sabato 27 ottobre 2018

SEMI CATTIVI - PARTE II (Ares, Eris, Caronte)



 Come un lungo intestino roccioso, la galleria per gli Inferi si snodava sotto il volto di Gea scendendo sempre più giù, negli abissi scuri e inviolati, e non passò molto prima che Ares ed Eris si trovarono a strisciare sui gomiti, tra guano di pipistrello e pozze d’acqua gelata. Il cunicolo era tortuoso, più di quanto i due avessero pensato, e si stringeva in più punti come una gola nell’atto di deglutire; punti in cui le loro vesti si lacerarono e le braccia si graffiarono, lasciando tracce d’icore d’oro sulle pareti della roccia. Ciononostante i due proseguirono sempre con entusiasmo – Ares in testa ed Eris suo malgrado dietro, che smaniava per sottrargli la prima posizione non appena la galleria si fosse allargata a sufficienza – e in quei budelli rocciosi, nei quali echeggiava l’eterno gocciolio dell’acqua, i gemellini ebbero più di un incontro con la fauna locale. Grossi coleotteri ambrati, ragni dalle zampe sottili come capelli, scolopendre, scorpioni… Di tanto in tanto, sulle pareti del cunicolo zampettava una lucidissima creatura delle caverne ed Ares ed Eris avevano giusto il tempo di percepire la sua presenza, che questa spariva in qualche interstizio.
Non erano soli là sotto, e più scendevano più avevano l’impressione di stare attraversando un nuovo regno, a metà strada tra quello dei vivi e quello dei morti: il regno degli insetti, degli aracnidi e dei millepiedi. Perché di quelle bestiacce ce n’erano tantissime, pronte a sfrecciare da una parte all’altra per poi nascondersi nelle fenditure della pietra. Ma i due non avevano paura. Anzi. Quel nuovo ambiente, che qualsiasi altro bambino avrebbe considerato ostile e pauroso, stimolava la loro curiosità, e quando la galleria si allargò di nuovo presero a gattonare fianco a fianco, veloci come ratti, finché non si affacciarono su uno spazio nuovo: un’area di roccia densa in cui si alternavano alte colonne di calcare, simili a torri di fango bianco; formazioni bizzarre, che dal basso salivano a unirsi al soffitto, una volta compatta dalla quale pendevano come lembi di stracci migliaia e migliaia di stalattiti.
Era un luogo dentato, aguzzo, costellato di pozze d’acqua e stalagmiti dalle sagome insolite: alcune di esse si elevavano da terra come falli di pietra; altre, più grosse e larghe, si ergevano sgraziatamente, simili a statuette informi o idoli melmosi squagliati dal sole. E tra quelle zanne di pietra, che come lame gocciolanti fendevano l’aria da parte a parte, l’odore di acquitrino serpeggiava sempre più intenso; un alito freddo che saliva dal fondo e che, complici l’umidità e gli abiti fradici, offrì più di un brivido ai due piccoli esploratori.
«Ehi, Eris! Guarda!» Ares s’inginocchiò di fronte a una pozza d’acqua, vi ficcò la mano dentro ed estrasse un proteo: una bestiolina color carne, col muso stretto e il corpo sottile come quello di un serpente. «Che animale buffo!»
«Cos’è? Una lucertola?» Eris tese la manina verso l’animale e lo afferrò per la testa, per guardarlo meglio.
«Che brutto! Non ha gli occhi!»
«Oh, è vero!» Ares tirò bruscamente il proteo verso di sé e, bagnato com’era, questo scivolò via dalle dita di Eris. Fu una fortuna: con la loro irruenza i gemellini avevano rischiato di spezzarlo in due. «E come fa a vedere se non ha gli occhi?» domandò il Dio.
«Boh! Forse ce li ha da un’altra parte, non sulla testa. Fammi vedere!»
«No!» Ares allontanò l’animale dalle grinfie della sorella. «Voglio tenerlo io! Tu lo uccidi!»
«Brutto stupido! Voglio solo vederlo!»
«È mio!»
«Dammelo subito o giuro che lo ammazzo!»
«No!»
I due presero a saltarsi addosso l’un l’altro litigandosi il proteo, e in quella zuffa Ares urtò col gomito uno spuntone di roccia e si tagliò. Allora lanciò l’animale in faccia alla sorella.
«Ecco! Prendi! Contenta?» gridò.
Eris, sorpresa dal gesto ma per nulla schifata, prese il proteo con entrambe le mani, lo guardò col massimo del disinteresse e lo gettò in una pozza. Quindi raggiunse il fratello, lo agguantò per il braccio e appena allora si accorse che stava sanguinando. «Te l’ho fatto io?»
«No… anzi, sì!» Ares le lanciò un’occhiataccia. «Mi hai spinto contro la roccia!»
«Smettila di piagnucolare» Lei gli pulì la ferita con l’orlo della veste. «È solo un graffio.»
«Non sto piagnucolando!»
«Sì, invece. Sei un lagnoso…»
Ares si lasciò asciugare il sangue, più per desiderio di attenzioni da parte della sorella che per reale necessità, quindi i due si ripresero per mano e proseguirono il cammino tra le colonne di calcare, fin quando la terra cominciò a inclinarsi verso il basso, spingendoli in una pericolosa discesa tra stalagmiti e lastre di roccia scivolosa.
Erano come due lucine gettate in un pozzo, che con la loro luce obbligavano l’oscurità a indietreggiare, a far loro spazio. E quelle tenebre nere – il buio più denso in cui i due si fossero mai trovati immersi – arretravano sempre e contemporaneamente chiudevano l’abbraccio alle loro spalle, quasi volessero far dimenticare loro la strada del ritorno e trattenerli laggiù in eterno. Eppure l’atmosfera di quell’abisso incorrotto era magica, tutt’altro che spaventosa: colpite dal bagliore, le stalattiti brillavano come gioielli appesi al soffitto e le loro ombre – insieme a quelle più paffute delle stalagmiti – danzavano allegramente sulle pareti al passaggio dei figli di Zeus.
Ma presto la magia del luogo cominciò a spegnersi. Le stalattiti si diradarono fino a scomparire; le pareti rocciose, come in preda a un’involontaria contrazione muscolare di Gea, si restrinsero incuneandosi in una galleria quasi verticale: un esofago buio e profondo, spaventoso come la più nera delle voragini.
Ares ed Eris non si persero d’animo e, aggrappati alla roccia come due gechi, continuarono la loro scalata al contrario, alla conquista degli abissi infernali. Sapevano di essere vicini, lo sentivano dall’aria; quell’aria umida e corposa che, come un antico vapore, saliva dalle profondità della voragine raffreddando i loro polmoni.
Ormai ne erano sicuri: là sotto c’era dell’acqua.
Ma così com’erano certi della sua presenza, erano altrettanto certi che quella non fosse l’acqua che conoscevano. E neppure la pietra grigia – su cui ora Ares strisciava con cautela stando attento a non scivolare, mentre Eris, stufa di arrampicarsi, gli volava accanto come un pipistrello – era la pietra alla quale erano entrambi abituati. Piccoli e inesperti com’erano, non avrebbero saputo dire con esattezza cosa di essa fosse cambiato, ma a riguardo il loro istinto parlava chiaro: la roccia, quella roccia, era differente da quella in superficie e, oltre a essa, tutto là sotto aveva subito un mutamento, assumendo i tratti di un luogo deserto e inospitale; un ambiente umido eppure al tempo stesso arido, privo di qualsivoglia forma di vita. E, del resto, da quanto tempo i due non incrociavano sulla propria strada un insetto, uno scorpione o un proteo serpeggiante? Persino il gocciare dell’acqua dal soffitto, che dall’inizio del loro cammino aveva echeggiato senza sosta, si era zittito e ora nella voragine rimbombava solamente il silenzio della desolazione; un silenzio surreale che sapeva di morte, di sterilità, di angosciante ed eterna stagnazione.
Il confine tra i due regni era stato oltrepassato. La vita, coi suoi mille colori, suoni e profumi, era rimasta indietro.
Ares ed Eris scesero ancora, senza mai fermarsi, fin quando la gola cominciò a curvare e a farsi di nuovo orizzontale, come la più ordinaria delle gallerie. Allora videro una strana luce grigia provenire dal fondo, una specie di smorto barlume nell’incavo della pietra: era la fine del tunnel.
Come colti da inaspettata pazzia, i traci si lanciarono in una corsa mozzafiato, tentando ardentemente di superarsi a vicenda
(Prima io!)
(No, prima io!)
finché l’oscura caverna scomparve alle loro spalle.
Erano fuori.

Non sorrisero neppure per il traguardo raggiunto, che appena usciti s’arrestarono bruscamente. Le bocche spalancate per lo stupore; le testoline rovesciate all’indietro; le narici dilatate, sopraffatte dall’odore di umido, di gelida terra e fiumi sconosciuti…
L’Oltretomba, col suo grigiore spettrale, si rivelò a loro con austera solennità, mentre la nebbia si distendeva nell’aria come una tossina fino a lambire i loro piccoli corpi. Ares ed Eris sventolarono distrattamente la mano davanti al viso, tentando di diradare la foschia, poi lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi, persi nella contemplazione del mondo.
Si trovavano in una radura dall’aspetto sofferente, incorniciata da sporadiche chiazze di erba e arbusti color cenere del medesimo colore del terreno: uno spiazzo sul quale sembravano essersi accaniti per lungo tempo venti polverosi, sporchi, cinerei, il cui soffio martoriante aveva velato di grigio ogni cosa. E più si guardavano intorno, più i due faticavano a trovare in quell’ambiente un elemento che spiccasse per la brillantezza dei suoi colori, fosse anche un minuscolo fiore o una foglia striminzita. Ma la vegetazione, tutta la vegetazione, era così grigia da sembrare un’ombra; un’imitazione malriuscita del verde volto di Gea, così squallida e deprimente da dover essere tenuta nascosta nelle viscere della Dea come un’intima vergogna. Persino il cielo – quel cielo nuvoloso e compatto che i gemellini proprio non riuscivano a smettere di guardare – era plumbeo e tetro come una sconfinata cappa di fumo, ma a renderlo così magnetico agli occhi dei due non era tanto il suo colore, quanto piuttosto la sua stessa presenza.
Si erano avventurati nel recondito ventre della terra, senza mai indietreggiare né risalire. Come poteva esistere un cielo sopra le loro teste? Si trovavano davvero in uno spazio aperto o quella sottospecie di volta celeste che si estendeva a perdita d’occhio sopra di loro era, in verità, un’illusione ottica causata dalla nebbia? Del resto, in certi punti terra e cielo parevano essere un tutt’uno, tanto simili erano i loro colori e collosa la foschia che galleggiava nell’aria, e ciò poteva spingere l’esploratore a immaginare – quasi a vedere – il soffitto roccioso che si celava lassù, appena oltre la bruma.
Ma Ares ed Eris non potevano credere di essere finiti in una gigantesca cavità rocciosa, con tanto di soffitto gocciolante e probabili stalattiti. No. Neanche a parlarne. Quello era un cielo. Un cielo malato, triste, a tratti bianchiccio e a tratti grigiastro, ma pur sempre un cielo degno di questo nome. E così come credettero alla sua esistenza, così i due accettarono anche l’inaccettabile, ovvero la presenza della terra sopra di esso. Era una realtà che non potevano negare, non dopo tutta la strada che avevano percorso in ripida discesa, giù per gallerie e voragini spaventose; non dopo tutta la pietra che si erano lasciati sopra la testa: là in alto, in modi che non riuscivano ancora a comprendere, la terra copriva il cielo dando vita a una versione rovesciata – o, per meglio dire, specchiata – del Regno dei vivi. E che ciò fosse vero i due lo avvertirono nel petto, ora più che mai appesantito da una sensazione di oppressione, di prigionia, di schiacciamento.
Erano all’aperto, eppure sepolti.
«Che strano qui...» Ares si grattò la testa, poi staccò una foglia da uno degli arbusti. La guardò. «Sembra tutto morto.»
Eris gli strappò la foglia di mano, la guardò a sua volta e l’annusò. «Non sa di niente» disse gettandola per terra, e fece una piccola smorfia. Era indecisa: non sapeva ancora se quel luogo spoglio e grigio le piaceva moltissimo o la infastidiva. «Io voglio vedere i morti. Dove sono?»
«Buh...» Ares scrollò le spalle. «Qui non c’è nessuno…»
«Devono esserci! Siamo negli Inferi!»
«Forse sono oltre quei cespugli…»
I due s’incamminarono tra le erbacce e gli arbusti e proseguirono dritti per quella direzione, fin quando il paesaggio mutò e alberi scheletrici comparvero in ogni dove: piante nere, storpie, con rami lunghi e contorti che si stagliavano sul grigio del cielo come vene. E mentre quel mostruoso boschetto scorreva loro intorno, un suono conosciuto si fece strada nelle loro orecchie, facendosi sempre più vicino.
«Ehi, cos’è questo rumore?» domandò Ares, un attimo prima che lo facesse la sorella. «Sembra…»
«È il rumore di un fiume!»
I due aumentarono la propria andatura fin quasi a correre. E più si avvicinavano, più sentivano lo sciacquio intensificarsi, e si stavano ancora affrettando quand’ecco che l’ossuto boschetto di alberi si aprì e un enorme fiume, torbido come il cielo, comparve di fronte a loro.
Si bloccarono di colpo e per un soffio non finirono in acqua.
«Woah!» Il Dio agitò le braccine e recuperò l’equilibro, quindi si aggrappò alla sorella e con lei fece un passo indietro. «C’è mancato poco!»
Eris ridacchiò. «Stavi per finire annegato!»
«Anche tu!»
«No, io no. Io avrei volato.»
«Bugiarda! Non avresti fatto in tempo.»
«Sì, invece.» Eris gli diede uno spintone, poi avanzò di nuovo di un passo e osservò meglio il corso d’acqua appena scoperto. Era una massa liquida immensa, che scorreva fiaccamente da est a ovest senza creare neppure uno spruzzo di schiuma; un fiume dall’aspetto cadaverico, che più che d’acqua sembrava essere composto di nebbia, tanto opprimente e densa era la foschia che volteggiava sulla sua opaca superficie.
«Non ho mai visto un fiume così» disse Ares, riavvicinandosi alla gemella. «Sembra sporco.»
Eris s’inginocchiò e sprofondò il braccino nella nebbia fino a sfiorare l’acqua. «È freddissimo…» Sventolò la mano sottacqua per qualche istante, poi la ritirò e si guardò le dita. «Che strana sensazione…»
«Cosa intendi?»
«Be’...» La Dea si rialzò. Aprì e chiuse il pugnetto più volte. «Ti ricordi quando mi sono seduta sul tuo braccio mentre dormivi e quando ti sei svegliato non lo sentivi più?»
«Certo.»
«È una sensazione simile. Questo fiume non è come i nostri. Mi ha addormentato la mano.»
«Forse è solo molto freddo…»
«Areees! Questo è un fiume infernale! Può essere che-» Eris s’interruppe e si guardò intorno. Era interdetta come se qualcuno le avesse appena battuto l’indice sulla spalla. «Cos’è questo rumore?»
«Quale rumore?»
«Sssh. Ascolta.»
Ares tese l’orecchio e subito colse un suono in lontananza, sovrapposto al lento sciacquio del fiume; un rumore brulicante, simile a un lamentoso ammassamento di voci, sospiri e singulti di pianto.
«Viene da là!» Il Dio indicò l’ovest. «Forse sono i morti…»
«Andiamo a vedere!»
Trotterellarono lungo la riva del fiume, tra flaccidi giunchi e alberi striminziti, e man mano che avanzavano il corso d’acqua accanto a loro si faceva sempre più tumultuoso. E ora sì che schiumava; ora sì che ruggiva e si flagellava e grattava la terra, potente come un Dio affamato di distruzione. Eris si fermò un istante a guardarlo. Il suo fiato umido e freddo, tutt’uno con la nebbia, le inumidì le gote; il fragore delle acque, quel grido terrificante che sembrava ordinare a chiunque lo udisse di buttarsi tra i flutti e sprofondare, gridare e soffocare per l’eternità, le si impresse nella memoria come una musica impossibile da dimenticare. Violenza, male, dolore, oblio… Gli Inferi erano saturi d’ogni genere di energia oscura e lei, creatura maligna, cominciava a subirne il fascino.
Sorrise e raggiunse il gemello, e insieme i due zampettarono costeggiando la riva quando, superata un’ampia curva del fiume, il brusio esplose e una folla comparve davanti ai loro occhi; la folla più gigantesca e brulicante che avessero mai visto.
«I morti!» gridò Ares. «Li abbiamo trovati!»
«Quelli sono i morti?» domandò Eris, improvvisamente scettica.
«Be’…» Il Dio si grattò la testa. «Credo di sì…»
I due si scambiarono uno sguardo indeciso e tornarono a osservare la massa d’individui che si accalcava sulla riva. Era una folla variegata composta da uomini, donne, vecchi e bambini che, schiacciati l’uno sull’altro come bestie da macellare, gemevano e si torcevano i capelli in preda a una statica disperazione; e grigi erano i loro volti, grigie le loro tuniche, e nel fitto di quella massa dall’aria polverosa tutto sembrava assottigliarsi e poi sdoppiarsi, in un insolito gioco di trasparenze.
Erano corpi solidi eppure al tempo stesso non lo erano, e fu proprio quell’effetto, quella velata trasparenza di carni e vesti a convincere definitivamente i figli di Zeus.
«Sì, sono i morti! Sono sicura!» sentenziò Eris, saltellando sul posto. «Sono troppo strani per essere persone normali!»
«Sono così grigi e brutti...» aggiunse Ares.
«Vieni! Andiamo a vederli da vicino!»
I gemellini si fecero avanti e in pochi istanti la folla li avviluppò, ingoiandoli al proprio interno. Il cielo sopra le loro teste si rimpicciolì; tuniche pallide – alcune d’eccellente manifattura, altre logore come stracci da lavoro – riempirono loro la visuale, accavallandosi l’un l’altra in prospettiva come sottilissime ali di farfalla. Erano dentro al vortice, risucchiati dal vortice, ma nessuna di quelle creature dal viso smunto e stanco osò sfiorarli, e nel vederli arrivare tutte si scansarono con riverenza, mentre il divino bagliore si distendeva sui loro corpi come una carezza. E in quei brevi momenti di vicinanza, nuove lacrime colavano sulle guance dei morti, ora più che mai stremati dall’amore per quella luce d’oro che sapeva di sole, di vita, di felicità perduta per sempre; e più questi piangevano, più Ares ed Eris li osservavano, sfilando a mento alto tra loro come principini curiosi.
Al pari del cielo che premeva sugli Inferi, anche quegli esseri apparivano come imitazioni scolorite di ciò che erano stati un tempo e persino la loro voce – quel piagnucolio perpetuo che ora quasi assordava i due Dei – si trascinava nell’aria come un suono anomalo, alieno, nauseante nella sua mancanza di passione; un’ombra sonora che solo in una landa desolata come quella avrebbe potuto risuonare. E mentre erano intenti ad aprire in due la folla, senza ancora sapere dove stessero andando, Ares ed Eris raggiunsero le prime file riaffacciandosi sul fiume, e là si fermarono, di nuovo vittime dello stupore.
Una barca di legno scuro, simile a una grossa zattera, oscillava follemente tra i flutti, a un passo dalla riva. Era carica di defunti e molti altri vi stavano ancora salendo, mentre nelle torbide acque del fiume schiere di poveretti nuotavano qua e là senza meta, apparendo e scomparendo secondo il volere delle onde. E in mezzo a quella calca – dove tutti piangevano e guardavano con occhi lucidi ora la chiatta, ora i disperati che vagavano nel fiume – un uomo alto e anziano svettava sulla barca con spropositata autorità, come il più antico e rispettato dei navigatori.
Era pallido, d’un bianco quasi accecante, e bianchi e fini come ragnatele erano i capelli che gli frullavano intorno alla testa, tormentati dal vento. Avrebbe potuto essere più vecchio della terra e degli oceani; più vecchio del tempo e della vita stessi, un essere che esisteva da sempre e che per sempre sarebbe esistito. Eppure non era decrepito. Le sue braccia erano lunghe e muscolose; il torace rugoso ma robusto; le gambe dritte e ben salde sulla barca, quasi le loro fibre fossero intrecciate a quelle del legno. Stringeva nella mano destra un lungo remo, che rimestava tra le onde nel tentativo d’impedire alla chiatta di allontanarsi dalla riva, e mentre lo affondava nell’acqua prendeva a male parole tutti coloro che lo circondavano.
«Muoversi, muoversi!» gridava sventolando la mano libera davanti al passeggero che aveva di fronte, come se volesse farsi consegnare qualcosa che non necessitava di alcuna spiegazione, e dopo un fugace contatto tra palmi, il poveretto s’imbarcava e la scena si ripeteva col defunto successivo. «Avanti! Datevi un mossa! Non ho m-»
L’anziano uomo s’interruppe; i suoi occhi torvi e incattiviti si accesero di meraviglia, ma fu solo un momento e il suo sguardo si rimpicciolì di nuovo. «Voi! Figli della luce!» tuonò, imbarcando in malo modo l’ennesimo disgraziato. «Tornatevene da dove siete venuti! Questo non è posto per voi!»
Ares ed Eris si scambiarono un’occhiata imbronciata: quel vecchio era incredibilmente irrispettoso.
«Siamo qui per visitare gli Inferi!» rispose la Dea, col suo solito tono strafottente.
«Abbiamo fatto tantissima strada, giù per gallerie e buchi schifosi, e non ci fermeremo di certo adesso!» aggiunse Ares, portandosi le mani ai fianchi come un piccolo comandante militare.
«Sciocchi poppanti…» L’uomo rigirò con forza il remo tra le acque, che impenitenti cercavano di far capovolgere la barca. «Questa è la soglia del regno di Ade, non un campo da gioco per mocciosi che non hanno di meglio da fare! E ora via! Lasciatemi lavorare in pace!»
«Noi non siamo mocciosi!» Eris ingrossò le ali piumate: sentirsi dare della bimbetta la faceva sempre infuriare. «Tu, piuttosto! Chi credi di essere per parlarci così?»
«IO SONO CARONTE! IL TRAGHETTATORE DEI DEFUNTI!» L’uomo gridò così forte e con così tanta rabbia che i due gemellini sobbalzarono, e per un istante tutte le anime accalcate lungo la riva trattennero il loro pianto. «Sono io, instancabile nocchiero, a condurre le ombre da una sponda all’altra dell’Acheronte, là dove il Grande Adunator di Popoli le attende! Perciò aprite bene le orecchie, o marmocchi arroganti! Non vi è altro modo per giungere nel cuore degli Inferi se non salendo su questa MIA barca e io non ho nessuna intenzione di prendervi a bordo! Perciò andatevene!»
Ares ed Eris si guardarono di nuovo e, nel vedere che l’altro non era affatto intimorito né stava pensando di desistere dall’impresa, tornarono alla carica. 
«Così tu sei Caronte. Uhmm… non è la prima volta che sento questo nome.» Eris si stropicciò il mento con la manina. «Qualcuno deve avermi parlato di te una volta. Buh, non ricordo.»
 «Hai detto che gli Inferi si trovano dall’altra parte…» Ares fece una smorfia poco convinta. «Io vedo solo nebbia.»
«Già! Non è che ci stai prendendo in giro?»
«Quanto è largo il fiume?»
«Andatevene via!» Caronte caricò sulla barca un vecchio calvo e curvo – che per poco non inciampò sulle assi sconnesse del fondo, nella noncuranza generale – quindi schiaffò il palmo della mano davanti alla faccia dei poveretti che si stavano apprestando a salire. La chiatta aveva raggiunto la sua capienza massima e, pronto a partire, il traghettatore affondò il remo in acqua fino a toccare il fondale e su di esso fece leva per allontanarsi dalla riva.
«Ehi, aspetta!» gridò Eris. «Non te ne puoi andare!»
«Devi farci salire!» esclamò Ares.
«Tu puoi volare. E tu puoi nuotare.» Il nocchiero lanciò uno sguardo fiammeggiante ai due piccoli, continuando a rimestare il remo tra i flutti. «Se davvero volete andare dall’altra parte, fatelo, avanti. Sfidate la sorte.»
Ares guardò l’acqua grigia e fumosa. Deglutì. «Ma… non posso nuotare così. Ci sono troppi gorghi, troppa nebbia…»
 «E io non posso volare senza vedere dove vado!» Eris batté i piedi a terra, con le guance paonazze per la rabbia. «DEVI farci salire sulla tua barca!»
«UN OBOLO D’ORO!» Caronte si sporse dalla prua della barca e allungò una mano verso i due. «È questo il prezzo da pagare per il passaggio da una sponda all’altra dell’Acheronte. Un obolo d’oro!»
Ares ed Eris presero a balbettare all’unisono, completamente spiazzati da quella richiesta. «Ma… noi…»
«Solo chi paga ha il diritto di salire. Allora? Ce lo avete l’obolo?» li incitò il barcaiolo.
«Noi non abbiamo niente» rispose Ares, scrollando le spalle. «Non sapevamo che-»
«Lo immaginavo.» Caronte tornò ad accanirsi con il remo contro il fondale, stavolta con più fretta. Per i suoi gusti, quella situazione era durata fin troppo. «Mocciosi molesti…»
«Ma noi siamo figli di Zeus!» gridò Eris, furibonda.
«Noi possiamo anche non pagare!» aggiunse Ares.
Caronte si fermò. Avrebbe giurato che i due fossero figli di qualche Dio minore e insignificante, che sulla Sacra Montagna non aveva neppure mai messo piede, ma quelle parole insinuarono il dubbio nella sua mente, costringendolo a muoversi con cautela. «Non siete figli di Zeus…» sibilò, strizzando entrambi gli occhi.
«Sì che lo siamo!» replicò Ares, quasi offeso. «Siamo figli di Zeus ed Era.»
«E loro si arrabbieranno moltissimo quando sapranno che non ci hai fatti passare!» aggiunse Eris.
Il barcaiolo si appoggiò al remo e si sporse come non mai dalla prua, per guardare meglio i bimbi. Non somigliavano né a Zeus né a Era: i loro capelli erano troppo scuri; gli occhi ambrati come quelli di due vipere. Eppure nei loro modi vi era qualcosa di estremamente familiare, che li faceva apparire un perfetto connubio dei due figli di Crono, malgrado la misera somiglianza fisica. Forse era la determinazione con cui il maschietto si ergeva con le mani sui fianchi e il volto contratto in un cipiglio di prepotenza, che già permetteva d’intravedere il Dio adulto e virile che sarebbe diventato a breve; o forse era quella specie di ghigno sul viso di lei, quella smorfia di odio puro che rivelava un’indole vendicativa, spietata e implacabile che era meglio non scatenare. Fatto sta che Caronte prese la sua decisione.
«E sia!» ringhiò, più incarognito che mai. «Per questa volta farò un’eccezione, così almeno la smetterete di angustiarmi! Ma sbrigatevi a salire, prima che cambi idea!»
Ares ed Eris sorrisero e balzarono immediatamente sulla prua della barca, trovandosi fianco a fianco col burbero nocchiero. Avrebbero volentieri fatto a meno di quella promiscuità, ma nessuno dei due aveva intenzione di farsi indietro e lasciarsi schiacciare dal carico di morti piagnucolanti, così accettarono quel compromesso. Caronte, dal canto suo, li guardò a malapena e con un colpo di remo staccò la chiatta dalla riva e la condusse tra i flutti turbolenti.
Per i due bimbi furono attimi incredibilmente eccitanti. L’Acheronte spumeggiava con rabbia, quasi fosse in ebollizione, e le sue mille correnti scuotevano la barca con così tanta violenza da far scricchiolare le vetuste assi di legno. Si sarebbero capovolti, Ares ed Eris se lo sentivano nel midollo, come sentivano che alla prossima onda la chiatta si sarebbe spaccata in due, vinta dal vigore di quei bruschi scossoni. La piccola Dea, in particolare, era così certa dell’imminente distruzione della zattera che già teneva le alucce sollevate e la mano avvinghiata al polso del fratellino, pronta a spiccare il volo per salvare entrambi dalle avviluppanti acque dell’Acheronte. E mentre i due trattenevano il fiato, chiedendosi quanto largo potesse essere quel fiume che ora sembrava quasi un mare in tempesta, il barcaiolo vogava e vogava, spingendo la barca sempre più avanti, nella nebbia accecante.
Non era spaventato da quei continui sobbalzi né lo inquietava il modo in cui il legno sotto ai suoi piedi gracchiava, mescolandosi al pianto dei morti. Tutto era esattamente come avrebbe dovuto essere, né più né meno, e neppure la più insignificante delle onde riusciva ad anticipare il suo istinto, che le innumerevoli traversate avevano temprato al punto da permettergli di prevedere ogni singolo scossone, ogni scricchiolio, ogni spruzzo di schiuma. Con quel fiume, Caronte aveva sviluppato un segreto e profondo legame, che neppure il Dominatore degli Inferi poteva vantare. E come se avesse riconosciuto il suo vecchio amico dopo averlo erroneamente contrastato, esso cominciò ad acquietarsi, distendendo le proprie acque.
Accadde lentamente: le onde si fecero più morbide; gli scossoni diminuirono fino a scomparire e un piacevole dondolio, quasi materno, prese possesso della barca donando un po’ di conforto ai suoi grigi passeggeri. E mentre Caronte remava – ora assai pigramente, come il più svogliato dei vogatori – Ares ed Eris sventolavano le mani davanti al viso con impazienza, nel tentativo di diradare la foschia e riuscire a intravedere qualcosa, qualsiasi cosa. Non vi era più la stessa atmosfera di prima. I defunti non piangevano più, quasi si fossero definitivamente arresi al proprio destino, e ovunque risuonava un tetro silenzio; una quiete paludosa in cui a dominare la scena era solo un suono molle, che si ripeteva uguale a se stesso con matematica cadenza. Sploch… sploch… sploch… Il suono del remo di Caronte che tagliava l’acqua, ora piatta e mocciolosa come quella di uno sconfinato acquitrino. E, vogata dopo vogata, l’aria si fece più nitida e l’inconfondibile sagoma della terra apparve tra i fumi della foschia.
Era vicina, così vicina che Ares ed Eris riuscirono a vedere il punto in cui il barcaiolo avrebbe fatto approdare la chiatta: una mezzaluna di ciottoli cerei, contornata da lampade a olio posate tutt’intorno come perle di una collana. I lumini erano accesi ed emanavano un debole chiarore, sufficiente appena a far rilucere il loro stesso metallo, e nel mezzo della spiaggetta una piccola folla di anime – parte del carico precedente di Caronte – osservava in silenzio la barca in avvicinamento; ombre immobili, marmoree, simili a statue appartenenti a un’epoca antica di cui nessuno aveva più memoria.
I due gemellini guardarono brevemente il gruppo quindi andarono oltre, lasciando lo sguardo libero di vagare. Il territorio era pianeggiante, simile a una brughiera. Alberi dalla chioma argento sporco si ergevano tristemente qua e là, tra rocce acuminate e arbusti dal fogliame opaco, e tutti avevano l’aria di essere sopravvissuti alla più polverosa delle piogge, al più devastante degli incendi, al più pungente dei dolori. Una vegetazione stremata dal peso del tempo, che come un immenso cumulo di cenere si addensava ai margini della landa formando colli e avvallamenti.
Ares ed Eris dondolarono per un po’ la testa da un estremo all’altro dell’orizzonte, quindi tornarono a guardare la folla sulla spiaggia. E ora i defunti si muovevano, ora si asciugavano le lacrime e singhiozzavano, perché rivedere la barca che li aveva condotti laggiù faceva male, quasi quanto il pensiero di proseguire quel cammino senza ritorno. Vinti dall’emozione, alcuni di essi diedero le spalle al fiume, e uno dietro l’altro s’incamminarono tra sassi e sterpaglie, su per una via che si stagliava nel terreno come il solco lasciato da un gigantesco coltello; un sentiero bordato di lumini d’oro in fondo al quale, tra spuntoni di roccia e alberi ossuti, si ergeva una mostruosa sagoma nera. Un essere che né Ares né Eris avevano mai veduto prima.
«Ehi!» esclamò il Dio, puntando il dito. «Cos’è quel-»
Un forte colpo scosse la barca, facendola vibrare: era il fondale che grattava contro la pancia legnosa, segno che la traversata era terminata.
«Su! Scendere! Scendere!» Caronte prese a battere l’estremità del remo sul fondo della barca, come un bovaro che fa rumore al solo scopo d’incitare le sue bestie a muoversi. «Ho altra gente da caricare quindi vedete di muovervi!»
I defunti cominciarono a scendere, bagnandosi di nuovo nell’Acheronte. In quel punto l’acqua era bassa e bastarono pochi passi affinché questi si mescolassero alla folla che ancora s’attardava sulla spiaggia.
«Detesto quando si fermano là come degli idioti…» mugugnò il nocchiero, poi sbottò contro i gemellini. «Anche voi! Su! Scendete!»
I due non batterono ciglio, quasi fossero sordi. Erano troppo presi dalla cosa in fondo al sentiero per degnare il burbero traghettatore di una risposta.
«Hai visto quello?» domandò Eris, tutta eccitata. «Che cos’è? Sembra un mostro!»
«A me sembra un lupo…»
«Un lupo?!» La Dea alzò un sopracciglio. «Ma no! È un mostro! Non vedi che ha tre teste?»
Ares strizzò gli occhi aguzzando la vista più che poté, e realizzò che Eris aveva ragione. Quell’essere aveva davvero tre teste. «È comunque un lupo. O forse un cane...» rispose. «Un cane a tre teste.»
«Ehi, tu!» Eris ticchettò l’indice sul fianco di Caronte. «Che cos’è quello?»
Il barcaiolo, che ora sembrava sul punto di prendere a colpi di remi i defunti pur di farli scendere più in fretta, le rivolse una smorfia sdegnata. «Sciocchi bambocci, ma non sapete proprio niente! Quello è Cerbero, il Guardiano degli Inferi! Il truce sorvegliante che impedisce ai viventi di accedere al Regno delle Ombre e ai defunti di fuggire.»
«Sembra molto feroce…» commentò Ares.
«Lo è eccome.» Caronte annuì. «Sbrana qualsiasi anima che tenti di scappare, e se un vivente prova a varcare i Sacri Confini lui gli dilania le carni con le sue mille zanne, gli divora il cuore e gli rosicchia le ossa fin quando dell’invasore non rimane più nulla. Ed è con lui che dovrete vedervela ora.»
«Pfui! Io non ho paura di niente.» Eris incrociò le braccine. «Neppure di questo cagnone da guardia!»
«Uffa! Perché nessuno mi ha mai parlato di Cerbero? Sarei venuto qua molto prima! A me i cani piacciono!» mugugnò Ares, continuando a fissare la sommità del sentiero. Il gruppo di anime che si era allontanato dalla spiaggia, prima che la barca di Caronte attraccasse, stava ora scorrendo accanto alla bestiale creatura, ritta sul suo masso. Non sembrava rabbiosa né diffidente, ma la sua postura era vigile e le tre teste erano chine sui defunti, come se da quel fiume di ombre desiderassero abbeverarsi. Impossibile sfuggire a quei musi indagatori: il guardiano controllava tutti. «Ma capirà che siamo Dei e non mortali?» domandò il bimbo, ora rivolto verso Caronte.
«Vi riconoscerà sicuramente, ma la vostra natura divina potrebbe anche non importargli» rispose il barcaiolo, con un tono che lasciava intuire una certa soddisfazione. «Cerbero non è paziente come me, che alla fine ho accettato di condurvi fin qui solo per non avere problemi con Zeus! Lui difende i confini e lo fa fermamente, senza cedere di fronte a ricatti e preghiere. E ora su, andatevene!» Caronte batté il remo sulle assi della zattera. «Siete rimasti solo voi sulla barca!»
«Glielo diremo a nostro padre che sei stato scortese! E lui ti punirà!» gridò Eris, tutta imbronciata. Quindi mostrò la lingua al traghettatore e balzò fuori dalla barca, svolazzando fino a riva.
«Eris! Aspettami!» Ares saltò a sua volta, affondando fino alle ginocchia nelle fredde acque dell’Acheronte, e in pochi passi raggiunse la sorella.
A terra, mescolati ai morti appena sbarcati, i due si voltarono un’ultima volta verso il fiume, giusto in tempo per vedere la chiatta di Caronte scomparire nella nebbia. Eris scrollò le spalle e si rigirò subito; Ares, invece, rimase qualche istante in più a contemplare la foschia che aveva appena ingoiato la barca, poi prese un grande respiro – che gli appesantì le narici e i polmoni come non mai – e diede definitivamente le spalle al fiume, mentre la folla di anime che li avvolgeva cominciava a scorrere, come un gregge di pecore di ritorno all’ovile.
I defunti si stavano incamminando su per il sentiero, pronti a sfidare le fauci di Cerbero.
«Tu che dici?» domandò Ares fissando la sagoma a tre teste, che nera si stagliava sullo sfondo nebbioso. «Ci lascerà passare?»
«Adesso lo scopriamo!» rispose Eris, segretamente eccitata al pensiero di un combattimento tra il fratello e la terrificante creatura. E trotterellando fianco a fianco, splendenti come due fiaccole in mezzo alla più fosca delle tormente, i due presero il sentiero avviandosi in direzione del guardiano, che dall’alto del suo masso li stava già osservando con occhi di fuoco.


Nessun commento:

Posta un commento