarmi, o figli di Zeus!» disse il Dio. «Mi avete fatto
perdere fin troppo tempo.»
«Portaci con te!» urlò Eris, riuscendo finalmente ad afferrargli l’ala.
«Vogliamo vedere gli Inferi!»
«Uuuh! Sì, ti prego!» Ares si
fece conquistare immediatamente dall’idea di visitare l’Oscuro Regno, benché
non vi avesse mai pensato prima di quel giorno. «Non abbiamo mai visto il mondo
dei morti! Lasciaci venire con te! Così potremo conoscere anche lo zio Ade!»
«Allontanatevi.» Thanatos si
scrollò i piccoli di dosso e mostrò loro il palmo della mano, con l’autorità di
un sovrano spietato. «Piccoli selvaggi, ascoltate queste mie parole e memorizzatele
una volta per tutte. Nessuno, ad
eccezione dei defunti, può discendere nel Regno delle ombre fianco a fianco con
me, fosse anche un figlio di Zeus Cronide. Perciò, se desiderate camminare
sulla fredda terra infera convinti di trovare in essa un nuovo luogo in cui
giocherellare, andate pure, ma per conto vostro.»
«E come facciamo ad arrivarci?» domandò Ares.
«Dove dobbiamo andare? Noi la strada non la conosciamo!» borbottò Eris.
«Il Regno delle ombre ha molti ingressi, tutti impervi e sconosciuti ai
mortali.» Thanatos puntò il dito verso ovest. «Là per esempio, oltre le rive
del Nestos, dove la montagna incontra la pianura, vi è una piccola grotta. Il
suo ingresso è celato dai rovi, e buie e tortuose sono le sue viscere di
pietra. Andate alla sua ricerca. Se desiderate trovarla, la troverete, ed essa
vi condurrà fino alle sponde dell’Acheronte, nella Terra dei defunti che tanto
agognate visitare.» Così parlò il Dio e, avvolto dalla sua stessa ombra, sprofondò
nel terreno insieme al suo prigioniero, senza lasciare traccia.
I due gemelli rimasero immobili per qualche momento, ipnotizzati dal
modo in cui il Mietitore era appena passato dall’altra parte della terra.
Si guardarono.
«Quant’è odioso questo Thanatos!» mugugnò Eris, con le manine sui
fianchi. «Si crede chissà chi!»
«E ora che facciamo?» Ares si strofinò il naso con la manica della
tunica: il sangue del mortale si stava seccando e cominciava a dargli fastidio.
«Non è giusto! Io ci voglio andare negli Inferi!»
«Ah, ma ci andiamo! Eccome se ci andiamo! Qui non abbiamo più nulla da
fare.» La Dea sferrò un ultimo calcio alle costole del ragazzo che aveva
tentato di soffocare. Poi prese il gemello per mano e lo trascinò via con sé.
«Su! Andiamo a cercare la grotta!»
«Che bello!» esclamò l’altro. «Non vedo l’ora vedere tutti quei morti! E
lo zio Ade! Chissà se sarà contento di conoscerci…»
«Pfui! Io voglio solo
esplorare gli Inferi. Non mi frega niente di quell’ammuffito dello zio Ade!»
«Sei sempre così cattiva…»
«Sei tu che sei un rammollito.»
«Non è vero! Ho ucciso a sassate quel bambino, quindi sono forte! Tu invece sei una rammollita! Non sei
neppure riuscita a strangolare quell’altro!»
«Perché
tu mi hai distratto con le tue lagne!»
«Non è verooo!»
«Su, muoviti lagnoso, se no alla grotta non ci arriveremo mai!»
«Tu muoviti…»
Spintonandosi a vicenda e riprendendosi per mano poco dopo, i due proseguirono
il loro cammino alla ricerca dell’ingresso per gli Inferi e, senza mai perdere
il proprio entusiasmo, vagarono per le foreste della Tracia giorno e notte, con
la pioggia e con il sole, come due piccoli e coraggiosi eroi che nessuno
avrebbe mai potuto fermare. E una fresca mattina di luce, mentre a ginocchia
alte stavano avanzando tra il fogliame, un profumo zuccherino attirò la loro
attenzione.
I due alzarono il mento, come due cani in allerta. Inspirarono a fondo.
Aroma di rovi, more, lamponi: una fragranza inconfondibile. Seguirono la scia, strisciando
come lucertole tra roccia e arbusti, finché le loro mani non incontrarono delle
spine. Ritirarono di scatto le dita, come se avessero appena sfiorato qualcosa
di incandescente, e un attimo dopo sobbalzarono stupiti. Dietro il groviglio di
rovi e more che li aveva punti vi era un buco nero; una cavità oscura, che si
apriva nella roccia come una bocca deforme e mostruosa il cui grido sembrava
ancora risuonare nelle sue nere fauci. Non era enorme, ma era grande a
sufficienza da permettere a due persone adulte – forse anche a tre – di
penetrarla senza difficoltà, e celata com’era dal fogliame e dai rovi appariva
ancora più spaventosa: uno di quei luoghi così lontani dalla luce in cui
potrebbe celarsi qualsiasi essere. E
che odore strano saliva da laggiù! Odore di nebbia, polvere, acqua stantia… Il
puzzo del ristagno eterno.
Eris sorrise, staccò dai rovi un paio di more e le mangiò. «Caro Ares, abbiamo
trovato la grotta!» dichiarò masticando a bocca aperta.
Il Dio sorrise a sua volta e imitò la gemella, mangiucchiando qualche
frutto con la medesima rozzezza e spalancando la bocca non appena lei, per disgustarlo,
gli mostrò il contenuto della propria. Ridacchiarono entrambi, quindi raccolsero
dei grossi sassi da terra e squarciarono la rete di rovi e fogliame; l’ultima
vera barriera rimasta tra loro e ciò che si celava dall’altra parte. Infine si diedero la mano ed entrarono nella grotta,
lasciandosi inghiottire dalla sua oscurità.
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