mercoledì 24 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE I (Ares, Eris, Thanatos)



Risate. Schiocchi d’acqua. Strilli. Filastrocche.
Sulle rive del fiume Nestos, che quella mattina scorreva sul suo letto di ciottoli grigi senza quasi far rumore, fanciulli e fanciulle di divina discendenza giocavano insieme, dando libero sfogo al proprio impeto giovanile. Figli e figlie di padri differenti – Dei dei fiumi, dei venti, delle alte montagne – i giovinetti si davano spesso appuntamento in quella particolare zona della Tracia, dove il Nestos si presentava tranquillo e liscio, quasi non aspettasse altro che accoglierli e farli divertire con le proprie acque. Ma non tutti amavano inzupparsi e, al freddo ruscello, alcuni preferivano il calore dei sassi che contornavano la sua azzurra sagoma, e su di essi sedevano e intonavano canzoni, accompagnati dalla melodiosa voce delle ninfette dei boschi. Erano piccoli, dei bimbi che in altezza non superavano un satiro, ma nonostante la giovane età gironzolavano come caprioli tra gli alberi e le rocce, senza che alcun Dio superiore vegliasse su di loro. Non avevano bisogno di protezione né di sorveglianza: erano svegli e veloci a sufficienza da scomparire in un baleno in caso di necessità, ed era questa sicurezza interiore, questa fiducia nelle proprie capacità divine a renderli così spensierati e vivaci.
Per loro, il mondo era un luogo bellissimo, e bellissimo era giocare, giocare e ancora giocare.
Ma sulle rive del Nestos non tutti si stavano divertendo.
Seduta poco distante su un vecchio tronco coperto di muschio, Eris osservava a braccia incrociate gli altri bimbi, che con l’acqua alle caviglie si chinavano sul ruscello e si schizzavano a vicenda. Fece una smorfia seccata, un suono simile a un ringhio le scivolò di bocca. Detestava la delicatezza con cui quelli si stuzzicavano; quel profondo rispetto che trasudava da ogni loro movenza, così schifosamente effeminata ed elegante. Era un modo di giocare che non oltrepassava mai alcun limite, che non sfidava mai per davvero l’altro né puntava a metterlo in difficoltà; un modo di giocare che con lei, ostile creatura, era completamente incompatibile. Certo, in passato aveva provato a partecipare a quei giochi, ma la sua indole aggressiva e malevola l’aveva subito costretta ai margini del gruppo, perché nessuno di quei bimbetti sopportava i suoi insulti, gli sgambetti, le risatine di scherno... in breve, il suo modo di giocare. E più volte, dopo essere stata emarginata, Eris si era reintrodotta a forza nel gruppo, trovando insopportabile l’idea di non poter più tormentare nessuno di quei ragazzini piagnucolosi, e questi, non potendo scappare da lei, avevano sempre ceduto alle sue pressioni, accettandola malvolentieri.
Ma quella mattina, per qualche oscura ragione, il suo cuore era colmo di frustrazione e il desiderio di dare un taglio netto a quelle abitudini di vita era più grande che mai.
Era stanca di accontentarsi, di farsi andare bene quel branco di rammolliti.
Voleva cominciare a giocare davvero.
Sbuffò e gettò un’occhiata a suo fratello Ares. Era seduto per terra davanti a lei, col capo chino e l’espressione concentrata: stava cercando di legare una pietra acuminata all’estremità di uno stecco, nel tentativo di creare una lancia, ma il sasso che aveva scelto era troppo pesante per fungere allo scopo, e il ramo troppo sottile. Un’impresa persa in partenza che, però, lo stava tenendo piacevolmente impegnato.
Eris saltò giù dal tronco. «Che stupido!» borbottò, sfilandogli lo stecco di mano.
«Ehi!» Ares si voltò e allungò la manina, ma la gemella fu più veloce e, con un colpo secco, spezzò in due il fuscello. «Nooo!» Il Dio scattò in piedi. «Perché l’hai fatto? Cattiva!»
Eris gli rivolse un sorriso malvagio e aguzzo, simile al ghigno di un pipistrello. Era pronta a ricevere le sue lacrime; la prima scarica di divertimento vero dall’inizio di quella piatta mattinata. Ma Ares non pianse. Aggrottò le sopracciglia, serrò i pugnetti e li affondò più volte in aria, come fanno i bambini in preda alla rabbia. Eris sbuffò di nuovo, più indispettita di prima. Aveva sempre rimproverato il gemello per il modo in cui era solito frignare ogni qualvolta lei gli dava leggermente fastidio, e a suon di insulti lo aveva sempre spronato a essere forte, a reagire con vigore e dignità a qualsiasi torto gli venisse fatto. Ma ora che invece di piangere lui si stava mostrando adirato, Eris si sentiva più frustrata di prima. Gli avrebbero fatto comodo le sue lacrime ora che si stava annoiando da morire, ma evidentemente quella non era la sua giornata fortunata.
«Smettila di giocare con questi stecchi!» disse, gettando a terra il ramo spezzato. «Tanto non la sai costruire una lancia!»
Ares saltò sul posto, sempre più infuriato. «Sì che la so costruire!»
«Pfff! Come no…» Eris rise e subito tornò seria. «Sei solo un imbranato.»
Ares raccolse i due pezzi di legno, li osservò per decidere se fossero ancora utilizzabili in qualche modo e infine li gettò a terra. «Io so costruire una lancia» ripeté convinto, guardando la sorellina negli occhi. «Te lo farò vedere!»
Eris diede una spintarella al gemello. «Che noioso sei! Tu e le tue stupide lance sbilenche!»
Lui la guardò confuso. Non capiva qualche fosse il suo problema né per quale motivo se la stesse prendendo con lui. «Ma… io…»
«Sono stanca di stare qui» disse lei, scagliando tutt’intorno occhiate d’odio. «Sono tutti così stupidi! Con le loro canzoncine, le loro risatine! Puah!» Mimò un conato di vomito con tanto di lingua fuori, quindi strisciò vicino al fratello, gli prese una mano e gli parlò sottovoce, con tono birichino. «Tu non hai voglia di giocare con qualcun altro? Qualcuno più forte?»
«Più… forte?» ripeté Ares, senza capire.
«Sì! A questi rammolliti non possiamo fare niente che subito si spaventano e scappano! Ricordi quando abbiamo giocato a rincorrerci?»
«Sì.» Ares s’imbronciò. Ricordava bene quel giorno, quando lui ed Eris avevano giocato a rincorrere – o, meglio, predare – gli altri fanciulli, e questi, pazzi di paura avevano cominciato a correre da tutte le parti, ad arrampicarsi sugli alberi, a schizzare via nella selva come conigli minacciati. E tutto questo panico per cosa? Perché loro, invece di toccarli delicatamente quando li raggiungevano, gli saltavano addosso, ansimando e ringhiando per la foga. Un gioco che ad Ares era piaciuto tantissimo, ma che a entrambi era costato giorni di emarginazione e solitudine. «Si sono spaventati tutti» aggiunse.
«Perché sono delle mammolette!» Eris gli strinse la mano più forte. «Dai! Andiamo a cercare qualcun altro con cui giocare! Qualcuno che ci faccia divertire davvero!»
Ares sorrise da orecchio a orecchio. L’idea lo eccitava tantissimo. «Sì, sì!» rispose. Poi la sua espressione si fece perplessa. «Ma… con chi potremmo giocare?»
«Coi mortali!» rispose Eris, senza alcuna esitazione.
Il piccolo Dio sgranò gli occhi. «Coi mortaaaali?» Arricciò il labbro, tra lo stupore e il disgusto: né lui né la sorella avevano mai rivolto la parola ai mortali prima d’ora, abituati com’erano a considerarli inferiori e poco interessanti, e l’invito a prenderli in considerazione come possibili compagni di giochi – addirittura migliori degli altri Dei – ad Ares suonò come una presa in giro. E del resto, quante volte Eris si era presa gioco di lui e della sua ingenuità, per poi dargli dell’idiota credulone? Tante, troppe per lui, per non mostrarsi adesso più che diffidente. «Non ci credo che vuoi giocare con loro! Mi prendi in giro!»
Eris gli mollò bruscamente la mano e schioccò l’indice sul suo naso. «No che non ti prendo in giro, stupido! Voglio davvero giocare coi mortali! E lo farò adesso, anche se tu non vieni!» Detto questo, la piccola Dea diede le spalle al fiume e si avviò verso la boscaglia. Non se ne sarebbe andata davvero senza il gemello: il suo era solo un bluff che, come aveva previsto, funzionò alla grande.
«Eris! Aspettami!» gridò Ares, correndole dietro.
Di nuovo fianco a fianco, i due si ripresero per mano e insieme s’inoltrarono nella foresta.
«Perché vuoi giocare coi mortali?» le domandò Ares, mentre saltellavano tra gli arbusti. «I mortali sono inferiori…»
«Te l’ho già dettoooo! Loro sono diversi da quei rimbambiti con cui giochiamo sempre! Loro sono imperfetti! Coraggiosi! Cattivi!»
«Cattivi?»
«Sì!» Eris si atteggiò a grande conoscitrice del mondo mortale, benché di esso ne sapesse poco o nulla. «I mortali amano essere cattivi e i loro bimbi amano giocare senza regole! Spingono, fanno la lotta, si arrabbiano, si graffiano! Sarà bello giocare con loro!»
«Ma Eris… come facciamo a giocare con loro?»
La Dea lanciò al gemello un’occhiata interdetta. «Che vuol dire?»
Ares scrollò le spalle. «I mortali… be’, i mortali muoiono.»
Eris si fermò. Quel pensiero, quella banale considerazione la colpì più forte del previsto: aveva completamente dimenticato che i mortali avessero una tolleranza fisica molto limitata, al punto che anche un banale colpo in testa o un affondo di coltello troppo profondo potevano ucciderli… o, perlomeno, così le era stato raccontato tempo addietro; parole che avevano all’istante suscitato la sua ilarità. Ma era il concetto stesso di morte, di trapasso, che adesso la teneva in bilico facendola sentire un po’ eccitata e un po’ delusa. Perché forse Ares aveva ragione, forse i mortali non sarebbero stati compagni di giochi adatti a loro se al primo accenno di lotta fossero stramazzati a faccia in giù, senza più fiatare né muovere un muscolo. Ma se invece fosse stata proprio la morte, quell’incognita misteriosa, a renderli i compagni di giochi migliori tra tutti?
Un sorrisetto maligno si affacciò sul viso della Dea.
Inseguire, aggredire e infine uccidere i bimbi mortali.  
Quella sì che sarebbe stata una bella botta di eccitazione; un’esperienza che avrebbe permesso loro di scoprire cosa realmente accade quando una creatura a esistenza limitata esala l’ultimo respiro… perché a riguardo i due gemellini avevano le idee molto confuse. Certo, sapevano che esisteva il Dio Thanatos, il Raccoglitore di Anime, come sapevano che esisteva Ade, l’Oscuro regnante degli Inferi, ma non avendo ancora conosciuto né l’uno né l’altro – e non avendo ancora mai assistito di persona al trapasso di un mortale - i due non sapevano cosa aspettarsi. Eppure Eris non era sicura di voler usare in quel modo i bimbi mortali; di cercarli unicamente per spaventarli e ucciderli. Giocare con loro, essere violenti tutti insieme senza paure né limiti le sarebbe piaciuto molto di più. Ma, per quanto piccola fosse, aveva già capito che in certe occasioni era meglio lasciar fare al destino e godersi la sorpresa.
«Se muoiono, muoiono» rispose facendo spallucce. «Noi giocheremo con loro finché potremo.»
«E se non vorranno giocare con noi?» domandò Ares.
«Giocheranno con noi!» replicò lei, decisa. «Li obbligheremo!»
«Non vedo l’ora!» Ares sorrise e i suoi occhi brillarono di aggressività. Trotterellò in avanti trascinandosi dietro Eris quasi fosse una parte del proprio vestiario, ma lei, invece di infuriarsi per quei movimenti bruschi, subito salterellò con lui.
Erano entrambi euforici, curiosi e affamati di esperienza, e saltello dopo saltello uscirono dalla boscaglia e si affacciarono su un sentiero; una via che, come una serpe bianca, scorreva a grandi onde sul verde dell’erba.
Lungo quella strada avrebbero trovato ciò che cercavano.
Ne erano certi.


Proseguirono per il sentiero per un po’, fin quando la foresta si aprì e un immenso prato, tempestato di fiori selvatici, apparve davanti ai loro occhi. E appena oltre quel campo, che morbidamente scendeva verso sud seguendo la curvatura di una lieve collina, ecco spuntare le mura di un villaggio; un piccolo agglomerato di case chiuso in se stesso, modesto ma molto attivo a giudicare dall’entusiasmo dei suoi abitanti. I contadini che, vanghe alla mano, si spaccavano la schiena nei campi; i carretti traballanti dei venditori, che oltrepassato l’ingresso principale si avviavano verso est in cerca di fortuna; i muratori che aggiustavano i tetti; le donne che mungevano le capre e stendevano i panni ad asciugare; i vecchi che, come gobbi spettri, si aggiravano per le case e i cortili…
Dalla cima di quel colle, Ares ed Eris riuscivano a vedere tutto.
E ovviamente, videro anche i bambini del villaggio.
Se ne stavano tutti insieme fuori dalle mura, all’ombra di un agrumeto; fanciulli dai cinque ai dodici anni circa che, lontani dal molesto via vai degli adulti, giocavano senza pensieri e senza sorveglianza. Nel gruppo vigeva l’autogestione e la regola, per i più grandi, di badare ai più piccoli. E per il momento, la situazione era molto tranquilla e tutti si stavano divertendo.
«Sono laggiù» Ares puntò il dito.
«Lo so, li ho visti. Uhmm…» Eris si afferrò il mento, pensierosa. «Così non va bene. Dobbiamo spingerli in fondo all’agrumeto.»
«Cosa? Perché?»
«Perché ora sono troppo vicini al villaggio, stupido!» La Dea diede una pacca al fratello, dietro alla testa.
«Ahia!»
«Dobbiamo spingerli in fondo, così possiamo giocare con loro senza che nessuno ci senta.»
«D’accordo!» Ares annuì e fece per scendere giù dalla collina, ma la sorella lo afferrò per il braccio.
«Aspetta! Non possiamo andare così! Scapperebbero!» Eris strizzò gli occhi, in un moto di sforzo. Le sue alette nere scomparvero; la luce dorata che le cingeva il corpo si spense. «Su! Fallo anche tu!»
Ares – che, a differenza della gemella, non aveva ali da far scomparire – si concentrò e represse il proprio bagliore divino. «Così?»
«Perfetto!» Eris sorrise. «Ora sembriamo due mortali anche noi!»
«A me non piace sembrare un mortale…» mugugnò lui, guardandosi insoddisfatto le braccia. Eris non gli diede corda. Lo prese per mano e ridacchiò eccitata, restituendogli all’istante il sorriso. Quindi i due trotterellarono giù dalla collinetta e, nascosti nell’erba alta come lupi pronti ad attaccare, strisciarono lateralmente stando attenti a non farsi vedere dagli adulti. Dovevano raggiungere l’agrumeto senza dare nell’occhio e così fecero, serpeggiando tra gli aranci e i limoni, e sbucando infine alle spalle del gruppetto di bambini.
«Ciao!» esclamò Eris, portandosi infantilmente le mani dietro alla schiena. «Vogliamo giocare con voi!»
Tutti i bambini si girarono a guardare i nuovi arrivati. I più grandi li squadrarono dalla testa ai piedi con diffidenza.
«Chi siete? Noi non vi conosciamo» disse uno di loro, un ragazzino coi capelli neri e l’aria da bullo. «Non possiamo giocare con voi.»
Ares si fece avanti, arrabbiato. «Sì che potete!»
«Andate via, stranieri» ruggì un altro ragazzo, che insieme a un amico stava giocando alla lotta con dei bastoni di legno; un gioco che invogliava da morire i due gemellini. «Ci state dando fastidio.»
Eris non si lasciò demoralizzare da quelle parole e, con aria di sfida, puntò l’indice sul fondo dell’agrumeto. «Scommetto che io e mio fratello arriviamo a quell’albero di limoni prima di voi!» gridò.
I piccoli si strinsero l’un l’altro, intimiditi da quella bimba tutta vestita di nero, ma i ragazzi reagirono diversamente, guardando prima Ares, poi lei. «Tu sei una femmina» le disse il moretto, sputando per terra in segno di disprezzo e mancando per un soffio i suoi piedi. «Noi non gareggiamo con le femmine!»
La Dea si fece nera in volto.
«Avete solo paura di perdere!» Ares sentì il sangue riempirgli la testa: quei bambini non gli piacevano per niente, come non gli piaceva il fatto che per questioni d’età fossero più alti di lui. «Cagasotto!»
«Cagasotto noi?» Il gruppetto scoppiò a ridere e, appena in quel momento, Eris notò che in esso non vi era neppure una femmina; neppure tra i bimbi più piccoli. «Possiamo battervi in qualsiasi gioco!» aggiunse il moretto.
«Avanti!» gridò Eris e la sua voce vibrò come il ruggito di un puma, al punto che tre piccini scoppiarono a piangere. «Il primo che arriva all’albero di limoni vince!»
Velocissimi, i gemelli corsero via e subito il gruppo di amichetti si spezzò: alcuni – i più responsabili e tranquilli, vale a dire la maggior parte – non mossero un muscolo e rimasero coi piccoli, mentre tre di loro, il moretto e i due che stavano giocando coi bastoni, mollarono tutto e si lanciarono all’inseguimento. Non volevano perdere per nessun motivo e, correndo come forsennati, non fecero caso a quanto si stessero allontanando dal villaggio: perché l’albero di limoni era già stato superato, l’agrumeto scomparso alle loro spalle, eppure i gemelli non si fermavano. E quant’erano veloci! Maledettamente veloci, per essere solo due marmocchietti con le gambe corte! Perdere contro di loro, per tre giovinetti sulla soglia della pubertà, sarebbe stato intollerabile.
«Chi arriva per primo a quella pietra vince!» Eris indicò una grossa roccia nel mezzo del campo, quindi lanciò uno sguardo di sfida al gemello. Scattarono entrambi, più veloci che mai. Ormai la gara era solo tra loro due ed entrambi ci tenevano a vincerla. Ed ecco che, all’ultimo istante, il giovane Dio sorpassò la sorella e si scaraventò contro la pietra.
«Ho vinto! Ho vinto!» gridò abbracciando la roccia, alta quanto lui, e subito Eris gli si schiantò sulla schiena.
«Non vale! Hai imbrogliato!» La Dea si attaccò a sua volta alla pietra, tentando di spingere via il fratello. «Mi hai quasi fatto lo sgambetto! Non è giusto!»
«Non è vero!»
«Sì che è vero!»
«No! Ho vinto perché sono più veloce di te!»
«Sei solo un imbroglione!»
Nel mezzo del loro bisticcio, i tre ragazzini si precipitarono sul traguardo. Avevano il fiatone, le guance paonazze e il corpo madido di sudore. Si fermarono, si ressero alle ginocchia per prendere fiato e, recuperate un po’ di energie, si scagliarono contro i due.
«Quanto siete stupidi!»
«Cosa pensavate di dimostrare? Eh?! Stranieri schifosi!»
«Stronzetti!»
Mani violente si serrarono sulle vesti dei gemelli e, in un batter d’occhi, i due furono scaraventati a terra.
Sconvolti e con le facce impolverate, rimasero immobili, quasi la loro mente non riuscisse a elaborare l’affronto appena subito. Quindi si guardarono e, nel vedere l’altro steso a terra, realizzarono appieno ciò che era accaduto.
Allora s’infuriarono.
«GRAAAAAHHHH!» Ares scattò per primo e mollò un pugno in faccia a uno dei bambini; un colpo che risuonò nell’aria con l’inconfondibile crack di un naso che si spezza. Il ragazzo urlò di dolore, si portò le mani al volto – che ora zampillava come una fontana di sangue – e cadde a terra privo di sensi. E mentre questo stramazzava sotto agli occhi spiritati di Ares, Eris saltava addosso al suo amichetto, lo schienava e gli artigliava la faccia; unghiate selvagge, profonde, spietate che come uncini acuminati gli devastarono la faccia. E lui gridava e piangeva, ed Eris gridava con lui, giovane e nerissima belva, finché le sue piccole dita appuntite si serrarono sul suo collo e strinsero. Strinsero. Strinsero fin quando gli occhi di lui si rivoltarono all’indietro con un rantolo e il suo corpo si fece molle come creta. Fu allora che il terzo ragazzo le si precipitò contro, atterrandola.
«BRUTTI MOCCIOSI!» gridò quello con le lacrime agli occhi, furibondo e spaventato, mentre con una mano tirava i capelli alla straniera e con l’altra le percuoteva la faccia. «Cosa credete di fare? Eh?! IO NON HO PAURA DI VOI!»
«Rrraaahhh!» Inviperita, Eris spalancò la bocca e tentò di mordere le dita che la stavano picchiando; morsi scattanti, feroci, da predatrice affamata di carne. Ma la mano del giovane andava e veniva, schiantandosi dappertutto sul suo viso, e in quel trambusto in cui i suoi canini tentavano di afferrare un pezzo del suo nemico c’era tanta, troppa stoffa: era la manica della tunica del ragazzo, che sfarfallava di qua e di là scossa dal panico e dall’ira, a riempirle a bocca. Non sarebbe riuscita a morderlo, non con quell’affare di lino che adesso quasi la soffocava. E mentre la frustrazione e l’odio la facevano bruciare, la sua natura divina esplose a dismisura dissolvendo ogni travestimento. Le ali nere si schiusero sotto la sua schiena; il corpo tornò a brillare di luce immortale. Gridò, pronta a scrollarsi di dosso l’avversario, quand’ecco che Ares glielo strappò di dosso, tuffandosi su di lui.
I due maschi rotolarono insieme, quindi il Dio – che, come la gemella, era tornato al suo caratteristico splendore – s’arrestò sopra al ragazzo. Le gambe agganciate ai suoi fianchi, come tenaglie di ferro; la bocca deformata dall’ira, in un ghigno tutto denti. Voleva spaccargli la faccia; voleva annientarlo. Alzò il braccio, per mollargli un pugno che gli frantumasse il cranio, ma il giovane – che ora piangeva e ansimava come un vitello terrorizzato – gli schiaffò una mano sul viso, oscurandogli la visuale, mentre l’altra si serrava sul suo avambraccio.
«Grrrrrr!» Ares scosse la testa per liberarsi; nel buio i suoi occhi captarono lame di luce. Tentò di picchiare il ragazzo, ma il suo pugno non scattò, limitandosi a vibrare nella stretta delle dita nemiche. Non poteva lottare così, senza vedere nulla. Allora si tirò indietro con la schiena, recuperando finalmente la visuale, e all’improvviso con la coda dell’occhio destro captò qualcosa, quasi senza accorgersene. E la sua mano capì tutto, molto prima del cervello, e come una freccia partì di lato, e quel qualcosa era un sasso, un preziosissimo, durissimo sasso
(io ti ammazzo)
e adesso ce lo aveva in mano
(ti frantumo la testa)
e nel petto gli sembrava di avere mille cuori, e tutti battevano insieme, e la sua mano stava volando, e gli occhi del ragazzo, scintillanti schegge di terrore, occhi che Ares avrebbe ricordato per tutta l’eternità, e infine il colpo! PAK! Dritto e sicuro sulla tempia. Ah, che sublime scontro fra durezze! Che schianto fenomenale! E che immenso, indescrivibile piacere tracimò nel cuore di Ares! Gli piaceva ciò che stava facendo. Gli piaceva da impazzire. E riecco la fontana color rubino, i nastri rossi, l’odore di ferro. La testa del giovane sembrava essersi aperta. Ma nonostante l’incredibile colpo subito, il poveretto era ancora vivo: lo sguardo adrenalinico; il respiro accelerato; la bocca che sputava sangue e saliva rosata. Sapeva che stava per morire e non lo accettava.
Eris si precipitò accanto al fratello e cominciò a gridare, coi pugnetti accanto alle guance. Era eccitatissima e assetata di vendetta, di dolore, di male. «Ammazzalo!» gridò saltellando. «Spaccagli la testa!»
Ares non se lo fece ripetere. Alzò il pugno e colpì il ragazzo col sasso. Pak! Pak! Pak! Pak! Una scarica di colpi tremendi, dal rumore duro e acquoso insieme, e il viso del moretto si trasformò in una maschera di sangue. Il Dio emise un gemito di sforzo, mollò l’ultima sassata – che fece scoppiare gli incisivi del ragazzo – e si fermò. La testa inclinata da un lato; il viso schizzato di sangue; gli occhi ancora fiammeggianti per il furore dell’uccisione. Osservò il suo nemico e non lo riconobbe. Il naso rotto, gli zigomi spaccati, la mascella dislocata… Su quel viso rosso sangue nulla era più dove avrebbe dovuto essere.
«È morto?» domandò Eris sporgendosi in avanti, con fare curioso.
Ares lasciò cadere il sasso, si alzò in piedi e si grattò la nuca, continuando a fissare il moretto steso a terra. Né un movimento né un gemito intercettarono la sua attenzione: quello che un tempo era stato un ragazzino vigoroso appariva ora come un grosso pupazzo con la faccia rossa e deforme. Il Dio scrollò le spalle. «Non lo so» rispose. «Credo di sì.»
Eris si voltò verso gli altri due ragazzini: quello che Ares aveva steso con un pugno e quello a cui lei aveva messo le mani al collo. Erano immobili. «Sono tutti morti» disse ridacchiando fra sé e sé. Poi raccolse da terra un bastoncino, s’inginocchiò e lo conficcò nel fianco del moretto. «Tè! Tè! Tè!» Nessuna reazione. «Oooh! È proprio morto!»
Ares si guardò le mani: erano fradice di sangue. «È stato… bellissimo!» esclamò.
«Oh, sì!» Eris prese a saltellargli davanti, come uno scoiattolo iperattivo. «Sì! Sì! Sì! Dobbiamo rifarlo! Mi piace quando i mortali soffrono! E mi piace vedere come li uccidi!»
«Anche a me piace! Voglio farlo sempre!» Ares ebbe un fremito d’eccitazione improvvisa. «Uuuh! Facciamo vedere a nostro padre quanto siamo bravi a uccidere!»
Eris arricciò il nasino. «Smettila, stupido» disse. «Sai che al vecchio non frega niente di noi.»
Ares s’intristì. «Ma io voglio fargli vedere come uccido…»
«Lascia perdere.» Eris tornò a punzecchiare il morto, stavolta in faccia. «Te l’ho detto che non gli interessa. Oh, guarda il suo naso! Gnahaha! Si è tutto spappolato!»
Il Dio si guardò i piedi. Si sentiva improvvisamente svuotato, come se tutto il piacere e l’euforia appena sperimentati si fossero disciolti nel nulla. Sbuffò, infastidito da quell’ondata di apatia che non riusciva a comprendere, e mentre era là che si guardava i sandali, i fili d’erba di fronte a lui cominciarono a fremere.
Ares sbatté le ciglia; il suo sguardo si fece più presente. Come sferzata dal vento – un vento che, però, ora non soffiava – l’erba stava sfrigolando follemente e lo stava facendo solo in quel punto, a un passo da lui.
Il Dio indietreggiò e per poco non inciampò sul corpo del moretto.
«Sta’ attento, scemo!» Eris lo colpì con una gomitata e girandosi notò a sua volta i ciuffi d’erba impazziti. «Ehi, cos’è quello?»
«Non lo so» rispose Ares e un attimo dopo erano entrambi in piedi, fianco a fianco.
«Che strano!» Eris allungò il bastoncino di legno con l’intenzione di sfiorare l’erba, quando dal basso l’aria vorticò su se stessa, addensandosi. I due ebbero giusto il tempo di sobbalzare, che il vortice d’inspiegabile vento si fece materia e un’oscura figura apparve di fronte ai loro occhi; una creatura dal volto maschile, i capelli argentati e il corpo contornato da possenti ali nere. Era un Dio. Su questo non vi erano dubbi.
Gelido e senza dire una sola parola, l’essere guardò i piccoli di fronte a sé – che con le bocche spalancate lo osservavano ammaliati, con l’indiscrezione tipica dei bambini – quindi lanciò uno sguardo al corpo steso a terra.
«Chi sei tu?» domandò Ares.
«La tua luce è strana. Non sei un Dio dell’Olimpo.» Eris allungò la manina per sfiorare l’ala della creatura, ma questa la ritirò bruscamente, rifiutando il contatto.
«Io sono Thanatos, il Nero Mietitore.» La voce del Dio risuonò bassa, come un lungo sospiro annoiato: la presenza dei due gemelli – di cui uno sporco di sangue fresco, come un macellaio – lo irritava. «Non sono una creatura della luce, ma un ministro di Ade, Signore degli Inferi, e mio e solo mio è il compito di raccogliere le anime dei defunti. Perciò non toccarmi, sciocca bimbetta, e trattami col rispetto che merito.» Detto questo, il Dio superò i due e si fermò di fronte al morto.
«Io non sono sciocca!» Eris serrò i pugnetti, offesissima. «E non sono una bimbetta! Capito?»
Ares si tuffò davanti a lei, eccitatissimo. «Q-quindi tu sei Thanatos! La Morte!» esclamò.
«È quello che ho detto» replicò l’altro, tanto glaciale quanto irritato. Quelle grida infantili gli entravano nel cervello come spilloni; suoni a cui non era abituato. Alzò la mano destra sopra il morto e distese le dita, tentando di ignorare gli schiamazzi.
«Ho sentito parlare di te! E anche di Ade!» Ares prese a trotterellare alle spalle del Dio. «Non lo abbiamo ancora incontrato, ma… sai, lui è nostro zio! Perché noi siamo Ares ed Eris! I figli di Zeus!»
«Esattooo! Zeus è nostro padre ed Era nostra madre!» aggiunse Eris col tono di chi spera, con quelle parole, di incutere profonda paura. «Non siamo due Dei qualunque!»
Thanatos scrollò a malapena le spalle, senza voltarsi. «Non m’interessa nulla di voi» rispose, e con un gesto della mano morbido ed elegante chiamò a sé l’anima dal fanciullo morto. E dalla carne questa si sollevò come uno sbuffo di fumo, riportando nel mondo una grigia e impalpabile immagine del ragazzo; uno spettacolo al quale Ares ed Eris assistettero stupefatti. Mai prima di allora i due avevano veduto l’anima di un defunto e, in quegli attimi, ne divorarono ogni particolare. Gli occhi tristi e vuoti; la pelle intatta, priva di sangue e ferite; il corpo evanescente e molle, come una folata di vapore che si rifiuta di salire e persiste nel galleggiare a mezz’aria. Come tutti i futuri sudditi di Ade, anche il moretto era pronto a seguire il suo carceriere, poiché oltre alla carne era già morta in lui ogni speranza.
«Su, spostatevi.» Thanatos allungò un’ala verso i bambini, obbligandoli a fargli spazio. «Andatevene altrove.»
«Hai visto com’è ridotta la sua testa?» Eris prese a balzellare intorno al morto. «Lo abbiamo ucciso noi, sai?»
«IO l’ho ucciso!» specificò Ares, improvvisamente arrabbiato. «E ho ucciso anche l’altro! Tu hai ucciso solo quello lì!»
«È vero, l’ho strozzato! Haha!» Eris rivolse a Thanatos un sorrisetto malvagio, tentando in ogni modo d’incontrare i suoi occhi. Ma il Dio continuò a ignorarla. «Gli ho messo le mani al collo e ho stretto forte forte, finché è morto!» La Dea mimò il gesto di strangolare, poi scaricò più volte il pugno in aria. «Questo invece lo ha ucciso Ares a sassate! Gli ha fracassato la testa così! Pem! Pem! E gli sta bene! Ci aveva chiamato stronzetti!»
«Non m’importa.» Thanatos arricciò l’indice e avvicinò l’anima a sé, mostrando interesse solo per il proprio lavoro. Poi espanse la propria energia e di nuovo i fili d’erba cominciarono a sfrigolare.
«Ehi, aspetta!» Ares capì per primo che il Dio stava per scomparire e tentò di prenderlo per il braccio; un contatto che Thanatos evitò per un soffio. «E le anime di quelli? Non le prendi?»
«No.» Il viso del Mietitore s’indurì: la sua pazienza stava venendo messa a dura prova. «Quei due non sono ancora morti, perciò restano qua.»
«Ma che dici?!» Eris si precipitò dal bambino che aveva soffocato, s’inginocchiò e gli posò una mano sul petto. Pochi attimi e la piccola Dea capì che Thanatos aveva detto il vero: il cuore del ragazzino pulsava ancora, seppure debolmente. «Ma… l’ho strangolato fortissimo…»
«Anche lui è ancora vivo!» Ares, inginocchiato accanto al bimbo a cui aveva spaccato il naso, si voltò a guardare Thanatos. «Respira ancora, ma non si sveglia.»
«Si sveglieranno entrambi. Oppure moriranno a breve, per i traumi riportati. In ogni caso non è un problema vostro.» Di nuovo, il Dio fece per andarsene, sprofondando nella sua stessa oscurità insieme al suo prigioniero.
«Ehi! Aspetta!» gridò Eris.
«Non te ne andare!» le fece eco Ares ed entrambi si precipitarono da lui.
«Smettetela di tediarmi, o figli di Zeus!» disse il Dio. «Mi avete fatto perdere fin troppo tempo.»
«Portaci con te!» urlò Eris, riuscendo finalmente ad afferrargli l’ala. «Vogliamo vedere gli Inferi!»
«Uuuh! Sì, ti prego!» Ares si fece conquistare immediatamente dall’idea di visitare l’Oscuro Regno, benché non vi avesse mai pensato prima di quel giorno. «Non abbiamo mai visto il mondo dei morti! Lasciaci venire con te! Così potremo conoscere anche lo zio Ade!»
«Allontanatevi.» Thanatos si scrollò i piccoli di dosso e mostrò loro il palmo della mano, con l’autorità di un sovrano spietato. «Piccoli selvaggi, ascoltate queste mie parole e memorizzatele una volta per tutte. Nessuno, ad eccezione dei defunti, può discendere nel Regno delle ombre fianco a fianco con me, fosse anche un figlio di Zeus Cronide. Perciò, se desiderate camminare sulla fredda terra infera convinti di trovare in essa un nuovo luogo in cui giocherellare, andate pure, ma per conto vostro.»
«E come facciamo ad arrivarci?» domandò Ares.
«Dove dobbiamo andare? Noi la strada non la conosciamo!» borbottò Eris.
«Il Regno delle ombre ha molti ingressi, tutti impervi e sconosciuti ai mortali.» Thanatos puntò il dito verso ovest. «Là per esempio, oltre le rive del Nestos, dove la montagna incontra la pianura, vi è una piccola grotta. Il suo ingresso è celato dai rovi, e buie e tortuose sono le sue viscere di pietra. Andate alla sua ricerca. Se desiderate trovarla, la troverete, ed essa vi condurrà fino alle sponde dell’Acheronte, nella Terra dei defunti che tanto agognate visitare.» Così parlò il Dio e, avvolto dalla sua stessa ombra, sprofondò nel terreno insieme al suo prigioniero, senza lasciare traccia.
I due gemelli rimasero immobili per qualche momento, ipnotizzati dal modo in cui il Mietitore era appena passato dall’altra parte della terra.
Si guardarono.
«Quant’è odioso questo Thanatos!» mugugnò Eris, con le manine sui fianchi. «Si crede chissà chi!»
«E ora che facciamo?» Ares si strofinò il naso con la manica della tunica: il sangue del mortale si stava seccando e cominciava a dargli fastidio. «Non è giusto! Io ci voglio andare negli Inferi!»
«Ah, ma ci andiamo! Eccome se ci andiamo! Qui non abbiamo più nulla da fare.» La Dea sferrò un ultimo calcio alle costole del ragazzo che aveva tentato di soffocare. Poi prese il gemello per mano e lo trascinò via con sé. «Su! Andiamo a cercare la grotta!»
«Che bello!» esclamò l’altro. «Non vedo l’ora vedere tutti quei morti! E lo zio Ade! Chissà se sarà contento di conoscerci…»
«Pfui! Io voglio solo esplorare gli Inferi. Non mi frega niente di quell’ammuffito dello zio Ade!»
«Sei sempre così cattiva…»
«Sei tu che sei un rammollito.»
«Non è vero! Ho ucciso a sassate quel bambino, quindi sono forte! Tu invece sei una rammollita! Non sei neppure riuscita a strangolare quell’altro!»
«Perché tu mi hai distratto con le tue lagne!»
«Non è verooo!»
«Su, muoviti lagnoso, se no alla grotta non ci arriveremo mai!»
«Tu muoviti…»
Spintonandosi a vicenda e riprendendosi per mano poco dopo, i due proseguirono il loro cammino alla ricerca dell’ingresso per gli Inferi e, senza mai perdere il proprio entusiasmo, vagarono per le foreste della Tracia giorno e notte, con la pioggia e con il sole, come due piccoli e coraggiosi eroi che nessuno avrebbe mai potuto fermare. E una fresca mattina di luce, mentre a ginocchia alte stavano avanzando tra il fogliame, un profumo zuccherino attirò la loro attenzione.
I due alzarono il mento, come due cani in allerta. Inspirarono a fondo. Aroma di rovi, more, lamponi: una fragranza inconfondibile. Seguirono la scia, strisciando come lucertole tra roccia e arbusti, finché le loro mani non incontrarono delle spine. Ritirarono di scatto le dita, come se avessero appena sfiorato qualcosa di incandescente, e un attimo dopo sobbalzarono stupiti. Dietro il groviglio di rovi e more che li aveva punti vi era un buco nero; una cavità oscura, che si apriva nella roccia come una bocca deforme e mostruosa il cui grido sembrava ancora risuonare nelle sue nere fauci. Non era enorme, ma era grande a sufficienza da permettere a due persone adulte – forse anche a tre – di penetrarla senza difficoltà, e celata com’era dal fogliame e dai rovi appariva ancora più spaventosa: uno di quei luoghi così lontani dalla luce in cui potrebbe celarsi qualsiasi essere. E che odore strano saliva da laggiù! Odore di nebbia, polvere, acqua stantia… Il puzzo del ristagno eterno.
Eris sorrise, staccò dai rovi un paio di more e le mangiò. «Caro Ares, abbiamo trovato la grotta!» dichiarò masticando a bocca aperta.
Il Dio sorrise a sua volta e imitò la gemella, mangiucchiando qualche frutto con la medesima rozzezza e spalancando la bocca non appena lei, per disgustarlo, gli mostrò il contenuto della propria. Ridacchiarono entrambi, quindi raccolsero dei grossi sassi da terra e squarciarono la rete di rovi e fogliame; l’ultima vera barriera rimasta tra loro e ciò che si celava dall’altra parte. Infine si diedero la mano ed entrarono nella grotta, lasciandosi inghiottire dalla sua oscurità.

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