Come un lungo intestino roccioso, la
galleria per gli Inferi si snodava sotto il volto di Gea scendendo sempre più
giù, negli abissi scuri e inviolati, e non passò molto prima che Ares ed Eris
si trovarono a strisciare sui gomiti, tra guano di pipistrello e pozze d’acqua
gelata. Il cunicolo era tortuoso, più di quanto i due avessero pensato, e si
stringeva in più punti come una gola nell’atto di deglutire; punti in cui le loro
vesti si lacerarono e le braccia si graffiarono, lasciando tracce d’icore d’oro
sulle pareti della roccia. Ciononostante i due proseguirono sempre con
entusiasmo – Ares in testa ed Eris suo malgrado dietro, che smaniava per
sottrargli la prima posizione non appena la galleria si fosse allargata a
sufficienza – e in quei budelli rocciosi, nei quali echeggiava l’eterno
gocciolio dell’acqua, i gemellini ebbero più di un incontro con la fauna
locale. Grossi coleotteri ambrati, ragni dalle zampe sottili come capelli,
scolopendre, scorpioni… Di tanto in tanto, sulle pareti del cunicolo zampettava
una lucidissima creatura delle caverne ed Ares ed Eris avevano giusto il tempo di
percepire la sua presenza, che questa spariva in qualche interstizio.
Non
erano soli là sotto, e più scendevano più avevano l’impressione di stare
attraversando un nuovo regno, a metà strada tra quello dei vivi e quello dei
morti: il regno degli insetti, degli aracnidi e dei millepiedi. Perché di
quelle bestiacce ce n’erano tantissime, pronte a sfrecciare da una parte all’altra
per poi nascondersi nelle fenditure della pietra. Ma i due non avevano paura.
Anzi. Quel nuovo ambiente, che qualsiasi altro bambino avrebbe considerato
ostile e pauroso, stimolava la loro curiosità, e quando la galleria si allargò
di nuovo presero a gattonare fianco a fianco, veloci come ratti, finché non si
affacciarono su uno spazio nuovo: un’area di roccia densa in cui si alternavano
alte colonne di calcare, simili a torri di fango bianco; formazioni bizzarre,
che dal basso salivano a unirsi al soffitto, una volta compatta dalla quale
pendevano come lembi di stracci migliaia e migliaia di stalattiti.
Era
un luogo dentato, aguzzo, costellato di pozze d’acqua e stalagmiti dalle sagome
insolite: alcune di esse si elevavano da terra come falli di pietra; altre, più
grosse e larghe, si ergevano sgraziatamente, simili a statuette informi o idoli
melmosi squagliati dal sole. E tra quelle zanne di pietra, che come lame
gocciolanti fendevano l’aria da parte a parte, l’odore di acquitrino serpeggiava
sempre più intenso; un alito freddo che saliva dal fondo e che, complici
l’umidità e gli abiti fradici, offrì più di un brivido ai due piccoli
esploratori.
«Ehi,
Eris! Guarda!» Ares s’inginocchiò di fronte a una pozza d’acqua, vi ficcò la
mano dentro ed estrasse un proteo: una bestiolina color carne, col muso stretto
e il corpo sottile come quello di un serpente. «Che animale buffo!»
«Cos’è?
Una lucertola?» Eris tese la manina verso l’animale e lo afferrò per la testa,
per guardarlo meglio.
«Che brutto!
Non ha gli occhi!»
«Oh,
è vero!» Ares tirò bruscamente il proteo verso di sé e, bagnato com’era, questo
scivolò via dalle dita di Eris. Fu una fortuna: con la loro irruenza i
gemellini avevano rischiato di spezzarlo in due. «E come fa a vedere se non ha
gli occhi?» domandò il Dio.
«Boh!
Forse ce li ha da un’altra parte, non sulla testa. Fammi vedere!»
«No!»
Ares allontanò l’animale dalle grinfie della sorella. «Voglio tenerlo io! Tu lo
uccidi!»
«Brutto
stupido! Voglio solo vederlo!»
«È
mio!»
«Dammelo
subito o giuro che lo ammazzo!»
«No!»
I
due presero a saltarsi addosso l’un l’altro litigandosi il proteo, e in quella
zuffa Ares urtò col gomito uno spuntone di roccia e si tagliò. Allora lanciò
l’animale in faccia alla sorella.
«Ecco!
Prendi! Contenta?» gridò.
Eris,
sorpresa dal gesto ma per nulla schifata, prese il proteo con entrambe le mani,
lo guardò col massimo del disinteresse e lo gettò in una pozza. Quindi
raggiunse il fratello, lo agguantò per il braccio e appena allora si accorse
che stava sanguinando. «Te l’ho fatto io?»
«No…
anzi, sì!» Ares le lanciò un’occhiataccia. «Mi hai spinto contro la roccia!»
«Smettila
di piagnucolare» Lei gli pulì la ferita con l’orlo della veste. «È solo un
graffio.»
«Non
sto piagnucolando!»
«Sì,
invece. Sei un lagnoso…»
Ares
si lasciò asciugare il sangue, più per desiderio di attenzioni da parte della
sorella che per reale necessità, quindi i due si ripresero per mano e
proseguirono il cammino tra le colonne di calcare, fin quando la terra cominciò
a inclinarsi verso il basso, spingendoli in una pericolosa discesa tra
stalagmiti e lastre di roccia scivolosa.
Erano
come due lucine gettate in un pozzo, che con la loro luce obbligavano
l’oscurità a indietreggiare, a far loro spazio. E quelle tenebre nere – il buio
più denso in cui i due si fossero mai trovati immersi – arretravano sempre e
contemporaneamente chiudevano l’abbraccio alle loro spalle, quasi volessero far
dimenticare loro la strada del ritorno e trattenerli laggiù in eterno. Eppure
l’atmosfera di quell’abisso incorrotto era magica, tutt’altro che spaventosa:
colpite dal bagliore, le stalattiti brillavano come gioielli appesi al soffitto
e le loro ombre – insieme a quelle più paffute delle stalagmiti – danzavano
allegramente sulle pareti al passaggio dei figli di Zeus.
Ma
presto la magia del luogo cominciò a spegnersi. Le stalattiti si diradarono
fino a scomparire; le pareti rocciose, come in preda a un’involontaria
contrazione muscolare di Gea, si restrinsero incuneandosi in una galleria quasi
verticale: un esofago buio e profondo, spaventoso come la più nera delle
voragini.
Ares
ed Eris non si persero d’animo e, aggrappati alla roccia come due gechi,
continuarono la loro scalata al contrario, alla conquista degli abissi
infernali. Sapevano di essere vicini, lo sentivano dall’aria; quell’aria umida
e corposa che, come un antico vapore, saliva dalle profondità della voragine
raffreddando i loro polmoni.
Ormai
ne erano sicuri: là sotto c’era dell’acqua.
Ma
così com’erano certi della sua presenza, erano altrettanto certi che quella non fosse l’acqua che conoscevano. E
neppure la pietra grigia – su cui ora Ares strisciava con cautela stando
attento a non scivolare, mentre Eris, stufa di arrampicarsi, gli volava accanto
come un pipistrello – era la pietra alla quale erano entrambi abituati. Piccoli
e inesperti com’erano, non avrebbero saputo dire con esattezza cosa di essa
fosse cambiato, ma a riguardo il loro istinto parlava chiaro: la roccia, quella roccia, era differente da quella
in superficie e, oltre a essa, tutto là sotto aveva subito un mutamento, assumendo
i tratti di un luogo deserto e inospitale; un ambiente umido eppure al tempo
stesso arido, privo di qualsivoglia forma di vita. E, del resto, da quanto
tempo i due non incrociavano sulla propria strada un insetto, uno scorpione o un
proteo serpeggiante? Persino il gocciare dell’acqua dal soffitto, che
dall’inizio del loro cammino aveva echeggiato senza sosta, si era zittito e ora
nella voragine rimbombava solamente il silenzio della desolazione; un silenzio surreale
che sapeva di morte, di sterilità, di angosciante ed eterna stagnazione.
Il
confine tra i due regni era stato oltrepassato. La vita, coi suoi mille colori,
suoni e profumi, era rimasta indietro.
Ares
ed Eris scesero ancora, senza mai fermarsi, fin quando la gola cominciò a
curvare e a farsi di nuovo orizzontale, come la più ordinaria delle gallerie.
Allora videro una strana luce grigia provenire dal fondo, una specie di smorto
barlume nell’incavo della pietra: era la fine del tunnel.
Come
colti da inaspettata pazzia, i traci si lanciarono in una corsa mozzafiato,
tentando ardentemente di superarsi a vicenda
(Prima io!)
(No, prima io!)
finché
l’oscura caverna scomparve alle loro spalle.
Erano
fuori.
Non
sorrisero neppure per il traguardo raggiunto, che appena usciti s’arrestarono
bruscamente. Le bocche spalancate per lo stupore; le testoline rovesciate
all’indietro; le narici dilatate, sopraffatte dall’odore di umido, di gelida terra
e fiumi sconosciuti…
L’Oltretomba,
col suo grigiore spettrale, si rivelò a loro con austera solennità, mentre la
nebbia si distendeva nell’aria come una tossina fino a lambire i loro piccoli corpi.
Ares ed Eris sventolarono distrattamente la mano davanti al viso, tentando di
diradare la foschia, poi lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi, persi
nella contemplazione del mondo.
Si
trovavano in una radura dall’aspetto sofferente, incorniciata da sporadiche
chiazze di erba e arbusti color cenere del medesimo colore del terreno: uno
spiazzo sul quale sembravano essersi accaniti per lungo tempo venti polverosi,
sporchi, cinerei, il cui soffio martoriante aveva velato di grigio ogni cosa. E
più si guardavano intorno, più i due faticavano a trovare in quell’ambiente un
elemento che spiccasse per la brillantezza dei suoi colori, fosse anche un
minuscolo fiore o una foglia striminzita. Ma la vegetazione, tutta la
vegetazione, era così grigia da sembrare un’ombra; un’imitazione malriuscita
del verde volto di Gea, così squallida e deprimente da dover essere tenuta nascosta
nelle viscere della Dea come un’intima vergogna. Persino il cielo – quel cielo
nuvoloso e compatto che i gemellini proprio non riuscivano a smettere di
guardare – era plumbeo e tetro come una sconfinata cappa di fumo, ma a renderlo
così magnetico agli occhi dei due non era tanto il suo colore, quanto piuttosto
la sua stessa presenza.
Si
erano avventurati nel recondito ventre della terra, senza mai indietreggiare né
risalire. Come poteva esistere un cielo sopra le loro teste? Si trovavano
davvero in uno spazio aperto o quella sottospecie di volta celeste che si
estendeva a perdita d’occhio sopra di loro era, in verità, un’illusione ottica
causata dalla nebbia? Del resto, in certi punti terra e cielo parevano essere
un tutt’uno, tanto simili erano i loro colori e collosa la foschia che
galleggiava nell’aria, e ciò poteva spingere l’esploratore a immaginare – quasi
a vedere – il soffitto roccioso che
si celava lassù, appena oltre la bruma.
Ma
Ares ed Eris non potevano credere di essere finiti in una gigantesca cavità
rocciosa, con tanto di soffitto gocciolante e probabili stalattiti. No. Neanche
a parlarne. Quello era un cielo. Un cielo malato, triste, a tratti bianchiccio
e a tratti grigiastro, ma pur sempre un cielo degno di questo nome. E così come
credettero alla sua esistenza, così i due accettarono anche l’inaccettabile,
ovvero la presenza della terra sopra di esso. Era una realtà che non potevano
negare, non dopo tutta la strada che avevano percorso in ripida discesa, giù
per gallerie e voragini spaventose; non dopo tutta la pietra che si erano
lasciati sopra la testa: là in alto, in modi che non riuscivano ancora a
comprendere, la terra copriva il cielo dando vita a una versione rovesciata –
o, per meglio dire, specchiata – del
Regno dei vivi. E che ciò fosse vero i due lo avvertirono nel petto, ora più
che mai appesantito da una sensazione di oppressione, di prigionia, di schiacciamento.
Erano
all’aperto, eppure sepolti.
«Che
strano qui...» Ares si grattò la testa, poi staccò una foglia da uno degli
arbusti. La guardò. «Sembra tutto morto.»
Eris
gli strappò la foglia di mano, la guardò a sua volta e l’annusò. «Non sa di
niente» disse gettandola per terra, e fece una piccola smorfia. Era indecisa:
non sapeva ancora se quel luogo spoglio e grigio le piaceva moltissimo o la
infastidiva. «Io voglio vedere i morti. Dove sono?»
«Buh...»
Ares scrollò le spalle. «Qui non c’è nessuno…»
«Devono
esserci! Siamo negli Inferi!»
«Forse
sono oltre quei cespugli…»
I
due s’incamminarono tra le erbacce e gli arbusti e proseguirono dritti per
quella direzione, fin quando il paesaggio mutò e alberi scheletrici comparvero
in ogni dove: piante nere, storpie, con rami lunghi e contorti che si
stagliavano sul grigio del cielo come vene. E mentre quel mostruoso boschetto scorreva
loro intorno, un suono conosciuto si fece strada nelle loro orecchie, facendosi
sempre più vicino.
«Ehi,
cos’è questo rumore?» domandò Ares, un attimo prima che lo facesse la sorella.
«Sembra…»
«È
il rumore di un fiume!»
I
due aumentarono la propria andatura fin quasi a correre. E più si avvicinavano,
più sentivano lo sciacquio intensificarsi, e si stavano ancora affrettando
quand’ecco che l’ossuto boschetto di alberi si aprì e un enorme fiume, torbido
come il cielo, comparve di fronte a loro.
Si
bloccarono di colpo e per un soffio non finirono in acqua.
«Woah!» Il Dio agitò le braccine e
recuperò l’equilibro, quindi si aggrappò alla sorella e con lei fece un passo
indietro. «C’è mancato poco!»
Eris
ridacchiò. «Stavi per finire annegato!»
«Anche
tu!»
«No,
io no. Io avrei volato.»
«Bugiarda!
Non avresti fatto in tempo.»
«Sì,
invece.» Eris gli diede uno spintone, poi avanzò di nuovo di un passo e osservò
meglio il corso d’acqua appena scoperto. Era una massa liquida immensa, che
scorreva fiaccamente da est a ovest senza creare neppure uno spruzzo di
schiuma; un fiume dall’aspetto cadaverico, che più che d’acqua sembrava essere
composto di nebbia, tanto opprimente e densa era la foschia che volteggiava sulla
sua opaca superficie.
«Non
ho mai visto un fiume così» disse Ares, riavvicinandosi alla gemella. «Sembra
sporco.»
Eris
s’inginocchiò e sprofondò il braccino nella nebbia fino a sfiorare l’acqua. «È
freddissimo…» Sventolò la mano sottacqua per qualche istante, poi la ritirò e
si guardò le dita. «Che strana sensazione…»
«Cosa
intendi?»
«Be’...»
La Dea si rialzò. Aprì e chiuse il pugnetto più volte. «Ti ricordi quando mi
sono seduta sul tuo braccio mentre dormivi e quando ti sei svegliato non lo
sentivi più?»
«Certo.»
«È
una sensazione simile. Questo fiume non è come i nostri. Mi ha addormentato la
mano.»
«Forse
è solo molto freddo…»
«Areees!
Questo è un fiume infernale! Può essere che-» Eris s’interruppe e si guardò
intorno. Era interdetta come se qualcuno le avesse appena battuto l’indice
sulla spalla. «Cos’è questo rumore?»
«Quale
rumore?»
«Sssh. Ascolta.»
Ares
tese l’orecchio e subito colse un suono in lontananza, sovrapposto al lento
sciacquio del fiume; un rumore brulicante, simile a un lamentoso ammassamento
di voci, sospiri e singulti di pianto.
«Viene
da là!» Il Dio indicò l’ovest. «Forse sono i morti…»
«Andiamo
a vedere!»
Trotterellarono
lungo la riva del fiume, tra flaccidi giunchi e alberi striminziti, e man mano
che avanzavano il corso d’acqua accanto a loro si faceva sempre più tumultuoso.
E ora sì che schiumava; ora sì che ruggiva e si flagellava e grattava la terra,
potente come un Dio affamato di distruzione. Eris si fermò un istante a
guardarlo. Il suo fiato umido e freddo, tutt’uno con la nebbia, le inumidì le
gote; il fragore delle acque, quel grido terrificante che sembrava ordinare a chiunque lo udisse di
buttarsi tra i flutti e sprofondare, gridare e soffocare per l’eternità, le si
impresse nella memoria come una musica impossibile da dimenticare. Violenza,
male, dolore, oblio… Gli Inferi erano saturi d’ogni genere di energia oscura e lei,
creatura maligna, cominciava a subirne il fascino.
Sorrise
e raggiunse il gemello, e insieme i due zampettarono costeggiando la riva
quando, superata un’ampia curva del fiume, il brusio esplose e una folla comparve
davanti ai loro occhi; la folla più gigantesca e brulicante che avessero mai
visto.
«I
morti!» gridò Ares. «Li abbiamo trovati!»
«Quelli sono i morti?» domandò Eris,
improvvisamente scettica.
«Be’…»
Il Dio si grattò la testa. «Credo di sì…»
I
due si scambiarono uno sguardo indeciso e tornarono a osservare la massa
d’individui che si accalcava sulla riva. Era una folla variegata composta da uomini,
donne, vecchi e bambini che, schiacciati l’uno sull’altro come bestie da
macellare, gemevano e si torcevano i capelli in preda a una statica
disperazione; e grigi erano i loro volti, grigie le loro tuniche, e nel fitto di
quella massa dall’aria polverosa tutto sembrava assottigliarsi e poi
sdoppiarsi, in un insolito gioco di trasparenze.
Erano
corpi solidi eppure al tempo stesso non lo erano, e fu proprio quell’effetto,
quella velata trasparenza di carni e vesti a convincere definitivamente i figli
di Zeus.
«Sì,
sono i morti! Sono sicura!» sentenziò Eris, saltellando sul posto. «Sono troppo
strani per essere persone normali!»
«Sono
così grigi e brutti...» aggiunse Ares.
«Vieni!
Andiamo a vederli da vicino!»
I
gemellini si fecero avanti e in pochi istanti la folla li avviluppò,
ingoiandoli al proprio interno. Il cielo sopra le loro teste si rimpicciolì; tuniche
pallide – alcune d’eccellente manifattura, altre logore come stracci da lavoro –
riempirono loro la visuale, accavallandosi l’un l’altra in prospettiva come
sottilissime ali di farfalla. Erano dentro al vortice, risucchiati dal vortice,
ma nessuna di quelle creature dal viso smunto e stanco osò sfiorarli, e nel
vederli arrivare tutte si scansarono con riverenza, mentre il divino bagliore si
distendeva sui loro corpi come una carezza. E in quei brevi momenti di
vicinanza, nuove lacrime colavano sulle guance dei morti, ora più che mai
stremati dall’amore per quella luce d’oro che sapeva di sole, di vita, di
felicità perduta per sempre; e più questi piangevano, più Ares ed Eris li
osservavano, sfilando a mento alto tra loro come principini curiosi.
Al
pari del cielo che premeva sugli Inferi, anche quegli esseri apparivano come
imitazioni scolorite di ciò che erano stati un tempo e persino la loro voce – quel
piagnucolio perpetuo che ora quasi assordava i due Dei – si trascinava nell’aria
come un suono anomalo, alieno, nauseante nella sua mancanza di passione;
un’ombra sonora che solo in una landa desolata come quella avrebbe potuto
risuonare. E mentre erano intenti ad aprire in due la folla, senza ancora
sapere dove stessero andando, Ares ed Eris raggiunsero le prime file
riaffacciandosi sul fiume, e là si fermarono, di nuovo vittime dello stupore.
Una
barca di legno scuro, simile a una grossa zattera, oscillava follemente tra i
flutti, a un passo dalla riva. Era carica di defunti e molti altri vi stavano ancora
salendo, mentre nelle torbide acque del fiume schiere di poveretti nuotavano
qua e là senza meta, apparendo e scomparendo secondo il volere delle onde. E in
mezzo a quella calca – dove tutti piangevano e guardavano con occhi lucidi ora
la chiatta, ora i disperati che vagavano nel fiume – un uomo alto e anziano svettava
sulla barca con spropositata autorità, come il più antico e rispettato dei
navigatori.
Era
pallido, d’un bianco quasi accecante, e bianchi e fini come ragnatele erano i
capelli che gli frullavano intorno alla testa, tormentati dal vento. Avrebbe
potuto essere più vecchio della terra e degli oceani; più vecchio del tempo e
della vita stessi, un essere che esisteva da sempre e che per sempre sarebbe
esistito. Eppure non era decrepito. Le sue braccia erano lunghe e muscolose; il
torace rugoso ma robusto; le gambe dritte e ben salde sulla barca, quasi le
loro fibre fossero intrecciate a quelle del legno. Stringeva nella mano destra un
lungo remo, che rimestava tra le onde nel tentativo d’impedire alla chiatta di
allontanarsi dalla riva, e mentre lo affondava nell’acqua prendeva a male
parole tutti coloro che lo circondavano.
«Muoversi,
muoversi!» gridava sventolando la mano libera davanti al passeggero che aveva
di fronte, come se volesse farsi consegnare qualcosa che non necessitava di
alcuna spiegazione, e dopo un fugace contatto tra palmi, il poveretto
s’imbarcava e la scena si ripeteva col defunto successivo. «Avanti! Datevi un
mossa! Non ho m-»
L’anziano
uomo s’interruppe; i suoi occhi torvi e incattiviti si accesero di meraviglia,
ma fu solo un momento e il suo sguardo si rimpicciolì di nuovo. «Voi! Figli della luce!» tuonò,
imbarcando in malo modo l’ennesimo disgraziato. «Tornatevene da dove siete
venuti! Questo non è posto per voi!»
Ares
ed Eris si scambiarono un’occhiata imbronciata: quel vecchio era
incredibilmente irrispettoso.
«Siamo
qui per visitare gli Inferi!» rispose la Dea, col suo solito tono strafottente.
«Abbiamo
fatto tantissima strada, giù per gallerie e buchi schifosi, e non ci fermeremo
di certo adesso!» aggiunse Ares, portandosi le mani ai fianchi come un piccolo
comandante militare.
«Sciocchi
poppanti…» L’uomo rigirò con forza il remo tra le acque, che impenitenti
cercavano di far capovolgere la barca. «Questa è la soglia del regno di Ade,
non un campo da gioco per mocciosi che non hanno di meglio da fare! E ora via!
Lasciatemi lavorare in pace!»
«Noi
non siamo mocciosi!» Eris ingrossò le ali piumate: sentirsi dare della bimbetta
la faceva sempre infuriare. «Tu, piuttosto! Chi credi di essere per parlarci
così?»
«IO SONO CARONTE! IL TRAGHETTATORE DEI
DEFUNTI!» L’uomo gridò così forte e con così tanta rabbia che i due
gemellini sobbalzarono, e per un istante tutte le anime accalcate lungo la riva
trattennero il loro pianto. «Sono io, instancabile nocchiero, a condurre le
ombre da una sponda all’altra dell’Acheronte, là dove il Grande Adunator di
Popoli le attende! Perciò aprite bene le orecchie, o marmocchi arroganti! Non
vi è altro modo per giungere nel cuore degli Inferi se non salendo su questa MIA barca e io non ho nessuna intenzione
di prendervi a bordo! Perciò andatevene!»
Ares
ed Eris si guardarono di nuovo e, nel vedere che l’altro non era affatto
intimorito né stava pensando di desistere dall’impresa, tornarono alla
carica.
«Così
tu sei Caronte. Uhmm… non è la prima volta che sento questo nome.» Eris si
stropicciò il mento con la manina. «Qualcuno deve avermi parlato di te una
volta. Buh, non ricordo.»
«Hai detto che gli Inferi si trovano
dall’altra parte…» Ares fece una smorfia poco convinta. «Io vedo solo nebbia.»
«Già!
Non è che ci stai prendendo in giro?»
«Quanto
è largo il fiume?»
«Andatevene via!» Caronte caricò sulla
barca un vecchio calvo e curvo – che per poco non inciampò sulle assi sconnesse
del fondo, nella noncuranza generale – quindi schiaffò il palmo della mano
davanti alla faccia dei poveretti che si stavano apprestando a salire. La
chiatta aveva raggiunto la sua capienza massima e, pronto a partire, il
traghettatore affondò il remo in acqua fino a toccare il fondale e su di esso
fece leva per allontanarsi dalla riva.
«Ehi,
aspetta!» gridò Eris. «Non te ne puoi andare!»
«Devi
farci salire!» esclamò Ares.
«Tu
puoi volare. E tu puoi nuotare.» Il nocchiero lanciò uno sguardo fiammeggiante
ai due piccoli, continuando a rimestare il remo tra i flutti. «Se davvero
volete andare dall’altra parte, fatelo, avanti. Sfidate la sorte.»
Ares
guardò l’acqua grigia e fumosa. Deglutì. «Ma… non posso nuotare così. Ci sono
troppi gorghi, troppa nebbia…»
«E io non posso volare senza vedere dove
vado!» Eris batté i piedi a terra, con le guance paonazze per la rabbia. «DEVI
farci salire sulla tua barca!»
«UN OBOLO D’ORO!» Caronte si sporse dalla
prua della barca e allungò una mano verso i due. «È questo il prezzo da pagare
per il passaggio da una sponda all’altra dell’Acheronte. Un obolo d’oro!»
Ares
ed Eris presero a balbettare all’unisono, completamente spiazzati da quella
richiesta. «Ma… noi…»
«Solo
chi paga ha il diritto di salire. Allora? Ce lo avete l’obolo?» li incitò il
barcaiolo.
«Noi
non abbiamo niente» rispose Ares, scrollando le spalle. «Non sapevamo che-»
«Lo
immaginavo.» Caronte tornò ad accanirsi con il remo contro il fondale, stavolta
con più fretta. Per i suoi gusti, quella situazione era durata fin troppo.
«Mocciosi molesti…»
«Ma noi siamo figli di Zeus!» gridò Eris,
furibonda.
«Noi
possiamo anche non pagare!» aggiunse Ares.
Caronte
si fermò. Avrebbe giurato che i due fossero figli di qualche Dio minore e
insignificante, che sulla Sacra Montagna non aveva neppure mai messo piede, ma quelle
parole insinuarono il dubbio nella sua mente, costringendolo a muoversi con
cautela. «Non siete figli di Zeus…» sibilò, strizzando entrambi gli occhi.
«Sì
che lo siamo!» replicò Ares, quasi offeso. «Siamo figli di Zeus ed Era.»
«E
loro si arrabbieranno moltissimo
quando sapranno che non ci hai fatti passare!» aggiunse Eris.
Il
barcaiolo si appoggiò al remo e si sporse come non mai dalla prua, per guardare
meglio i bimbi. Non somigliavano né a Zeus né a Era: i loro capelli erano troppo
scuri; gli occhi ambrati come quelli di due vipere. Eppure nei loro modi vi era
qualcosa di estremamente familiare, che li faceva apparire un perfetto connubio
dei due figli di Crono, malgrado la misera somiglianza fisica. Forse era la
determinazione con cui il maschietto si ergeva con le mani sui fianchi e il
volto contratto in un cipiglio di prepotenza, che già permetteva d’intravedere
il Dio adulto e virile che sarebbe diventato a breve; o forse era quella specie
di ghigno sul viso di lei, quella smorfia di odio puro che rivelava un’indole
vendicativa, spietata e implacabile che era meglio non scatenare. Fatto sta che
Caronte prese la sua decisione.
«E sia!» ringhiò, più incarognito che mai.
«Per questa volta farò un’eccezione, così almeno la smetterete di angustiarmi! Ma
sbrigatevi a salire, prima che cambi idea!»
Ares
ed Eris sorrisero e balzarono immediatamente sulla prua della barca, trovandosi
fianco a fianco col burbero nocchiero. Avrebbero volentieri fatto a meno di
quella promiscuità, ma nessuno dei due aveva intenzione di farsi indietro e
lasciarsi schiacciare dal carico di morti piagnucolanti, così accettarono quel
compromesso. Caronte, dal canto suo, li guardò a malapena e con un colpo di
remo staccò la chiatta dalla riva e la condusse tra i flutti turbolenti.
Per
i due bimbi furono attimi incredibilmente eccitanti. L’Acheronte spumeggiava
con rabbia, quasi fosse in ebollizione, e le sue mille correnti scuotevano la
barca con così tanta violenza da far scricchiolare le vetuste assi di legno. Si
sarebbero capovolti, Ares ed Eris se lo sentivano nel midollo, come sentivano
che alla prossima onda la chiatta si sarebbe spaccata in due, vinta dal vigore
di quei bruschi scossoni. La piccola Dea, in particolare, era così certa
dell’imminente distruzione della zattera che già teneva le alucce sollevate e
la mano avvinghiata al polso del fratellino, pronta a spiccare il volo per
salvare entrambi dalle avviluppanti acque dell’Acheronte. E mentre i due trattenevano
il fiato, chiedendosi quanto largo potesse essere quel fiume che ora sembrava
quasi un mare in tempesta, il barcaiolo vogava e vogava, spingendo la barca
sempre più avanti, nella nebbia accecante.
Non
era spaventato da quei continui sobbalzi né lo inquietava il modo in cui il
legno sotto ai suoi piedi gracchiava, mescolandosi al pianto dei morti. Tutto
era esattamente come avrebbe dovuto essere, né più né meno, e neppure la più insignificante
delle onde riusciva ad anticipare il suo istinto, che le innumerevoli
traversate avevano temprato al punto da permettergli di prevedere ogni singolo
scossone, ogni scricchiolio, ogni spruzzo di schiuma. Con quel fiume, Caronte
aveva sviluppato un segreto e profondo legame, che neppure il Dominatore degli
Inferi poteva vantare. E come se avesse riconosciuto il suo vecchio amico dopo
averlo erroneamente contrastato, esso cominciò ad acquietarsi, distendendo le
proprie acque.
Accadde
lentamente: le onde si fecero più morbide; gli scossoni diminuirono fino a
scomparire e un piacevole dondolio, quasi materno, prese possesso della barca donando
un po’ di conforto ai suoi grigi passeggeri. E mentre Caronte remava – ora
assai pigramente, come il più svogliato dei vogatori – Ares ed Eris sventolavano
le mani davanti al viso con impazienza, nel tentativo di diradare la foschia e
riuscire a intravedere qualcosa, qualsiasi cosa. Non vi era più la stessa
atmosfera di prima. I defunti non piangevano più, quasi si fossero
definitivamente arresi al proprio destino, e ovunque risuonava un tetro
silenzio; una quiete paludosa in cui a dominare la scena era solo un suono
molle, che si ripeteva uguale a se stesso con matematica cadenza. Sploch… sploch… sploch… Il suono del
remo di Caronte che tagliava l’acqua, ora piatta e mocciolosa come quella di uno
sconfinato acquitrino. E, vogata dopo vogata, l’aria si fece più nitida e l’inconfondibile
sagoma della terra apparve tra i fumi della foschia.
Era
vicina, così vicina che Ares ed Eris riuscirono a vedere il punto in cui il
barcaiolo avrebbe fatto approdare la chiatta: una mezzaluna di ciottoli cerei, contornata
da lampade a olio posate tutt’intorno come perle di una collana. I lumini erano
accesi ed emanavano un debole chiarore, sufficiente appena a far rilucere il loro
stesso metallo, e nel mezzo della spiaggetta una piccola folla di anime – parte
del carico precedente di Caronte – osservava in silenzio la barca in
avvicinamento; ombre immobili, marmoree, simili a statue appartenenti a
un’epoca antica di cui nessuno aveva più memoria.
I
due gemellini guardarono brevemente il gruppo quindi andarono oltre, lasciando
lo sguardo libero di vagare. Il territorio era pianeggiante, simile a una brughiera.
Alberi dalla chioma argento sporco si ergevano tristemente qua e là, tra rocce
acuminate e arbusti dal fogliame opaco, e tutti avevano l’aria di essere
sopravvissuti alla più polverosa delle piogge, al più devastante degli incendi,
al più pungente dei dolori. Una vegetazione stremata dal peso del tempo, che
come un immenso cumulo di cenere si addensava ai margini della landa formando
colli e avvallamenti.
Ares
ed Eris dondolarono per un po’ la testa da un estremo all’altro dell’orizzonte,
quindi tornarono a guardare la folla sulla spiaggia. E ora i defunti si
muovevano, ora si asciugavano le lacrime e singhiozzavano, perché rivedere la
barca che li aveva condotti laggiù faceva male, quasi quanto il pensiero di
proseguire quel cammino senza ritorno. Vinti dall’emozione, alcuni di essi diedero
le spalle al fiume, e uno dietro l’altro s’incamminarono tra sassi e
sterpaglie, su per una via che si stagliava nel terreno come il solco lasciato
da un gigantesco coltello; un sentiero bordato di lumini d’oro in fondo al
quale, tra spuntoni di roccia e alberi ossuti, si ergeva una mostruosa sagoma
nera. Un essere che né Ares né Eris avevano mai veduto prima.
«Ehi!»
esclamò il Dio, puntando il dito. «Cos’è quel-»
Un
forte colpo scosse la barca, facendola vibrare: era il fondale che grattava contro
la pancia legnosa, segno che la traversata era terminata.
«Su!
Scendere! Scendere!» Caronte prese a battere l’estremità del remo sul fondo
della barca, come un bovaro che fa rumore al solo scopo d’incitare le sue
bestie a muoversi. «Ho altra gente da caricare quindi vedete di muovervi!»
I
defunti cominciarono a scendere, bagnandosi di nuovo nell’Acheronte. In quel
punto l’acqua era bassa e bastarono pochi passi affinché questi si mescolassero
alla folla che ancora s’attardava sulla spiaggia.
«Detesto
quando si fermano là come degli idioti…» mugugnò il nocchiero, poi sbottò
contro i gemellini. «Anche voi! Su! Scendete!»
I
due non batterono ciglio, quasi fossero sordi. Erano troppo presi dalla cosa in fondo al sentiero per degnare il
burbero traghettatore di una risposta.
«Hai
visto quello?» domandò Eris, tutta eccitata. «Che cos’è? Sembra un mostro!»
«A
me sembra un lupo…»
«Un
lupo?!» La Dea alzò un sopracciglio. «Ma no! È un mostro! Non vedi che ha tre
teste?»
Ares
strizzò gli occhi aguzzando la vista più che poté, e realizzò che Eris aveva
ragione. Quell’essere aveva davvero tre teste. «È comunque un lupo. O forse un
cane...» rispose. «Un cane a tre teste.»
«Ehi,
tu!» Eris ticchettò l’indice sul fianco di Caronte. «Che cos’è quello?»
Il
barcaiolo, che ora sembrava sul punto di prendere a colpi di remi i defunti pur
di farli scendere più in fretta, le rivolse una smorfia sdegnata. «Sciocchi
bambocci, ma non sapete proprio niente! Quello è Cerbero, il Guardiano degli
Inferi! Il truce sorvegliante che impedisce ai viventi di accedere al Regno
delle Ombre e ai defunti di fuggire.»
«Sembra
molto feroce…» commentò Ares.
«Lo
è eccome.» Caronte annuì. «Sbrana qualsiasi anima che tenti di scappare, e se
un vivente prova a varcare i Sacri Confini lui gli dilania le carni con le sue
mille zanne, gli divora il cuore e gli rosicchia le ossa fin quando
dell’invasore non rimane più nulla. Ed è con lui che dovrete vedervela ora.»
«Pfui! Io non ho paura di niente.» Eris
incrociò le braccine. «Neppure di questo cagnone da guardia!»
«Uffa!
Perché nessuno mi ha mai parlato di Cerbero? Sarei venuto qua molto prima! A me
i cani piacciono!» mugugnò Ares, continuando a fissare la sommità del sentiero.
Il gruppo di anime che si era allontanato dalla spiaggia, prima che la barca di
Caronte attraccasse, stava ora scorrendo accanto alla bestiale creatura, ritta
sul suo masso. Non sembrava rabbiosa né diffidente, ma la sua postura era
vigile e le tre teste erano chine sui defunti, come se da quel fiume di ombre
desiderassero abbeverarsi. Impossibile sfuggire a quei musi indagatori: il
guardiano controllava tutti. «Ma capirà che siamo Dei e non mortali?» domandò
il bimbo, ora rivolto verso Caronte.
«Vi
riconoscerà sicuramente, ma la vostra natura divina potrebbe anche non
importargli» rispose il barcaiolo, con un tono che lasciava intuire una certa
soddisfazione. «Cerbero non è paziente come me, che alla fine ho accettato di
condurvi fin qui solo per non avere problemi con Zeus! Lui difende i confini e
lo fa fermamente, senza cedere di
fronte a ricatti e preghiere. E ora su,
andatevene!» Caronte batté il remo sulle assi della zattera. «Siete rimasti
solo voi sulla barca!»
«Glielo
diremo a nostro padre che sei stato scortese! E lui ti punirà!» gridò Eris, tutta
imbronciata. Quindi mostrò la lingua al traghettatore e balzò fuori dalla
barca, svolazzando fino a riva.
«Eris!
Aspettami!» Ares saltò a sua volta, affondando fino alle ginocchia nelle fredde
acque dell’Acheronte, e in pochi passi raggiunse la sorella.
A
terra, mescolati ai morti appena sbarcati, i due si voltarono un’ultima volta
verso il fiume, giusto in tempo per vedere la chiatta di Caronte scomparire
nella nebbia. Eris scrollò le spalle e si rigirò subito; Ares, invece, rimase
qualche istante in più a contemplare la foschia che aveva appena ingoiato la
barca, poi prese un grande respiro – che gli appesantì le narici e i polmoni
come non mai – e diede definitivamente le spalle al fiume, mentre la folla di
anime che li avvolgeva cominciava a scorrere, come un gregge di pecore di
ritorno all’ovile.
I
defunti si stavano incamminando su per il sentiero, pronti a sfidare le fauci
di Cerbero.
«Tu
che dici?» domandò Ares fissando la sagoma a tre teste, che nera si stagliava
sullo sfondo nebbioso. «Ci lascerà passare?»
«Adesso
lo scopriamo!» rispose Eris, segretamente eccitata al pensiero di un
combattimento tra il fratello e la terrificante creatura. E trotterellando
fianco a fianco, splendenti come due fiaccole in mezzo alla più fosca delle
tormente, i due presero il sentiero avviandosi in direzione del guardiano, che
dall’alto del suo masso li stava già osservando con occhi di fuoco.
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